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Storie di donne a metà. I racconti di Maria Franzè

1-qualcosa-di-noi-copertinadi Mauro Geraci

Venticinque racconti, venticinque storie di donne che potremmo incontrare nella vita di tutti i giorni e che, nella scrittura di Maria Franzè, riescono a svelarci “cose” tanto più speciali quanto più calate e celate nel regime dell’ovvio, della quotidianità, di quella banalità che, d’altra parte, Hannah Arendt mise al centro della sua sconvolgente filosofia. Ed è proprio questo il tratto comune che fa di Qualcosa di noi (Masciulli edizioni, 2019) una raccolta narrativa particolarmente interessante per chi volesse coglierne le implicazioni psicoantropologiche; per chi volesse far proprio lo sguardo come l’ascolto di una giovane scrittrice che punta a scoprire, guardandole da una certa distanza (direbbe Giovanni Verga), particolarità, diversità, eccezionalità nelle storie più ovvie e comuni ma che ovvie e comuni affatto non sono.

Esplorazione psicoantropologica di storie di vita che, nel 2008, Maria Franzè avvia già col primo racconto, Il risveglio, attraverso gli occhi estraniati con cui la protagonista Sofia guardava al «palcoscenico urbano», al «panorama d’asfalto nero e lucido» dall’«odore di gomma e di elettricità», cercando di comprendere il cuore di quell’«esercito di persone, che marcia senza mai incontrarsi», agito e trascinato dalla «quotidiana guerra contro il tempo» (Franzè 2008: 13). A volte Sofia si rifugiava nell’infanzia perduta con l’improvvisa morte della mamma, nel piccolo paese dov’era cresciuta giocando all’aperto con altri bambini, dove aveva vagheggiato l’irta stradina che l’avrebbe ricongiunta alla madre tra le nuvole. Poi si ritrovava sola, schiacciata dal grigio vortice cittadino scandito dai clacson, dagli smartphone, dalle urla dei talk show televisivi e col marito Sergio perennemente incamiciato, incravattato, invasato di lavoro, in una casa troppo perfetta, pronta ai briefing coi colleghi dai sorrisi menzogneri, dove Sofia ogni giorno di più si sentiva «moglie oggetto», «statua», «oggetto inanimato», angelo di un focolare dove, alla sera, l’uomo camuffava d’impegni urgenti tresche su Messenger. Abbandonato Sergio e «la moglie di quell’uomo», Sofia allora «va alla scoperta di Sofia» e delle altre «donne bambola» che «vissero e morirono subendo fatalmente gli altri, senza riuscire a esprimere le loro personali aspirazioni». Senza sapere se fosse «una donna che sognava di essere un sogno o un sogno che sognava di essere Sofia», si risveglia e «parte alla ricerca d’altri luoghi, nello spazio infinito che dalla terra arriva fino alle nuvole promesse» (Franzè 2008: 40, 64).

La forza propulsiva che il sogno acquista ne Il risveglio, Maria Franzè, giovane scrittrice di Caulonia in provincia di Reggio Calabria, la centrerà del resto in una successiva poesia, Quel sogno (2014), appunto:

Da altezze remote
nello spazio infinito
vedo
quel sogno che non trovò dimora.
Da te sostò e ripartì.

Poi, questa vitalità alta, infinita, indipendente di un sogno che aleggia quasi autonomamente sulle vite degli uomini di cui, prima o poi, finisce per plasmare la realtà, viene ulteriormente resa esplicita dall’autrice in una recente intervista: «I sogni sono intuizioni, pensieri e sensazioni da inseguire e realizzare, liberandoci dalle frontiere dell’impossibile. Per me il sogno è il fuoco della vita, ciò che mi fa sentire viva, è riuscire a proiettarsi in spazi e tempi nuovi e inesplorati» (Gulino 2020). Nel sogno, cioè, Maria Franzè scopre via via funzioni tutt’altro che appartenenti all’ordine dell’onirico, dell’evanescente, del virtuale. Il sogno è fattivo, pratico, ricade nelle nostre azioni concrete finendo per orientarle nella costruzione della realtà e la scrittrice ne esplora gli effetti nell’intera sua produzione narrativa. Il risveglio, infatti, conduce a Noi due, perduti e lontani del 2011, breve, tragica lettera in cui a interrompere il sogno amoroso non è, paradossalmente, la distanza imposta dalla guerra ma le oscure logiche dell’abbandono. Da qui, alle due opere più recenti: Le donne, i bambini e la guerra (2018) in cui troveremo l’anticamera di Qualcosa di noi (2019).

maria-franze-il-risveglio-2008-copertinaQualcosa di noi o, forse, per molti aspetti, qualcosa di altri. Proprio perché, si diceva, con curiosità antropologica i racconti di Maria Franzè puntano a riscoprire e “fotografare” come altere, strane, particolari, eccezionali le scelte, le idee e le azioni di donne “normali”, incontrate nella comune vita di tutti i giorni. Distinzione tra noi e gli altri – ci dice nel complesso l’antropologia contemporanea, da Jack R. Goody fino a James Clifford, Ulf Hannerz e Arjun Appadurai – che lascia il tempo che trova: chi è veramente uno di noi e chi è veramente altro rispetto a noi che, da un momento all’altro, ci scopriamo mostri, meticci come migrati e migranti? Una dialettica noi-altri che, proprio per questo, Maria Franzè prova a scandagliare seguendone la varietà dei punti di vista, concentrandosi sui cambiamenti di status, sui movimenti esistenziali, sui piccoli grandi drammi, sui dilemmi vissuti da ogni donna protagonista delle sue storie. Così, ad esempio, «l’enigma di un amore a metà» che Ines sperimenterà tra Renato, l’innamorato che la farà abortire, e Giorgio, marito e padre modello di una prossima monotonia coniugale; così il dramma improvviso della disoccupazione vissuto da Paola e che si staglia tra i mille delle operatrici di un call center descritto nelle sue alienanti, spietate “filosofie” di modernità, nelle trasparenze del male direbbe Jean Baudrillard (1991), negli inganni flessuosi della smart life, nel criminale alternarsi di sfruttamenti e licenziamenti; così la commedia omosessuale di Adriana e Serena che, nel clima disintossicante della vacanza, sfocia nella tragedia di Linda e Massimiliano.

Si tratta di racconti la cui materia narrativa deriva da una disposizione all’ascolto che Maria Franzè matura sin da ragazza, nel piccolo, povero paese contadino di Ragonà, frequentando le prime compagne di scuola, le prime amiche; poi a Roma dove si reca a studiare Lettere alla Sapienza, trovandosi a contatto con ambienti più eterogenei e misti di studenti fuori sede provenienti da ogni parte del mondo. Inizia così a prestare un orecchio amorevole e speciale alle storie femminili rivolgendo a esse una scrittura derivante anch’essa dall’adolescenza e testimoniata dai tantissimi diari personali ancor oggi custoditi a casa dei suoi, in Calabria [1]. Quelle scoperte da Maria Franzè affiorano via via come ritratti di donne colte nei loro passaggi di vita, nei loro drammatici cambiamenti improvvisi. Sono storie di Donne a metà o di bambole usate, le definirebbe Cinzia Oscar, brava neomelodica napoletana, in una recente canzone del 2017, come in Nun so’ ‘na bambola del 2016:

Nun so’ na bàmbola
ca se po’ rimané
‘ncòpp’a nu mòbbele,
ca si ‘a faje male
nun te po’ rispónnere,
ca è bèlla ‘a fora
ma nun téne ll’ànema.
 Nun so’ na bàmbola
ca â può ffà tutto
e nun se piglia còllera.
Ma nun t’accuórge
ca io saccio chiàgnere.
Tu si’ egoista
piénze sulo a tte.

Similmente, quelle di Maria Franzè, sono donne riprese sempre in situazioni di passaggio, nelle fasi di mezzo in cui vengono trascinate, costrette a dibattersi. Sono, per lo più, adolescenti o di mezza età, «giovani vecchie» scrive l’autrice stessa in Gli sposi (2019: 179) e sempre smaniosamente in viaggio: le inspiegabili fughe di Natascia costretta, con Raul, a perdersi e ritrovarsi, scomparire e ricomparire vivendo Due vite separate e asettiche, «una per il mondo e una per loro stessi». Sono donne ‘ntra ddu’ cori, si direbbe in Sicilia, lasciate, tradite, separate, divorziate, in fuga tra un amore e l’altro, tra un timore e l’altro: così Lucia, l’ex hippie che subentra alla gelosissima Pilar nel rapporto con Pablo fascinoso gestore di Bed and breakfast; così gli Inizi mestruali della piccola Anna e la difficilissima scelta di Elsa a fuggire dalla crescente violenza del marito cocainomane, nell’indigenza e nell’abbandono di una periferia romana; così Margherita che vede Manuel tramontare nell’amorevole passato come Residuo di un sogno.

81hhpcbwjclQuelle ritratte da Maria Franzè in Qualcosa di noi sono donne precarie, al bivio, alle prese coi mariti alcolisti, drogati, viziati, sbandati oppure sordi e insensibili; sono donne pronte a ripensare se stesse per far fronte alle implacabili metamorfosi imposte dal tempo e da regimi psicosociali e morali che cambiano in continuazione o che, come nella storia di Fiona che in No si scontra col maschilismo sopravvissuto al referendum sul divorzio, tarda a trasformarsi. Si tratta di grandi mutamenti socioculturali – relativi alla sfera sessuale, domestica, familiare, sentimentale, lavorativa, etica – che la scrittrice riprende negli effetti prodotti nel particolare vissuto dei suoi personaggi: come ad esempio Emilia e Federico in Prima che il tempo cominciasse, come a voler cogliere le scintille infantili dei loro futuri infuocati, le ragioni delle distanze, delle perdite, dei ritrovamenti che risiedono nel passato remoto, che sembrano casuali ma che casuali non sono.

Con questa costante attenzione alle ripercussioni della società che cambia nei loro trascorsi relazionali e nelle loro sfasature sentimentali, Maria Franzè mantiene un faro acceso sull’agire di queste donne, sui loro tempi. Scruta, ad esempio, i Fugaci momenti di Giuliana consumati nell’incendio della fabbrica alimentare in cui si trovò costretta a lavorare dovendo rinunciare al suo sogno di scavare come archeologa nel profondo passato; contempla l’Orologio a cucù che scandiva la solitudine e il terribile spaesamento di Ada e del marito Leonardo, minatore, emigrato nella Foresta Nera. L’attenzione di Maria Franzè è, cioè, sempre rivolta al fluire della vita dall’infanzia alla vecchiaia (dalla culla alla bara direbbero gli antichi, grandi folkloristi meridionali), alle radici ancora verdi di un passato redivivo che torna attivo in un presente dove i personaggi si dibattono soccombendo o trionfando, in apoteosi di eventi ed emozioni.

È, ancora, il caso di Ricordi pungenti, per l’appunto, uno dei racconti più intensi di Qualcosa di noi. Un racconto che, oltretutto, affonda nel vissuto infantile della scrittrice, nei ricordi personali della Calabria rurale, in particolare nella difficile vita dei carbonai di cui propone uno spaccato etnografico delle tecniche tradizionali come delle fatiche e della fame. Nel racconto Loretta e il marito, il carbonaio Marcello, passano la vita a ricordare un’odissea montana segnata dalla miseria del dopoguerra, dalle terribili alluvioni, dalle fughe, dalle difficoltà ad andare avanti, da una fallita emigrazione in Germania, dallo sfruttamento, da un’andata e un ritorno accompagnati dai dischi e dalle musicassette che i cantastorie del sud producevano proprio per aiutare gli emigranti a prendere coscienza delle loro condizioni di subalternità, a lottare fronteggiando assieme la nostalgia. Così una nota canzone diffusa tra gli italiani all’estero da importanti cantastorie quali Franco Trincale, Rosita Caliò, Pino Villa:

Emigrante che vien
emigrante che va
la tua vita è un inferno
emigrante sarà… [2]

Ricordi pungenti è uno dei racconti in cui, oltre alle donne e ai protagonisti, anche i paesaggi e gli scenari sociali sono di mezzo: qui è la Calabria del dopoguerra, il nord degli emigranti e poi un Meridione di ritorno che attraversa i drammi voraci di una pretesa e presunta modernizzazione dove, alla fine, «dopo aver pianto tutte le sue lacrime», Marcello raggiunge Loretta «al di là del mondo, al di là del tempo». In altri racconti, invece, gli sfondi sociali sono i quartieri proletari, le periferie cittadine, il negozio di frutta e verdura dove, in Chi sei?, Alice s’unisce a Samir dopo averne scoperto la tragedia; sono le gabbie cittadine dove alligna la disoccupazione, lo sfruttamento, il precariato, il lavoro nero, l’emarginazione, le povertà endemiche, il malaffare, la violenza di mariti alcolizzati e la claustrofobia domestica da cui queste donne cercano di spiccare il volo come Aria, protagonista del racconto che chiude la raccolta.

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Maria Franzè

Qualcosa di noi, perciò, rappresenta un indubbio avanzamento di un progetto letterario molto più ampio, i cui futuri esiti, probabilmente, non sono noti neppure alla stessa autrice che, intanto, ha in procinto la pubblicazione di un romanzo risorgimentale. Resta il fatto che tale progetto risulta centrato su alcuni, fondamentali elementi ricorrenti di cui Maria Franzè esplora il ricco campionario delle possibili interconnessioni: le donne, il sogno, il tempo, il cambiamento, il viaggio, il conflitto. Capisaldi che trovano corrispondenze anche nella raccolta immediatamente precedente Qualcosa di noi, intitolata Le donne, i bambini e la guerra (2018). Corrispondenze è, del resto, il titolo che ne apre la prima sezione e che accoglie una serie di brevi racconti epistolari. Ad esempio le lettere che, sullo scorrere del secondo Novecento fino al Duemila, scandiscono arrivi e partenze, nascite e morti, fidanzamenti e matrimoni, «abbandoni forzati» e «distanze soffocanti», i sacrifici e i ponti narrativi, fotografici, proverbiali, poetico-musicali, festivi che le due sorelle Clelia e Vittoria e il marito di quest’ultima, Rocco, mantengono dalle terre straniere di New York e Stoccarda con San Nicola, in Calabria, per l’inesausto mantenimento della comunità immaginata come della continuità domestica, familiare, paesana, socioculturale su cui Benedict Anderson (1996) e gli antropologi tanto hanno scritto [3].

Seguono poi i bellissimi Ritratti d’infanzia che Maria Franzè rileva da un mondo sofferente, pervaso dalle guerre dove, ha scritto Luigi M. Lombardi Satriani, «s’avverte l’eco di un antico dolore che percorre un’inesausta speranza e attraversa la drammaticità – quando non tragica vicenda dell’emigrazione – degli sbarchi sulle nostre coste in un Mediterraneo divenuto sempre più una gigantesca tomba d’acqua» (2018: 437). Attraverso gli occhi del piccolo Sven e della mamma Jovanka tocchiamo, così, le atrocità della guerra in Kosovo, le distruzioni, le violenze subite, quindi le deportazioni, le fughe, i campi profughi, le clandestinità e i razzismi patiti da uomini e donne cui è stato levato il corpo, la lingua, l’identità, l’umanità. Con Simone entriamo invece nel clima nomade dei rom, negli «ingegnosi giochi» con cui nei campi si affronta la provvisorietà, il degrado, la calamità improvvisa, in una «mobile dimora» ben diversa da quella immersa nella «salamoia del benessere» da cui la piccola Lisa, prima di essere ricondotta al suo mondo di cartoni e fiabe, di sfuggita, una sera dopo un telegiornale aperto sulle guerre e sulle migrazioni, s’interroga e interroga i suoi rampanti genitori sui perché della ricchezza e della povertà, della pace e della guerra, dello spreco e della fame, lasciandoli letteralmente disarmati. Alla fine Maria Franzè ci va vedere I tre bambini in una vita sociale che è fatta di scambi continui, ben al di là del chiuso dei campi, dei ghetti, delle case superconfortevoli e supertecnologiche. Ci fa vedere i tre bambini incontrarsi fuori, all’aperto, nello spazio pubblico e democratico di un parco giochi, accompagnati dalle loro madri, dove i mondi in conflitto da cui essi provengono sembrano, per un attimo, mescolarsi armonizzandosi, convivere giocosamente tra altalene, scivoli e giostre riproponendosi come speranze di mondi migliori.

Tramite una scrittura che nell’immediatezza sa essere assieme asciutta e compassionevole, analitica e partecipata, lucida e commossa è forse questo l’aspetto più appassionato di questa fresca narrativa che pare far eco all’Elogio del movimento (1991) che il grande antropologo George Balandier avanzò nella sua celebre monografia sull’ineluttabilità e la bellezza del disordine socioculturale. Dall’opera complessiva di Maria Franzè emerge, cioè, un mondo da affrontare e gustare nella sua totale, necessaria, irriducibile diversità, nella sua fatale transitorietà e conflittualità, nel suo straordinario disordine fatto di sovrapposizioni continue, violenze, ibridazioni, drammi, d’incontenibili contatti, viaggi, migrazioni, di spazi pubblici condivisi come di piazze reali e virtuali che s’aprono e cambiano incessantemente e su cui, di tanto in tanto, è importante tornare a riflettere.

Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
 Note
[1] Testimonianza raccolta direttamente dall’autrice a Roma, l’8 ottobre 2020.
[2] Emigrante che vieni, emigrante che vai è una canzone molto diffusa nei repertori e nelle produzioni discografiche dei poeti-cantastorie del Sud e, in particolare, siciliani quali Pino Villa, Rosita Caliò e Franco Trincale di cui segnaliamo l’imminente uscita di una raccolta poetica che contiene molte ballate sui temi migratori: Pensu, chiudu l’occhi e scrivu. Poesie e disegni di un cantastorie, a cura di M. Geraci, Strade Bianche di Stampa Alternativa, Pitigliano (Grosseto) 2020. Per quanto riguarda i fenomeni dell’emigrazione e dell’immigrazione così come trattati nella canzone narrativa dei cantastorie rinvio a due miei lavori (1996, 2017) di cui, il più recente, pubblicato proprio su Dialoghi Mediterranei.
[3] Lettere, ricordi, preghiere, lacrime, baci, saluti, doni, scambi rituali di poesie e di canzoni commemorative come di fotografie, film, telefonate si profilano, nei contesti dell’emigrazione, quali strategie dell’attesa, della speranza, del ritorno. Esse, come rilevano studi quale, ad esempio, quello di Francesco Faeta (1989) e quello a cura di Cesare Pitto (1990), confluiscono nell’istituzione di una catena o ponte culturale la cui funzione è quella di provvedere, nel tempo, a riequilibrare gli scompensi d’identità prodotti dal distacco attraverso un biunivoco riadattamento dei valori folklorici a quelli dettati dalle nuove situazioni socioculturali.
 Riferimenti bibliografici
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2012 Modernità in polvere, Raffaello Cortina, Milano (ed. or. 1996).
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1996 Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Manifesto libri, Roma (ed. or. 1983).
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2019 La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano (ed. or. 1963).
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2020 «”Qualcosa di noi” di Maria Franzè», Le fleurs du mal, 26 settembre, https://lesfleursdumal2016.wordpress.com/2020/09/26/qualcosa-di-noi-di-maria-franze-masciulli-editore-a-cura-di-patrizia-baglioni
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1991 Il disordine. Elogio del movimento, Dedalo, Bari (ed. or. 1990).
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1991 La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi, SugarCo, Milano (ed. or. 1990).
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1993 I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino (ed. or. 1988).
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1989 Le figure inquiete. Tre saggi sull’immaginario folklorico, Franco Angeli, Milano.
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2008 Il risveglio, il Filo, Roma.
2011 Noi due, perduti e lontani, in AA.VV., Lettere dal fronte, Keltia editrice, Quart (Aosta).
2014 Quel sogno, in AA.VV., 500 poeti dispersi. Dedicato a Giacomo Leopardi e a tutti i poeti ritrovati, La Lettera Scarlatta : 146.
2018 Le donne, i bambini e la guerra, GM Press, Melito  di Napoli.
2019 Qualcosa di noi, Masciulli edizioni, Catignano (Pescara).
Geraci M.
1996 Le ragioni dei cantastorie. Poesia e realtà nella cultura popolare del Sud, prefazione di L.M. Lombardi Satriani, Il Trovatore, Roma.
2017 «Emigrazione e immigrazione nella canzone dei poeti-cantastorie di Sicilia», in Dialoghi Mediterranei, gennaio, 23, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/emigrazione-e-immigrazione-nella-canzone-dei-moderni-poeti-cantastorie-di-sicilia
Goody, J.R.
1981 L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Franco Angeli, Milano (ed. or. 1977).
 Gulino M.A.
2020 «Intervista a Maria Franzè», Nuove Pagine, 14 aprile 2020, http://www.nuovepagine.it/2020/04/intervista-a-maria-franze
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2012 Il mondo dell’antropologia, il Mulino, Bologna (ed. or. 2010).
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2018 «Maria Franzè. Le donne, i bambini e la guerra, recensione», Voci. Annuale di scienze umane, XV, pp. 436-437.
 Pitto C. (a cura di)
Per una storia della memoria. Antropologia e storia dei processi migratori, Editrice Ionica, Cassano Ionio (Cosenza).

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Mauro Geraci, professore associato di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Messina, è autore del volume Le ragioni dei cantastorie. Poesia e realtà nella cultura popolare del Sud (1997), primo studio sistematico sulle prospettive poetiche e conoscitive dei poeti-cantastorie siciliani. Da molti anni è anche riconosciuto quale attento interprete e continuatore dei cantastorie siciliani e, come tale, protagonista di una fiorente attività spettacolare che lo ha visto lavorare a fianco di famosi poeti-cantastorie quali, soprattutto, Franco Trincale e Vito Santangelo. Da anni ha rivolto il suo interesse antropologico all’Albania, dove la letteratura gioca un ruolo centrale nella ridefinizione della memoria storica del paese. Da qui il suo studio Prometeo in Albania. Passaggi letterari e politici di un paese balcanico (2014) e la cura, assieme all’archivista Simonetta Ceglie, dell’autobiografia della prima grande scrittrice albanese, Musine Kokalari, La mia vita universitaria. Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista. 1937-1941 (2016).

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