CIP
di Paola Bertoncini
Nelle aree minerarie il paesaggio si dà quando la produzione industriale cessa (Preite 2017). Il paesaggio, dunque, diviene tale quando ciò che caratterizzava il sito precedentemente non gli appartiene più; il paesaggio in questi contesti pare dunque svelarsi quando si cela ciò che l’ha prodotto. In questa relazione sembra così mutare il valore che al contesto si dà o si è dato; un valore che lega strettamente uomo e ambiente, vita e produzione riconoscendo al contesto ferito un nuovo senso, quello di trasformarsi in paesaggio. Paesaggio diviene dunque qualcosa al quale si deve trovare un nuovo valore, ma già nel riconoscimento del luogo in veste di paesaggio, nel nominarlo in quanto tale gli si attribuisce una stratificazione culturale ed estetica che ci aiuta a leggere con occhio diverso l’ambiente nel quale si vive.
La storia delle miniere di Cavriglia è quella che ho scelto per parlare di paesaggio alla luce di una trasformazione geomorfologica e idrogeologica piuttosto imponente. L’area in oggetto posta poco lontano da Firenze rappresenta qualcosa che per l’utilizzo del suolo e per la sua profonda trasformazione la avvicinano forse alla tematica delle cave e a tutte quelle riflessioni e progetti che vedono oggi proporre la valorizzazione di aree che ci appaiono come ferite in un contesto territoriale. Processi di valorizzazione che spingono a dare valore a qualcosa che ne crediamo privo; eppure, pochi decenni fa il sito minerario di Cavriglia aveva ancora un valore produttivo importante. In queste dinamiche relazionali il paesaggio diviene l’elemento sul quale si possono registrare trasformazioni interessanti da un punto di vista antropico. Lo slittamento di senso che porta il sito produttivo a divenire paesaggio quando viene dismesso pone in essere quel paradosso patrimoniale (Preite, 2017) che torna in discussione quando ormai il paesaggio necessita di essere valorizzato, di avere, cioè, un nuovo valore che vogliamo attribuirgli.
Il paesaggio è fatto di relazioni tra ambiente e uomo e «abitare significa lasciare impronte» ci ricorda Walter Benjamin; a questi siti attribuiamo un senso, una narrazione che leggiamo attraverso i residui che lasciamo in essi, manifestando così la nostra presenza anche nell’assenza. L’area delle miniere di Cavriglia era una zona nella quale dalla seconda metà del secolo scorso si scavava lignite a cielo aperto; questa forma di coltivazione, molto più veloce e produttiva rispetto alle gallerie, aveva portato con sé un costo da pagare: la trasformazione irreversibile del territorio nel quale famiglie di minatori, generazioni di lavoratori e mezzadri avevano vissuto. Questa storia oggi ci viene raccontata da vecchie fotografie, qualche memoria raccolta nel tempo e da alcuni filmati della Incom, soprattutto cinegiornali. Una evocazione dei luoghi che porta necessariamente ad interrogarsi su come poter leggere questo nuovo paesaggio che si è andato formando rapidamente e che ancora oggi non ha trovato una sua “valorizzazione” che possa concludere questo viaggio di 150 anni circa, nel quale memorie recenti, quelle umane, si sono dissolte per lasciare spazio a quelle geologiche.
Coltivare la lignite e coltivare la terra, due azioni che usano lo stesso verbo e che per produrre costruiscono paesaggi. Proprio in questa loro relazione trovo importante ricordare come si dia la storia di questi paesaggi, attraverso una rotazione piuttosto che una stratificazione:
«ipotizzare che il terreno si rinnovi girandolo con l’aratro. Allora anche il tempo sarà ciclico. Il passato sale quando scende il presente. Ciò che è sepolto non sarà mai dimenticato fino a che non risalirà in superficie e verrà ripulito. Se invece il terreno non viene girato ma lo si aggiunge, strato dopo strato, allora si registrerà il tempo come una sequenza lineare. A ogni strato ulteriore coloro che sono venuti prima precipitano sempre più nel passato e non risaliranno mai più. Un passato sepolto può affondare tanto profondamente da sprofondare e scomparire per sempre dimenticato come se non fosse mai esistito? Questa è la domanda del presente ma la risposta potrà venire solo dal futuro» (Ingold, 2021:90).
Il paesaggio delle ex miniere diviene così un contesto da leggere attraverso numerose fonti, basandosi sulle diverse percezioni che di esso possediamo, per ricostruire una storia per immagini, memorie e percezioni, tenendo sempre a mente che parliamo di scelte, selezioni, punti di vista estrapolati da un continuum spazio-temporale che è quello che racchiude l’intera vicenda. Pare quasi banale chiedersi quali letture si sono prodotte nel tempo, quali relazioni si sono innescate, quali rapporti ha avuto la comunità con la terra che abita; ma proprio interrogandosi su queste dinamiche si comprendono poi le azioni, le forme di co-progettazione e la volontà di “ricordare” che muove dalla comunità stessa oggi.
Il paesaggio esiste là dove si posa lo sguardo umano, e la sua lettura attraverso immagini, documenti, storie di vita ci aiutano a comprendere quali legami e quali ferite ancora oggi insistono sul luogo oggetto della nostra riflessione. La domanda da porsi è forse una: quale memoria del paesaggio costruiamo guardando le fonti? Che senso ha oggi riflettere su quelle immagini che hanno cercato di “fermare” con scatti fotografici o con riprese cinematografiche i mutamenti in atto nel territorio minerario e conservate in un museo? Oggi, però, sono proprio quelle documentazioni che facendo memoria dei luoghi ne rappresentano la storia selezionata dall’occhio di chi li ha guardati. Negli scarti fra ciò che si lascia perché muta e ciò a cui si va incontro che sta allo stesso tempo trasformando altri luoghi si tesse la narrazione della storia di Castelnuovo dei Sabbioni, dei paesi vicini, delle collettività e del paesaggio stesso che si riconosce al sito produttivo che non produce più in quelle forme del passato.
Il paesaggio si crea e si dissolve contemporaneamente in questa storia, muta, si trasforma e scompare alla vista ciò che era paesaggio nella memoria dell’abitante, ma ciò che è lontano dagli occhi non lo è dal cuore. Così la «la percezione del paesaggio – che ancora oggi possiamo leggere in queste fotografie non resta più – solo esperienza personale. Il paesaggio prende vita quando è oggetto di narrazioni» (Preite, 2017). Si assiste nel tempo a varie “forme” di paesaggio: quella di un “paesaggio espositore” (Gardies 1999 – Mariotti, 2016: 303), per passare ben presto al paesaggio espressione [per trovare infine una nuova narrazione nel] paesaggio – catalisi e nel paesaggio dramma” (Mariotti, 2016: 303).
«Il progresso avanza, domani questa leggera brezza non accarezzerà più le larghe foglie del granturco, passerà attraverso possenti strutture di acciaio, sfiorerà giganteschi tralicci, incontrerà sulla sua strada ciminiere alte come grattacieli. Il progresso avanza. Domani in tutta la valle del borro Pianale il canto delle macchine sostituirà il frinire delle cicale»,
narra la voce fuori campo del lungometraggio a firma Ubaldo Magnaghi, Santa Barbara: nuova realtà in Valdarno. Era paesaggio prima che il progresso avanzasse nell’idea dell’autore del testo; torna ad essere paesaggio quando il progresso non progredisce più perché nel suo fare ha esaurito il bacino lignitifero, fonte di produzione e di economia. In mezzo ci sono le persone che questi spazi hanno abitato e che ancora oggi abitano.
Per quasi vent’anni ho guardato i paesaggi attraverso lo sguardo di chi nel tempo si è visto portar via la terra sotto i piedi, cosa impensabile in una cultura mezzadrile, e che ha poi lasciato il proprio paese per esigenze minerarie; in tutto questo tempo ho anche osservato paesaggi attraverso il lavoro di chi li stava rimodellando, giorno dopo giorno, sulla carta e sul suolo. Per più di dieci anni ho attraversato questi paesaggi recandomi al lavoro e tutto questo mi impone, ancora oggi che li attraverso, di riflettere sul tema, affrontare la questione del mutamento e del rapporto uomo/spazio/risorse; mi porta a riflettere sul tema della percezione e della memoria, frammentati come gli scatti fotografici che affollano i computer del museo; mi spinge a rileggere il tema del residuo come elemento fondante la narrazione di queste terre e degli oggetti che, conservati, evocano qualcosa che non esiste più se non nella sua ricostruzione patrimonializzata e musealizzata.
Ogni oggetto può subire un processo di singolarizzazione (Kopytoff 1998) ad opera della collettività di riferimento, ancor più quelli che entrano nei musei e che spesso proprio dal rifiuto, dalla pattumiera (Clemente-Rossi, 1999) assurgono a nuova vita valoriale. Tutto questo è accaduto non solo a ciò che oggi si trova nel museo ma allo stesso territorio: passando da “rifiuto” a nuovo valore, dalla produzione industriale al paesaggio, cercando di dare un senso a un territorio e al proprio vivere.
I musei sono luoghi che costruiscono immaginari, finestre sulla cultura e specchi di chi la produce (Aimes 1992), sono luoghi di stupore (Clemente 1999) e spazi capaci di ricordare che il patrimonio è sempre in movimento (Hafstein 2018) ma senza la collettività oggi vanno poco lontano. Così con un museo si è provato ad oltrepassare la soglia sviluppando negli ultimi cinque anni una serie di progetti condivisi perché noi siamo i paesaggi che abitiamo; spazi/estensioni nei quali costruiamo le relazioni tra umani e ambiente. I paesaggi narrati sono tracce, testimonianze, ricordi che recano segni di qualcosa che ha avuto a che fare profondamente con la presenza umana.
«Gli abitanti, muovendosi o crescendo, inscrivono impronte o percorsi, oppure intessono scie nel tessuto della terra […]. L’aspetto notevole del palinsesto è che esso si trasforma non tramite l’aggiunta di uno strato sull’altro, ognuno con le proprie iscrizioni ma tramite la loro rimozione. Di conseguenza le tracce più vecchie affiorano in superficie così come le recenti affondano […]. Allora sul paesaggio il passato non è sepolto sotto il presente: in verità è più vicino alla superficie; il presente, invece, erodendo il passato affonda giù in profondità. Il passato risale mentre il presente discende: non è tanto uno stratificarsi quanto un ruotare» (Ingold, 2021: 92-93).
L’escavazione a cielo aperto ha prodotto oggi paesaggi nuovi come il paese nel quale molti degli abitanti rimasti si sono trasferiti. La trasformazione ha evidenziato nel tempo il processo di patrimonializzazione che ha prodotto nelle famiglie, per finire nella rigenerazione dei luoghi e nel museo. All’epoca si sapeva di perdere qualcosa per sempre. Forse si intuiva che si stava perdendo il rapporto con la terra, con quella idea di paesaggio che i mezzadri avevano costruito; si stavano producendo nuove narrazioni, una al posto dell’altra, una “contro” l’altra. La questione dei nomi che si sono dati a questo paesaggio è un esempio di come nel tempo si siano costruiti immaginari di esso: dopo il 1969 il bacino minerario che fino a quel tempo era stato definito una bolgia dantesca, si trasformò in paesaggio selenico o più comunemente lunare. La produzione mineraria era ancora in atto ma già là dove si scavava lo spazio diveniva paesaggio.
«Dare un nome significa organizzare il mondo [...]. Le attività umane imprimono sul terreno non solo un’impronta materiale ma anche la specifica denominazione» (Lai, 2004: 25). Osservazione calzante presa a modello anche per la nostra storia: di fatto la questione dei nomi continua ancora oggi a segnare i momenti di questo lungo percorso. Si avverte la necessità di “mettere in ordine” il caos prodotto dalla produzione mineraria per dar vita al nuovo paesaggio e a una nuova idea dell’abitare. Ad ogni parola che si è data a questi spazi nel tempo, fino a chiamarli paesaggi, si è aggiunto un pezzetto della storia, frammenti di eredità che gli eredi devono scegliere oggi se ereditare o rinnegare. I paesaggi sono fatti di sguardi e osservatori (Lai, 2004: 33) e di occhi questi spazi ne hanno avuti davvero tanti.
Cura come cura sui, della storia, dei paesaggi e dei mutamenti: i pubblici costruiscono i paesaggi di oggi come il museo MINE, che oggi è ospitato nel vecchio paese di Castelnuovo proprio sopra il nuovo paesaggio sorto dalla cessazione dell’attività estrattiva, attraverso le donazioni e attraverso la partecipazione; c’è una vita delle cose (Rosi 2016) che accompagna gli oggetti stessi e c’è una “memoria del dono” concepibile come un quarto principio della museografia (Dei, 2008) La partecipazione diviene così dono del proprio sapere esperienziale.
«Il paesaggio non identifica tanto una realtà oggettiva quanto piuttosto l’immagine e la percezione di uno spazio geografico da parte di qualche soggetto. In questo senso l’analisi del paesaggio passa sempre attraverso qualcosa di differente… [e] non a caso si parla di lettura del paesaggio» (Dansero – Vanolo, 2006: 11).
Parliamo di spazi che abitiamo, in cui la nostra presenza si intreccia con quella degli altri e sono proprio queste relazioni che formano la memoria degli stessi paesaggi. Siamo ciò che abbiamo deciso di essere selezionando, insieme alla naturale evoluzione delle cose, ciò che deve restare. Il contesto della nostra storia ci pone di fronte a un paesaggio, per chi lo sa guardare, naturalmente antropizzato: ampie vallate ricche di acqua e vegetazione; la loro storia, la loro densità emerge dalle tracce, dai documenti, dalle fotografie, dalle sonorità e dagli oggetti. Il paesaggio è costruzione culturale, senza dubbio il paesaggio odierno delle miniere di Cavriglia è una ricostruzione simbolizzata dell’assenza di una storia. Ma quali processi si attivano col passaggio generazionale quando iniziamo a parlare di memoria, e quale ruolo gioca il patrimonio prodotto, conservato, narrato e riletto in un museo e in un contesto territoriale così segnato dai processi economici e produttivi?
Il mutamento dei luoghi è stato così distruttivo da lasciare dei vuoti che necessitano di essere riletti per comprendere l’accaduto ma una nuova narrazione già si sta producendo dall’ininterrotto mutamento dei luoghi. La generazione Z che non ha abitato gli spazi della miniera si trova oggi ad abitare quelli “recuperati”. Quali processi di patrimonializzazione attiveranno questi cittadini in relazione ai paesaggi dati? Quale ruolo giocherà ciò che si conserva al museo? «I luoghi del ricordo segnano discontinuità» (Assmann 2002) e all’interno di questa constatazione si sono sviluppati negli ultimi anni progetti e riflessioni legati saldamente ad una educazione al patrimonio che non può prescindere dalla consapevolezza che apparteniamo a contesti in continuo divenire dai quali ricaviamo il senso della nostra presenza.
Posso dire che il tema oggetto della riflessione è stato affrontato in questi ultimi anni da diverse angolazioni proprio perché all’interno della parola paesaggio si racchiudono significazioni difficili da esplicare singolarmente, anzi, spesso si tratta piuttosto di traiettorie che si generano e si intrecciano e che propongono di esaminare la relazione che noi esseri umani abbiamo con l’ambiente che abitiamo. All’interno, dunque, di una visione complessiva del tema ad oggi il museo MINE ha promosso nove azioni, alcune delle quali ancora in corso lavorando con le scuole e con la collettività. Progetti per lo più co-creati per condividere la narrazione e crearne di nuove. La prima azione, giunta quasi per caso si è legata ad un progetto scolastico ampliandosi poi con la collaborazione con l’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della provincia di Arezzo, e curata dal SOA (Spazio Orientamento per l’Architettura), CTV Commissione territoriale Valdarno PPC Arezzo, l’Istituto Comprensivo D. Alighieri Cavriglia -Castelnuovo e il museo.
Una mostra, The Wellage. Il villaggio frutto della fantasia e dell’anima, un villaggio dove tutte le case sono esternamente uguali e solo sbirciando al loro interno possiamo coglierne la diversità. The Wellage ha raccontato della nostra relazione con gli spazi e col paesaggio ed è stata capace di mostrare «restanze» (Teti, 2022) e «tornanze» (Pazzagli, 2024). A questa prima azione è seguito il progetto Con gli occhi degli altri, che ha visto coinvolti direttamente gli abitanti del territorio e i turisti. L’idea era quella di far raccontare, utilizzando i canali social del museo, la relazione col paesaggio circostante attraverso la fotografia; si doveva impostare un dialogo paritario tra museo e pubblici dove la “parola” veniva data direttamente ai visitatori. Il progetto è andato avanti per tutta l’estate 2021 intrecciando sguardi e storie: ne è emerso così lo smarrimento del turista che una volta appresa dal museo la storia del paesaggio si trovava ad avere un contesto completamente diverso davanti agli occhi e quella dei residenti che invece sono parte integrante del mutamento ancora oggi in atto.
Un terzo progetto, Storie di una terra, ha portato invece a raccontare i paesaggi. Si tratta di un progetto nato nel periodo pandemico durante il quale era piuttosto complicato accedere fisicamente al museo e che impediva anche spostamenti fisici nei territori. Mi sono chiesta in quei mesi di chiusure forzate come, utilizzando le nuove tecnologie, si potessero raccontare i paesaggi e ho trovato la soluzione in una piattaforma online: attraverso una mappa di Google è nata una narrazione geolocalizzata che mira ancora oggi a confondere chi la utilizza perché se nel paesaggio digitale ogni luogo è accessibile da un punto di vista visivo e narrativo, nello spazio reale ciò non avviene: resta solo il racconto di ciò che i paesaggi erano poiché fisicamente in molti di quei luoghi oggi non ci si può andare perché non esistono più. Poi è nato il progetto h-Abitare, un foto-racconto dove ai volti degli abitanti si associavano i racconti di ciò che era l’abitare oggi in un’ex area mineraria. Anche in questo caso era interessante evidenziare il contrasto generazionale che non solo emergeva dai racconti di persone di età diverse ma soprattutto da persone che avevano abitato spazi diversi pur essendo tutti residenti in un’unica frazione che era stata nel tempo trasferita un po’ più in alto rispetto al vecchio abitato di Castelnuovo.
In tempi più recenti si assiste invece ad un recupero patrimoniale dal basso. La questione che lega il museo MINE all’Associazione Culturale San Donato in Avane è anche di tipo formale, essendo stato il museo coinvolto come uno dei soci fondatori dell’associazione assieme alle amministrazioni locali di Cavriglia, Figline e Incisa Valdarno, all’Istituto Comprensivo D. Alighieri di Cavriglia, all’Istituto di Istruzione Superiore Vasari di Figline e alla Casa della Civiltà Contadina di Gaville. Le azioni attivate negli ultimi anni si sono così mosse tra comunità patrimoniali formatesi autonomamente, passeggiate patrimoniali e progetti educativi per le scuole.
«L’Associazione Culturale San Donato in Avane si è formalmente costituita a gennaio 2023 ma operava già informalmente da diversi anni con l’obiettivo di raccogliere la storia di un paese scomparso e coinvolgere in questo processo gli ex abitanti. A una prima pubblicazione del 2019 ne è seguita una seconda nel 2022. L’idea di andare nei luoghi è invece più recente: entrare negli spazi della ex-miniera per ripercorrere strade nuove che conducono a spazi che niente hanno a che vedere con ciò che era il paese e la campagna circostante. In questo processo di riappropriazione del contesto giocano un ruolo rilevante le storie, quelle storie che sono confluite anche negli archivi del museo. Ogni passeggiata è dunque uno scambio informativo, un dialogo tra ciò che si è conservato e ciò che emerge sul momento; un altro piccolo tassello della narrazione che ricuce in un processo condiviso la memoria dei fatti. È lì che avviene il riconoscimento di un patrimonio che, perso materialmente, ha possibilità di vivere nell’immateriale del racconto. Le due passeggiate promosse nel 2022 e nel 2023 si sono tenute in luoghi particolari: la ex-miniera oggi paesaggio in riqualificazione là dove c’era il paese e la vecchia strada di pellegrinaggio all’Isolla, l’unica cappella religiosa sopravvissuta alla escavazione mineraria e oggi in fase di recupero. Camminare nei luoghi significa riprendere possesso di ambienti nei quali il tempo e l’uomo hanno lasciato tracce. Il racconto, dunque, diviene qualcosa di più articolato in un continuo rimando tra ciò che si ricorda, ciò che si esperisce sul momento e ciò che si conserva nei due musei coinvolti [...]. Il processo attivato dall’Associazione San Donato in Avane pur connettendosi col museo muove dal basso, dalle esigenze di una collettività che ha voglia di ricercare, conoscere, conservare e valorizzare il proprio vissuto e il proprio passato. [...] Nella costruzione delle passeggiate-racconto il processo che si attiva non è solo quello di recuperare le storie da narrare ma anche la “cura” di ciò che si ritiene essere parte fondante di un proprio essere e che si riconosce nel patrimonio circostante. Nello studio di queste pratiche di riconoscimento è importante valutare ciò che dal basso si muove e si promuove; un patrimonio che non può discostarsi da pratiche relazionali della società civile: preoccuparsi di organizzare l’evento, telefonare alle persone, prendere le prenotazioni, organizzare tempi e modi per visitare i luoghi, creare momenti conviviali condivisi nei quali il parlare assieme di ciò che si è si pone già come processo patrimonializzante. L’eredità culturale non sta solo nella storia raccontata dal basso, ereditata, ma nel reiterare il riconoscimento o, meglio, la cura che si dedica alla narrazione nel contesto spazio temporale nel quale si svolge. Essa ha modo di porsi così come agency della collettività» (Bertoncini, 2024).
Più recentemente l’attenzione al paesaggio si è spostata anche alle sonorità col progetto 10 voci per 10 storie perché anche i suoni hanno nel tempo segnato gli spazi delle miniere. «Quando nel 1994 chiusero le miniere sentimmo il silenzio», questa frase l’ho sentita ripetere spesso ad Alfonso; pare quasi un’esagerazione ma se andiamo a rileggere la storia delle miniere del Valdarno il silenzio indicava qualcosa di completamente diverso: uno sciopero, una serrata, un momento di protesta; il silenzio voleva dire che le miniere per qualche motivo non erano attive. La riflessione sul silenzio, elemento che oggi domina il paesaggio delle ex miniere è stato il punto di partenza del progetto che ha provato a rimettere in circolo le sonorità dei luoghi e dei corpi che abitavano e abitano ancora oggi le aree prospicienti le ex miniere. Le sonorità di questi spazi erano fatte di metallo e corpi, giovani, anziani, maschi e femmine; paesaggi sonori caratterizzati dalla tradizione orale mezzadrile che lentamente era confluita nel mondo industriale. Il progetto proposto dal MINE in collaborazione con Mine Radio, giovane web radio ospitata in uno spazio a fianco del museo, ha provato a rimettere in circolo queste sonorità attraverso la realizzazione di un podcast col quale le voci di ieri possono dialogare con l’oggi e i paesaggi sonori del passato possono essere ascoltati alla luce delle sonorità che oggi contraddistinguono i medesimi luoghi.
Attualmente il museo ha in corso tre progetti che parlano ancora di paesaggio e collettività, di memorie, narrazioni e patrimonio. Il primo si collega ancora alle attività promosse con l’Associazione San Donato in Avane e in questa specifica circostanza la scuola coinvolta è l’Istituto d’Istruzione Superiore Vasari di Figline Valdarno con varie classi di indirizzi diversi per sviluppare un progetto che partendo dal recupero virtuale dell’abitato di San Donato in Avane possa affrontare la relazione paesaggio-memoria trattando delle forme di oralità, delle forme di coltivazione dei suoli agricoli del passato, del tema del terzo paesaggio (Clément 2005) e del cibo, elemento essenziale che connette uomo e ambiente.
Il secondo progetto ha visto la collaborazione del museo con il Liceo Scientifico di Montevarchi e il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze per leggere nel paesaggio circostante lo spazio di indagine sui temi della biodiversità e del clima. Lo studio geologico della terra e in particolar modo quello dei pollini conservati nelle argille emerse durante il processo di escavazione delle miniere hanno permesso di esaminare le trasformazioni climatiche del passato collegandole con le problematiche attuali; i ritrovamenti fossili invece permettono di analizzare la trasformazione delle specie arboree in relazione alla trasformazione del Pianeta tre milioni di anni fa. Il terzo progetto infine, Memorie naturali, è un dialogo tra arte contemporanea e ambiente naturale. Attraverso opere appositamente pensate per il museo la giovane artista Elisa Pietracito