di Stefano Montes
È già accaduto, non mi sono nemmeno fatto male e mi ha aiutato inoltre a meglio «vedere che dobbiamo restar fermi alle cose del pensare quotidiano» (Wittgen- stein 1967: 65). È certo. È accaduto e, persino in aria, con la testa tra le nuvole, lo sguardo rivolto in basso, mi sono reso conto che si può ‘restare fermi’ al quotidiano, alla sua centralità nella vita di ognuno di noi. Sì, indubbiamente, restar fermi, per me, è comunque sempre un modo per vedere le cose in movimento, per rivoltarle sottosopra in chiave interdisciplinare, addirittura mentre si scivola e ci si potrebbe far male. Senza attrito alcuno? Senza reticenza, lo penso: anche restare fermi è movimento interattivo, con altri e con se stessi, con il contesto e l’eventuale testo, e l’attrito può tornare utile in alcuni contesti d’uso e non altri. Sì, sono scivolato tante volte, tante di quelle volte sono scivolato, su e giù, col sedere per terra e le braccia in aria, l’attenzione sorpresa e i pensieri in pausa, che avrei dovuto pensarci prima e non dopo, avrei dovuto capire subito, all’istante e al momento, magari andando avanti e indietro nel tempo, che scivolare, sì scivolare – proprio così, scivolare, ci siamo intesi al cenno – va al di là di un’azione improvvisa, sovente casuale, non intenzionale e fine a se stessa (in principio poveramente relegata da alcuni nell’ambito dell’infimo, impensato, trascurato, gradevolmente umido, non teorizzato, quotidiano).
Il quotidiano è pragmaticamente ricco e scivolare, nel suo complesso, va al di là del solo avvenimento episodico e casuale, chiuso in se stesso, circoscritto e limitato all’incidente puro. Si può effettivamente scivolare per caso, ma si può pure fare in modo che, nel tempo, diventi uno sport – talvolta agonistico, come lo sci o il nuoto – e dedicargli una vita intera in buona parte pianificata; si può – ancora – scivolare per caso e ammettere che «gran parte della vita sociale accade in modi non pianificati né attesi» (Rosaldo 2001: 147), che, proprio per questo – io ritengo, d’accordo con Rosaldo – dovrebbero essere studiati sistematica- mente (che è, in fondo, un’altra forma di pianificazione). Si può invece decidere, intenzionalmente, di prendere in conto lo scivolare come elemento di fondo di importanti risvolti teorici e pratici, sia antropologici sia filosofici (persino a partire da qualche scivolata concreta e personale, solo in apparenza banale e fortuita, com’è giustamente qui capitato a me). Si prenda l’esempio di Sartre che usa la bella immagine della carezza – la mano scivola sul fianco dell’altro – per illustrare la via che felicemente sfugge alle possibilità di una trascendenza del desiderio e rinchiude l’incarnazione entro i limiti dell’oggetto stesso:
«Solo la mia carne sa trovare il cammino della carne altrui ed io porto la mia carne contro la sua carne per svegliarlo al senso della carne. Nella carezza, infatti, quando faccio scivolare lentamente la mia mano inerte contro il fianco dell’altro, gli faccio sentire la mia carne, ed è ciò che anch’egli non può fare, se non rendendosi inerte; il brivido di piacere che allora lo attraversa, è proprio il risveglio della sua coscienza di carne […] Lasciarla scivolare insensibilmente lungo il suo corpo, ridurla a un dolce contatto quasi privo di senso, ad una pura esistenza, ad una pura materia un po’ serica, un po’ morbida, un po’ ruvida, significa rinunciare ad essere colui che stabilisce i centri di riferimento e dispiega le distanze, significa farsi mucosa pura» (Sartre 1965: 447-448, mio corsivo).
Che sia casuale o meno, quindi, scivolare fa parte della vita quotidiana in teoria e in pratica – incluso la comunione del desiderio e l’incarnazione dell’altro – e può essere un atto indicativo dei modi in cui, letteralmente e metaforicamente, ci proiettiamo nel mondo o ne prendiamo teoricamente le distanze considerando qualcosa un semplice caso irrilevante o, al contrario, un elemento di pertinenza metodologica. In fondo, la pertinenza stessa – sottolineiamolo en passant – più che un prerequisito fisso e valevole per ogni situazione, si può formulare individualmente e culturalmente, in maniera maggiormente consapevole, in relazione ai contesti d’uso, poiché «l’analisi presuppone sempre la scelta di un livello di pertinenza o cerca di riconoscere solo un certo tipo di relazioni, escludendone altre, ugualmente possibili da determinare» (Greimas, Courtés 2007: 358).
Per esempio, a proposito dei modi di concepire e analizzare le culture (e il concetto stesso di cultura), si può affermare che la tendenza – in termini di pertinenza più generale – consiste nel mettere in primo piano soprattutto i meccanismi di controllo sociali, in linea con l’impostazione durkheimiana secondo cui si evidenzia maggiormente la regola dell’ordine e si trascura l’elemento relativo al disordine, con effetti d’un certo tipo: «Quando si riduce l’operato della cultura a un meccanismo di controllo, si tende a perdere di vista fenomeni come le passioni, il divertimento spontaneo e le attività frutto di improvvisazione» (Rosaldo 2001: 160). Tra le cose citate da Rosaldo, da mettere a fuoco come livelli di nuova pertinenza per l’analisi, io aggiungerei proprio lo scivolare in quanto ‘concetto’, ‘pratica’ e ‘teoria’: sia casuale (sul quale si può riflettere a posteriori) sia intenzionale (sul quale si può impostare un programma di ricerca stabilito in anticipo).
Scivolare non è infatti soltanto scivolare in sé, cioè un concetto isolato da una rete d’altri concetti, svuotato d’un principio di teoria: di fatto un concetto è, in qualche modo, sempre in relazione ad altri concetti teoricamente rilevanti e differenziali, simili e dissimili, quali, qui, per esempio, l’‘attrito’ o l’‘impigliarsi’ di cui parla Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, concetti sulla cui valenza semantica – di segno opposto a scivolare – il filosofo austriaco ha costruito un approccio filosofico al quotidiano che consente di strapparlo al velo degli automatismi. Per affrontare il linguaggio comune è dunque necessario – mi chiedo – un approccio di natura opposta allo scivolare, quindi resistente, ruvido o irregolare che sia? Forse. Come scrive Wittgenstein, per quanto riguarda il quotidiano: «Gli aspetti più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. (Non ce ne possiamo accorgere, – perché li abbiamo sempre sotto gli occhi)» (Wittgenstein 1967: 70).
Il quotidiano, allora, oltre a essere preso in conto come ambito di ricerca sfuggente da sottoporre allo straniamento di chi lo osserva – in fondo il gioco linguistico di cui parla Wittgenstein non è forse questo? – è anche un ‘sito’ dinamico di interrelazione tra la pianificazione (che tende a trasformarsi in automatismo d’azione) e l’imprevisto (che produce un effetto di discontinuità nel quotidiano). Pianificazione e imprevisto sono due elementi della dimensione temporale e agentiva la cui pratica può prendere la via metaforica dell’attrito come quella dello scivolare. L’insistenza di Wittgenstein, qui e lì nelle Ricerche filosofiche, unicamente sul valore indifferenziato – dunque in termini semantici e non pragmatici – dell’attrito e della resistenza servono al filosofo a mostrare che i giuochi linguistici non hanno una finalità idealistica, né intendono essere un salto verso un qualche tipo di trascendenza metalinguistica. Altrimenti detto, insistere sull’attrito e sulla resistenza in una sola direzione, come fa Wittgenstein, significa affermare il carattere comparativo, strumentale e differenziale dei giuochi linguistici rispetto ad alcuni valori di riferimento (per esempio, attrito e resistenza) i quali rimangono indifferenziati nella loro concezione, indipendenti dai contesti d’uso, nella formulazione che ne fa il filosofo austriaco:
«I nostri chiari e semplici giochi linguistici non sono studi preparatori per una futura regolamentazione del linguaggio, – non sono, per così dire, prime approssimazioni nelle quali non si tiene conto dell’attrito e della resistenza dell’aria. I giuochi linguistici sono piuttosto termini di paragone, intesi a gettar luce, attraverso somiglianze e dissomiglianze, sullo stato del nostro linguaggio» (Wittgenstein 1967: 70-71, mio corsivo).
Si deve quindi, nei termini di Wittgenstein, tenere conto dell’attrito e della resistenza al fine di mettere in opera dei giuochi linguistici intesi come termini di paragone volti a individuare somiglianze e dissomiglianze. Detto questo (sul quale convengo), i giuochi linguistici possono inoltre risultare, a mio parere, uno strumento utile anche in quei casi in cui manca l’attrito e la resistenza viene meno. Infatti, ciò che rende i giuochi linguistici uno strumento efficace nella loro generalità è giustamente la valorizzazione della loro applicabilità nei diversi contesti d’uso. Io, per mia parte, a questo proposito – prendo qui me stesso come riferimento di contesto d’uso nel quotidiano – non vorrei far altro che camminare, all’aperto, su un terreno irregolare e pietroso, magari in salita, alla maniera dei romantici, per meglio mantenermi allerta e consapevole, saldo e incollato al suolo, lo sguardo alto al cielo e basso al paesaggio. In una parola, l’attrito mi è talvolta indispensabile per pensare meglio. Tuttavia, non apprezzo meno il valore dello scivolare e del mondo semantico parallelo relativo al divenire: un mondo, per me, da esplorare in chiave antropologica in tutti i suoi aspetti.
Scivolare, naturalmente, può essere un episodio così imprevisto, con ripercussioni non indifferenti nel vivere comune di un individuo, che si tende a rifiutarlo in blocco e a estrometterlo dall’ambito della ricerca. Scivolare, però, può pure essere uno dei modi attraverso cui l’imprevisto si presenta alla nostra vita al fine di farci riflettere sul nostro stesso modo di agire nel quotidiano: l’irruzione del discontinuo è di fatto un fenomeno di larga portata esistenziale che qui, nel caso dello scivolare, diventa particolarmente pregnante. Scivolare è, a posteriori – fortunatamente, direi – un quasi scivolare, se poi la si ‘fa franca’, con evidenti conseguenze per il vissuto presente d’ordine cognitivo ed emotivo: come d’altronde avviene pure spesso, dopo un qualsiasi incidente, in cui una valutazione prende avvio, per quanto breve dell’accaduto, talvolta della propria vita in toto e del riposizionamento del futuro e dei programmi d’azione correlati. «L’ho scampata bella! Stasera devo festeggiare», mi è capitato di dire quando sono letteralmente scivolato dalla traballante, troppo alta scala di legno su cui mi arrampicavo e dalla quale sono caduto. «Ora è venuto il momento di cambiare vita», ho affermato deciso quando sono rimbalzato con gran botto dalla sella del mio motore e sono scivolato per tanti e tanti metri sul suolo ruvido e inospitale per la mia faccia, per i miei gomiti.
A proposito di spazio (e delle sue valenze semantiche e culturali), visto che ci siamo, non bisogna dimenticare che scivolare può rappresentare, in senso più prettamente topologico, un ‘Altro’ dallo sguardo attanzializzato in soggetto operatore ma quasi privo di soma: uno sguardo rivolto all’infinito che tenta di andare oltre il colle, il cui risultato è invece un naufragare dolce del pensiero in verticale sul mare. Com’è noto, L’infinito di Leopardi, a cui faccio riferimento, è un modello teorico implicito – relativo alla cultura romantica – del modo di intendere, più generalmente, l’identità: una identità che è tensione verso un oltre la cui frontiera (la siepe compatta) impone un’altra direzione, quella verticale del naufragio (nel liquido mare). Ciò che è necessario rimarcare è che lo sguardo del poeta non scivola liberamente sulla dimensione orizzontale, ma trova un attrito – pur se non pieno e totale – che fa resistenza: la conseguenza è, si badi bene, il naufragio verticale non di un individuo nella sua interezza, ma del ‘pensiero’ soltanto, svincolato dal soma e dalle sensazioni (che forse piacerebbe, come idea, a Cartesio, ma non molto a me, personalmente).
Scivolare può pure essere assenza di attrito pieno che consente teoricamente – e mi consente, a me, individualmente, per carattere – di scorrere agevolmente su una superficie liscia e orizzontale, magari di stampo deleuziano, affatto ostile, senza colpo ferire, senza agire di mio o con calcolo, che concede al corpo l’agio di avanzare, per sé, senza scosse come una barca sulle onde, una slitta sulla neve, priva di intenzioni certe, sofferte. Alla deriva, alla buon’ora, il soma fa nuovamente capolino e il pensiero in sé viene meno. Io, se scivolo a pieno regime lo so, sono spensierato, al di fuori del sopra e del sotto, né su né giù, non certo ‘sovrappensiero’ e non posso nemmeno dire – l’italiano non me lo consente – ‘sottopensiero’. L’esser sovrappensiero me lo scrollo di dosso, mi scivola via dalla pelle e dalle orecchie. Mi scrollo l’essere e il pensiero che attira verso il fondo e scivola via in piccoli rigagnoli sottili sottili, come in Due note di Ungaretti: «Inanella erbe un rivolo,/Un lago torvo il cielo glauco offende» (Ungaretti 1969). Scrollare o inanellare? Scorrere o scivolare? Piuttosto un’esitazione tra l’isotopia dell’avanzare imperterrito (l’agente è il rivolo) e l’isotopia della resistenza che gli oppongono le forze avverse (le erbe sono gli antiattanti); più probabilmente, in contraltare, una contesa irrisolta tra la superficie orizzontale del lago e il riflesso che si staglia verticalmente dall’alto per proiettarsi in basso e rimbalzare nuovamente in alto. Io slitto, scorro, scivolo, guizzo e sguscio alla faccia della fessa fissità. Il pensiero solido me lo scrollo funzionalmente di dosso come acqua dai fulvi capelli bagnati, come il riflesso che rimbalza infranto dal lago al cielo (e dal cielo al lago). Glauco? Sulla pelle? Non per niente si dice ‘farsi scivolare le cose di dosso’, nel mio caso con pazienza e pure con impertinenza, nella mente e nel corpo, come l’acqua che ti bagna e il vento che ti asciuga. In siciliano, si dice di qualcuno che ‘l’accua u vagna e u vientu u asciuca’ che, se tradotto in italiano con ‘l’acqua lo bagna e il vento lo asciuga’, non vuol certo dire molto: non connota, come in siciliano, la capacità di opporre permanente indifferenza – cioè resistenza a oltranza – all’impermanenza delle cose e del mondo. Un mondo che si fa ostacolo e reagisce? Un mondo che reagisce al nostro bisogno di essere in cerca di qualcosa? Una vita come ricerca? Fluida (alla maniera di Joyce) o viscosa (alla maniera di Sartre)? Una ricerca che consiste, per l’appunto, nel «trasformare il mondo nel quale siamo scagliati in un mondo nel quale possiamo contribuire, al fine di ottenere un migliore equilibrio tra l’essere attori e l’essere agiti» (Jackson 2005: x, mio corsivo).
Allora, scivolare è soprattutto, per me, andare oltre se stessi e gli ostacoli, in libera presa, oltre la figuratività in apparenza statica del mondo e il nostro muoverci su di esso, talvolta in accordo e talaltra in dissidio: essere scagliati nel mondo può infatti equivalere a uno spostamento non voluto nel mondo saturo d’attrito a cui può fare però verso contrario la nostra azione oppositrice, uno scivolare affrancatore che, proprio perché libero della presa sul terreno, crea migliori equilibri tra l’agire e l’essere sottoposti a un’azione. Insomma, all’attrito risultante dall’essere scagliati nel mondo, si oppone il nostro scivolare libertario. Se l’attrito, però, diventa base meditata per una proiezione nel presente-già-futuro, mutando così la sua stessa presa metaforica sul terreno in impeto in avanti, allora vivere è magnifico e incessante divenire, nella fluidità dell’agire e del pensare che produce indistinzione temporale per spinte e scricchiolii, che «concepisce il senso delle frontiere come qualcosa da superare, spingere indietro, varcare» (Deleuze 1998: 42). Se, per di più, ci si lascia il nulla alle spalle, l’essere viene lietamente avviluppato nel «movimento totalizzatore che include il mio prossimo, me stesso e l’ambiente nell’unità sintetica di una oggettivazione in corso» (Sartre 1960: 140). Una dialettica in corso d’opera o un vero e proprio rito di passaggio? Io non penso e il mio pensiero insiste invece a correre, a scivolare, in autonomia. Su cosa? Dovunque: su superfici bagnate, purché superfici prive d’attrito fine a se stesso, a condizione che sussistano come senso e assenso. Per me, infatti, scivolare non è pensare che il senso non «esista, ma soltanto che insista o sussista» (Deleuze 1975: 27).
Se io scivolo, ebbene sono me stesso e sono pure quell’altro che sta passando, sono nella straniante duplicità dell’essere e nella proiezione dolce dell’attesa interiore in cui persino il mondo rallenta quieto, quasi immobile sotto i miei passi calcolati nell’esecuzione di un fluido kata all’aperto, tra gli alberi dai lunghi rami marrone chiaro. Cado? No, scivolo. Sono in aria, nel cielo blu, dopo lo scivolone, ma sto già per atterrare nuovamente, leggero e tuttavia pronto a risentire il colpo, l’assenso della gravità e la consistenza della presenza del mio corpo, ineludibile, assillante, sempre lì, a osservare ogni passo falso della mia mente, grave fardello eppure fonte di piacere e pratica caparbia dell’assenza, potente stacco meditativo e deliziosa pesantezza del galleggiare nell’acqua increspata dal vento caldo del sud, puntino inconcepibile all’altezza dell’ombelico in cui tutto si concentra per qualche minuto zen e poi, di nuovo, improvvisa, l’avventurosa dilatazione verso l’esterno, in corsa, sotto il tiepido sole, nel verde Parco della Favorita di Palermo, in primavera, con l’erba che fa capolino, qui e lì, tra i piedi. Scivolare senza freno alcuno? È possibile?
«Una nuvola scivola sul disco del sole» (Tranströmer 2008: 88, mio corsivo) e il paesaggio muta, il silenzio si trasforma in elogio della penombra, in trasporto in Giappone, con Tanizaki, nell’oscurità profonda del luogo che inghiotte – meno male! – l’inutile lucentezza dell’Occidente consumistico, un silenzio che si espande nell’aria, nello scivolare della mia immaginazione sregolata sotto le nere tegole di un tempio buddista che, magnificamente, «sembra di aver scelto di accucciarsi sotto la loro ombra densa e protettiva» (Tanizaki 1982: 39). Per nulla al mondo ci rinuncerei. Alla scena? Per nulla al mondo rinuncerei alla penombra della notte mentre passeggio, solo, macchina fotografica al collo, fino all’alba, nei dintorni del Santuario di Santa Rosalia, finché cominciano ad arrivare i primi tamil e qualche negoziante si appresta ad aprire il negozietto mentre le nuvole disinvoltamente in alto scivolano, poi si rinsaldano improvvisamente per sfaldarsi ancora e finire capricciosamente in tante piccole crepe leggere, come quella strana volta, a eterno mio ricordo della scena finale di un racconto di Poe in cui la casa degli Usher crolla sotto lo sguardo dell’osservatore che si lascia sfuggire – gli scivola dalle labbra nella magica sincronia instaurata tra cervello e luogo – una frase rimasta in me impressa come stampo indelebile sulla fronte liscia ma non viscida: «Il cervello mi venne meno al vedere che le possenti muraglie crollavano» (Poe 1961: 199). Può il cervello venire meno? Il cervello si sente venire meno, quasi fosse dotato di autonoma soggettività, quasi puramente somatica, come se fosse un obbligo che viene meno, quasi fosse la carezza di cui parla Sartre che si vuole dolce contatto privo di centro di riferimento essenziale, soltanto puro contatto esistenziale. Potenza della letteratura – suppongo – che instaura dei rapporti stretti tra la psiche e il mondo esterno prima ancora che la psicanalisi ne detti le leggi più esplicitamente con Freud o altri.
È inutile nasconderlo: alcuni scrittori, quali per esempio Poe o Maupassant, concepiscono un loro psichismo secondo loro teorie che non sono, sovente, purtroppo, irreggimentate in un sistema coerente e a cui gli studiosi possano pensare in modo articolato al fine di applicarle sistematicamente alla psicanalisi, all’antropologia o alla sociologia. Dalla letteratura, quindi, nonostante la non articolazione coerente, si potrebbe scivolare alle scienze umane, all’analisi delle scienze umane sulla base di principi letterari, e non al contrario, come più comunemente si crede! Si pensi alla Notte di Maupassant in cui un individuo vaga nottetempo, piacevolmente, per le strade di Parigi, finché il tempo comincia a sfaldarsi lentamente, a sgretolarsi sempre più e la passeggiata volge in vero e proprio incubo: la perdita inconsueta della usuale dimensione temporale, il rarefarsi dei passanti, l’ispessirsi dell’aria, provocano una sorta di indebolimento collaterale della dimensione soggettiva in ritirata anch’essa rispetto a un mondo che appare morto o, meglio, dà segno di scivolare nella morte. Al soggetto, giunto alle rive della Senna, non resta che lasciarsi scivolare, anch’egli, nelle sue acque senza più trovare la forza di risalire. Prima di scivolare nel fiume, il soggetto si chiede una sola cosa, quella sola e unica cosa che possa confermargli una traccia di vita, contenuta nel movimento fluido del fiume: «La Senna scorre ancora? Volli sapere. Trovai la scala, discesi» (Maupassant 1995: 216). Potenza dell’enumerazione! Virtù dello stile di Maupassant che in poche frasi, ben calcolate, raffigura un intero dramma metafisico. Il soggetto infatti perderà le forze e morirà perché, in concomitanza, anche il fiume scorrerà sempre meno e si arresterà, si bloccherà, sospenderà il suo elemento liquido trasformandolo in compattezza immobile. Vuol forse dire, Maupassant, che la liquidità, senza la forza dello scorrere, diviene altro ed equivale a un morire, uno spegnersi? Intende dire, Maupassant, che gli elementi di soggettività e oggettività sono in reciproca dipendenza? Credo proprio di sì.
A ben vedere, dunque, la passeggiata del soggetto per Parigi, verso la Senna, fin dall’inizio può essere letta come una proiezione fuori di sé verso l’annullamento del Sé nel fluire apparente del fiume, nell’assenza di controparte: più che una vera e propria passeggiata, si potrebbe allora parlare di uno scivolare sempre maggiore del soggetto che ritaglia – anche metaforicamente – l’asse longitudinale della città ed estingue, a poco a poco, il suo stesso essere soggetto, di conseguenza reso dipendente dal movimento di rarefazione della consistenza del mondo. In definitiva, ancora, sembrerebbe voler dire Maupassant, che, per essere soggetti, è necessario che la presenza del mondo si ponga in relazione al fare dell’agente che lo attraversa ma richiede una qualche presenza, una minima resistenza. Senza posizionamento o attrito, niente vita. Si può scivolare, sì, ma non bloccarsi, pena la morte. A volere leggere tutto il racconto di Maupassant attraverso alcune categorie in cui lo scivolare fa da operatore di senso in chiave metaforica, viene in mente l’ipotesi di Strathern secondo cui le «nostre proprie metafore riflettono una metafisica profondamente radicata le cui manifestazioni affiorano in ogni sorta d’analisi. Si tratta allora di sapere come decentrarle nel modo più efficace possibile» (Strathern 1988: 12). Il compito di noi antropologi è dunque quello, tra gli altri, di decentrare non soltanto le nostre proprie metafore, ma, anche, le analisi grazie alle quali noi (ci) decentriamo. Questo principio è tanto più valido se si tiene conto del fatto che le teorie (e non solo le analisi dalle quali esse derivano) sono veicolate in forma talvolta implicita dalle diverse ‘serie parallele’ di una cultura, ivi compresa, quindi, la letteratura che funziona da deposito latente di categorie semantiche tipiche del nostro modo di pensare. Tanto più, per tornare a Maupassant, che lo scrittore francese, attraverso la letteratura, aveva concepito implicitamente una teoria del soggetto e della psiche – sembrerebbe, a detta di Bayard – prima ancora di Freud. Come scrive infatti Bayard nel suo bel libro, per spiegare il suo approccio ‘capovolto’: «non si tratterà qui di leggere Maupassant grazie a Freud, ma, al contrario, di leggere Freud grazie a Maupassant, applicando la letteratura alla psicanalisi» (Bayard 1994: 13).
E mentre io penso all’insorgere della liquidità della notte, nel racconto di Maupassant, che non funge più da opponente-antiattante all’avanzare del soggetto (e alla sua psiche), scivola nella mia mente quella bella canzone, con tanti accordi in settima, di Capossela il cui motivetto fa «Scivola scivola vai via non te ne andare/Scivola scivola vai via via da me» e la cui dissonanza armonica mi tiene beatamene sospeso su un’immaginaria corrente marina d’acqua tiepida. Mi piace e mi diverte che, nella canzone, il movimento dell’andare via – sempre doloroso quando finisce un amore – sia invece rappresentato semanticamente dallo scivolare senza attrito, quasi liquido: uno ‘scivolare’, dunque, in alternanza con l’‘andare’ con il quale stabilisce sì rapporti di evidente similitudine semantica, ma, anche di reinventata opposizione pragmatica all’interno del contesto della canzone. È appunto questo è il problema che mi pongo – che mi sono posto fin dall’inizio, più in generale in questo saggio – a partire da Wittgenstein e dal suo uso del concetto di attrito nelle Ricerche filosofiche: per il filosofo viennese fare presa sul terreno scabro significa, metaforicamente, avere l’attrito necessario a prendere le distanze da quelle condizioni ideali che non consentono più di camminare, in altri termini non consentono di occuparsi del linguaggio quotidiano in sé, lontano dalle sofisticherie logiche e dalla trascendenza di alcuni rigidi metalinguaggi: «Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!» (Wittgenstein 1967: 65). Vale questa ipotesi per tutti i contesti d’uso?
Come ho teso a dimostrare qui, i contesti d’uso tendono a riconfigurare il senso generale di un concetto, ivi compreso quello di attrito o di scivolare. Se si usano, l’uno o l’altro, come punto di riferimento di un orientamento teorico, essi rischiano di diventare parte integrante di un metalinguaggio fisso che rimane in principio indenne dalle possibilità di riconfigurazione contestuale e, in definitiva, per quanto riguarda più particolarmente Wittgenstein, dagli stessi giuochi linguistici la cui funzione dovrebbe essere invece quella di fungere da termini di paragone che gettano luce sulla funzione del linguaggio tramite somiglianze e dissomiglianze. Se volessi riassumere brevemente quello che ho fatto in questo breve saggio, direi che ho messo in forza alcuni giuochi linguistici relativi allo scivolare, applicandoli a diversi contesti d’uso della mia vita quotidiana, ma, anche, più in generale ad alcuni antropologi, scrittori e filosofi, al fine di mostrare la valenza semantica e pragmatica del concetto di scivolare, necessariamente catturato, nella mia ipotesi, dalla rete di rimandi allo stesso Wittgenstein e ai concetti interrelati di attrito e resistenza da lui usati. Mettere in opera alcuni giuochi linguistici con un concetto – come quello di scivolare (o qualsiasi altro) – non significa ovviamente esaurire la sua portata contestuale; non significa nemmeno, tuttavia, che un’esplorazione – per contesti d’uso diversi e molteplici – di tipo pragmatico non possa prevedere una più generale organizzazione semantica tendente alla sistematizzazione. Se l’ho in qualche modo dato qui per scontato è soprattutto perché ho preferito ‘saggiare’ le acque – già abbastanza scivolose – dello scivolare procedendo per somiglianze e dissomiglianze. È possibile però fare qualche accenno in conclusione.
Il concetto di scivolare, anche facendo riferimento a un semplice dizionario, contiene infatti una struttura minima di partenza: un soggetto della performanza sprovvisto/provvisto di intenzionalità (secondo l’accezione comune non si decide di scivolare di propria volontà ma è anche vero che scivolare può diventare un gioco o uno sport che niente ha a che vedere con l’incidente); uno spazio rappresentato topologicamente (per scivolare è necessaria una superficie liscia); un tipo di movimento uniforme (si procede solitamente senza scosse); una forma di aspettualità solitamente d’ordine incoativo o terminativo (nell’azione si mette l’accento, in termini euforici o disforici, sull’inizio e sulla fine del processo) sebbene, proprio in controcorrente, possa talvolta prevalere il tratto aspettuale di tipo imperfettivo (allorché lo scivolare non vuole un definitivo concludersi dell’azione, ma protendersi nel tempo; una struttura attanziale caratterizzata dall’assenza di un antiattante antagonista (scivolare è un tipo d’azione che, in potenza, non prevede ostacoli di alcun tipo se non, forse, lo stesso scivolare).
Naturalmente, come si è ormai compreso nel corso della mia analisi, questa strutturazione minimale dello ‘scivolare’ è orientata (e orienta) i diversi contesti d’uso presi in conto. Non è qui possibile, per ragioni di spazio, prendere in considerazione tutti quelli da me analizzati e passarli in rassegna comparativamente, uno per uno, al fine di produrre una loro più ampia sistematizzazione. Basti però pensare, a titolo di esempio, al divenire di Deleuze, secondo cui la strutturazione di base dello scivolare andrebbe declinata attualizzando il tratto durativo (e non incoativo o terminativo) dell’aspettualità e fare emergere, in contemporanea, un probabile antagonista: questo vuol dire, traducendo un po’ all’ingrosso, che il divenire deleuziano sarebbe una sorta di scivolare permanente che va persino al di là degli ostacoli e delle frontiere che si oppongono al soggetto nella sua corsa senza fine la quale, comunque, travolge tutto. Quanto detto vale pure per il concetto di attrito e per la sua valenza metaforica. Geertz, per esempio, usa proprio la metafora dell’attrito di Wittgenstein per introdurre il suo testo su Antropologia e filosofia. Nella prefazione, Geertz dice di riconoscere in Wittgenstein una figura di maestro che gli consente di parlare di un pensiero che ritrova aderenza ancorandolo – personalmente, ovviamente nel suo specifico modo di intenderlo – su un’etnografia che rifugge dai sistemi astratti:
«ritrovare aderenza non è per me solo un’idea di per sé convincente, ma è un’idea, sottintesa e non formulata, che in primo luogo mi spinse a migrare da un campo all’altro, in entrambi i sensi della parola ‘campo’. Stanco di scivolare su lastre di ghiaccio kantiane, hegeliane o cartesiane, io volevo insomma camminare. Per lo meno volevo girovagare. Muovendosi tra luoghi e popoli […] non si costruisce tanto una posizione […] quanto piuttosto una serie di posizionamenti» (Geertz 2001: 11).
La ricezione, ivi compresa quella più neutrale dispiegata in ambito antropologico, dipende dal bagaglio di competenze che possediamo e dagli orientamenti culturali del periodo storico che consentono di catturare uno o più sensi tra i tanti ‘configurati’ da una metafora, oltre che dalle intenzioni di posizionamento teorico di uno studioso. Non sono così sicuro che l’introduzione del concetto di posizionamento (al plurale) nella terminologia di Geertz sia in linea con la filosofia del linguaggio di Wittgenstein. In altri termini, Geertz usa secondo me la metafora dell’attrito di Wittgenstein anche per trarsi d’impiccio rispetto alla sua antropologia d’ordine etnografico su base comparativa (che come tale implicherebbe comunque un metalinguaggio teorico volto a fare comparazioni) la cui mira etnografica tende, in aperto contrasto con Lévi-Strauss, a dissolvere la portata generalizzatrice dell’antropologia. Tant’è che dirà, proprio in Antropologia e filosofia, cioè un libro dedicato all’accostamento necessariamente anche teorico di due diverse discipline: «Io resto un etnografo e uno scrittore di etnografia, da cima a fondo, e non costruisco sistemi» (Geertz 2001: 8).
Per concludere, devo confessare – il momento è venuto adesso – che mi ero riproposto di parlare del concetto di attrito in rapporto alla globalizzazione in Tsing (Tsing 2005) e di rimescolare ulteriormente le acque facendo riferimento allo «scivolamento incessante del significato sotto il significante» secondo Lacan (Lacan 1974: 497, mio corsivo). Volevo inoltre fare un accostamento pirandelliano tra lo scivolare e l’ilarità a partire dall’espressione in siciliano ‘avi u sciddicu’ (ha lo scivolo) che, metaforicamente, vorrebbe dire che si incomincia a ridere e non la si finisce più. Ma ogni cosa ha il suo tempo: anche lo scivolare in sé, e persino il libero scivolare di concetto in concetto, di gioco linguistico in gioco linguistico, dei significanti e dei significati. Purtroppo! Mi riservo – almeno, questo sì – di chiudere con un’apertura: un estratto del testo di Taussig, il cui diritto di libero e scivoloso commento lascio al lettore attento e, spero, non affranto dalle mie libere associazioni joyciane (e talvolta pure freudiane); naturalmente, come conviene qui dire in ultima analisi, facendo attenzione a non scivolare sulla solita buccia di banana: la noia e lo scrivere intesi come inquadramento e non, invece, come straniamento. Eccolo:
«Ora voglio fare parecchie equazioni che non piaceranno a nessuno: la prima è che questa spaventosa noia che si trasforma in angoscia è molto simile alla noia dell’etnologo; la seconda che lo scivolare via da noi stessi non solo è ciò che rende possibile scrivere ma è lo scrivere. Come la noia, questo scivolare via può tradursi in una tremenda palla al piede, oppure in un qualcosa con cui lo scrittore deve venire a patti, innamorandosene, e riuscire così a separare lo scrivere da ciò che lo scrivere comporta» (Taussig 2005: 70, mio corsivo)
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Riferimenti bibliografici
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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