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Storie e memorie dalla Quarta Sponda alla madrepatria: da coloni in Libia a profughi in Italia

I genitori di Alessandro L., Camillo L. e Teresa P., tra le semenzaie di tabacco ricoperte.

I genitori di Alessandro L., Camillo L. e Teresa P., tra le semenzaie di tabacco ricoperte

di Giulia Castellani

Introduzione

Sebbene nell’attuale dibattito pubblico italiano non sia una tematica molto presente, all’interno della mia famiglia la memoria delle colonie non ha mai cessato di essere tramandata. Ha da sempre costituito il sottofondo dei pranzi e delle cene con i parenti, a tratti sommesso, a tratti più evidente; in gran parte articolato in frasi spezzate, iniziate e mai terminate, evocazioni elegiache di un passato ormai distante e irrecuperabile. In questo senso, il tema coloniale ha da sempre rappresentato per me una presenza e al contempo un’assenza costante.

Solo di recente, in sede di elaborazione della mia tesi nel 2022 [1], ho avuto modo di esplorare diversamente questo tema intervistando i miei nonni materni: profughi ed ex coloni di Libia. In quanto testimoni diretti, essi sono una risorsa inestimabile – fintanto che sono ancora disponibili per ragioni anagrafiche. Nonostante il progressivo tramonto delle esperienze e delle memorie vissute del colonialismo italiano non equivalga esattamente all’assenza di ricordo, il trapasso generazionale ne implica quantomeno un sensibile affievolimento. Nello svolgere delle interviste stesse mi ha colpita l’incredulità generata dal mio interesse per questo ambito: del tutto inedito per loro che non si sentono portatori di una Storia che li trascenda.

Tuttavia, bisogna tenere in considerazione i rischi connaturati a questo genere di testimonianze ascrivibili sia alla Storia in senso ampio, sia alla memoria familiare, senza cadere nell’autoreferenzialità. La dimensione di ascolto domestico le rende fonti orali preziose a cui poter attingere direttamente, eppure richiede le dovute cautele. Data la vicinanza e l’implicazione bisogna considerare il cosiddetto “potere seduttivo della memoria”, che tende a orientare la fruizione delle relazioni dialogiche. Antonius Robben[2] distingue tale “seduzione” dall’empatia che permette l’identificazione nei racconti di vita focalizzando i rischi di tentativi spesso realizzati inconsapevolmente dal testimone di persuadere il rilevatore del proprio punto di vista; a questa finalità risponde la retorica adoperata e l’accurata selezione delle argomentazioni che la accompagna. Inoltre, la categoria di “verità” va considerata alla luce della sua malleabilità rispetto alle istanze dei gruppi sociali egemonici: «Ricordare e dimenticare devono pertanto essere considerate pratiche collettive, che si incarnano nella voce dei singoli protagonisti ma si intersecano a rapporti di forza, a scelte di valore, a compromessi» [3]. In questo contesto vanno inserite le testimonianze dei due ex coloni intervistati, i quali – senza alcuna pretesa di esaustività – offrono uno spaccato peculiare dello scenario estremamente variegato della Libia fino al 1969.

Dal punto di vista metodologico, i nostri incontri sono stati articolati secondo un temario non rigido: i discorsi hanno proceduto per catene associative secondo il meccanismo proprio dell’interiorità dei soggetti parlanti, influenzati dalla struttura stessa del ricordo e dalla memoria intesa come fenomeno sociale. Bisogna riconoscere l’auto-ricognizione che avviene ad hoc all’interno del discorso provocato, volta a una rappresentazione del sé in difesa del proprio “quadro” di interessi; l’intervistato, infatti, non è chiamato semplicemente a enunciare un passato oggettivato, ma a raccontare il proprio vissuto: una dimensione in cui passato e presente si intrecciano indissolubilmente.

Pertanto l’analisi delle testimonianze non può prescindere da alcuni dati biografici fondamentali per la contestualizzazione dei discorsi riportati. Entrambi i testimoni intervistati sono nati sul suolo libico: Alessandro L. a Tigrinna (in arabo تغرنة) nel 1941 e Lidia P. a Garian (in arabo غريان) nel 1949; nel primo caso si tratta di un villaggio rurale di poco meno di duecento case coloniche, mentre nel secondo di una vera e propria città a ottanta chilometri a sud di Tripoli. Sulla base di questi dati di partenza le storie di vita in questione risultano considerabili come rappresentative della realtà semi-urbanizzata e ancora in fase di sviluppo che caratterizzava la maggior parte del territorio libico all’epoca dell’infanzia degli intervistati, elemento che influisce in maniera significativa sulla loro visione dei fatti narrati. Al rientro in Italia, dopo l’espulsione e l’esperienza del campo profughi ad Aversa, entrambi trovarono impiego nelle Poste Italiane a Latina e vi lavorarono stabilmente fino al pensionamento.

Intervista ad Alessandro L. e Lidia P. (Latina, 20.02.2022) 

«G: Come descriveresti il luogo in cui sei nato?
A: Quelle zone lì erano deserte, con la venuta di mio padre e altri coloni si è creata una comunità. Ognuno aveva il suo pezzo di terreno con la casa. Ci si aiutava l’uno con l’altro senza denaro. […] Tu dovevi mettere tanti metri di tabacco, 700-800 metri di tabacco, e negli altri potevi mettere grano con ortaggi. Non era una vita… All’inizio non si guadagnava, era un terreno arido e mal coltivato, perché loro non lo coltivavano per niente, erano tutti terreni che erano abbandonati. […] Dopo i trent’anni abbiamo potuto vendere ‘sta casa con questi duemila metri di terra: dopo trent’anni si diventava proprietari di queste case che aveva fatto “il Brigante” [Benito Mussolini], così lo chiamavano in Italia. Invece ci ha dato l’opportunità, una casa e il terreno. Quando ci ha dato la casa, sul camino ci abbiamo trovato il pacchetto di fiammiferi per accendere il fuoco. Quindi c’è stata una certa cura… Qui in Italia neanche i bagni c’erano ancora, dove stava mio padre in Abruzzo».
Prima pagina del contratto con l’Azienda Tabacchi Italiana (A.T.I.) di Vincenzo P., padre di Lidia P. contenente una prima definizione dei diritti e degli obblighi dei coloni sui terreni

Prima pagina del contratto con l’Azienda Tabacchi Italiana (A.T.I.) di Vincenzo P., padre di Lidia P. contenente una prima definizione dei diritti e degli obblighi dei coloni sui terreni

Nell’esegesi delle testimonianze non si può prescindere dal considerare le dinamiche che portarono i numerosissimi nuclei familiari nelle colonie e il legame con la madrepatria che esse comportarono: come tanti altri uomini e donne alla ricerca di fortuna di fronte alla dilagante disoccupazione in Italia, nel 1931 il padre di Alessandro L. giunse in Libia con un contratto stipulato dall’ATI (Azienda Tabacchi Italiana) che certificava il possesso di un appezzamento di terreno e della casa colonica a esso annessa. Documenti e legittimazioni di questo tipo furono e sono tutt’ora un appiglio fondamentale all’interno del contesto concorrenziale e altamente instabile in cui si trovarono ad agire. Inoltre, alla rievocazione della propria terra d’origine si accompagnano l’orgoglio contadino, strettamente legato alla riconoscenza per chi aveva dato loro «l’opportunità, la casa e il terreno» [4]. Tale visione si scontrò poi con i discorsi con cui entrarono in contatto al rientro in Italia e che influenzarono retroattivamente questo genere di riflessioni post factum. Esempio di ciò è la ripresa ironica dell’appellativo con cui gli italiani erano soliti riferirsi a Mussolini in atteggiamento di rinnegazione del ventennio fascista e quindi anche della loro esperienza di vita.

Significativamente, alle proprie considerazioni sono associate anche memorie di altri, dei propri predecessori, le quali rientrano comunque a pieno titolo nella memoria autobiografica. Quest’ultima va intesa, infatti, come un variegato montaggio di immagini, sensazioni e ricordi selezionati perché considerati rappresentativi del senso complessivo del sé secondo il fenomeno del nesting postulato da Uric Neisser [5]. All’interno della rievocazione della propria esperienza diretta è, così, naturalmente innestato il racconto della visita in Libia del 1937 di Benito Mussolini:

«A: Il nonno racconta sempre che ha fatto trovare [a Mussolini] al lato della strada di terra battuta due covoni di grano, chi metteva un lenzuolo, chi una tovaglia. Sai, passava il duce, [mettevamo queste cose] per fargli onoranze. Allora mio padre ha preso due covoni di grano e li ha messi accanto alla strada. Mussolini si è fermato – non è che c’ero io, è una storia che mi ha raccontato mio padre – Mussolini si è fermato, è andato vicino al covone di 70-80 centimetri, l’ha preso e ha detto: “Questa è la salvezza dell’Italia”. Perché c’era povertà anche in Italia all’epoca, non è che si viveva tra gli ori, manco l’argento c’era».

Inoltre, alle venature paternalistiche nei rapporti con i libici e ai toni elegiaci sopracitati si unisce, dunque, un particolare legame con la madrepatria; nonostante le terre conquistate fossero presentate come parte integrante e naturale estensione della Penisola, Quarta Sponda a tutti gli effetti, al contempo dalle narrazioni affiora una rappresentazione che vede protagonista una Libia edenica, proiettata in una dimensione “altra”. La visione sedimentatasi nell’immaginario collettivo evoca scene rurali di soddisfacente semplicità, steppe semi-desertiche dal sapore primitivo, primordiale, dalla straordinaria vicinanza allo “stato di natura”. Tale realtà, scissa dal mondo italiano seppur a esso intimamente connessa, non è che lo specchio della relazione coloniale in tutta la sua congenita doppiezza.

«L: I terreni prima erano incolti, almeno così dicevano. Erano un po’ incolti e poi piano piano l’hanno reso di più. Piantavano il tabacco, il grano, tante cose. Se si sviluppava di più, forse rimanevamo di più là, invece poi ce ne siamo dovuti andare in città a Tripoli. Le cose sono andate diversamente e quindi siamo andati in città a Tripoli. I miei ci piantavano il tabacco, il grano, c’erano le piante di ulivo. Poi piano piano l’hanno abbandonato, ce ne siamo andati e abbiamo lasciato tutto là. Io me le ricordo queste belle piante d’ulivo! Che bello quando cresceva il grano. Però poi nessuno ha piantato più niente perché tutti andavano via».

La risposta della seconda intervistata alla medesima domanda sembra coincidere con la prima sia nella forma, sia nel contenuto. Entrambe sono volte a sottolineare l’operosità degli italiani, ormai considerata consustanziale al carattere nazionale; la costanza dell’impegno è evidenziata retoricamente tramite la ripetizione in più punti della locuzione “piano piano”, con l’intento più o meno cosciente di rendere verbalmente il lento processo di appoderamento e costruzione – in antropologia, si direbbe: di appaesamento – del quale sentono di esser stati gli attori principali. La constatazione delle migliorie apportate suppliva implicitamente alla necessità di legittimazione del proprio operato e rimandava incidentalmente alla bonarietà degli italiani, della quale sarebbe prova tangibile l’impatto positivo sul territorio. I coloni, infatti, vivevano perlopiù in comunità agricole di nuova costruzione e lavoravano su terreni della Quarta Sponda da tempo indemaniati, ma non ancora valorizzati e per questo sperimentarono a pieno la colonizzazione propagandata dal regime: né interamente capitalistica, né solo contadina, ma «schiettamente fascista e demografica, statale e popolare assieme» [6]. Tuttavia, significativamente entrambe le narrazioni si aprono con la stessa menzione incipitaria – seppur indiretta – della controparte libica, con la quale gli intervistati istituiscono un raffronto spontaneo demarcando un “prima” e un “dopo” l’arrivo degli italiani. 

«G: Quindi eravate separati o vivevate vicini ai libici?
L: Molti [libici] abitavano in alcune grotte, però sempre nei dintorni. Io mi ricordo che di fronte casa nostra non c’era un altro podere, ma degli arabi che abitavano in delle case che avevano costruito loro o nelle grotte che vanno sottoterra. Io ci sono stata dentro: sono tutte in terra e ci sono degli scalini che scendono giù. Dentro c’è un cortile interno e da sopra fino a sotto li vedi. Intorno c’erano le stanze. Il cortile interno era preparato per ricevere l’acqua quando pioveva, perché c’era mancanza d’acqua. Non era da bere, ma si poteva usare per altre cose: per gli orti, per la campagna. Erano carine, erano simpatiche».
Costruzione dell’hotel Gebel a Garian (da sinistra a destra): Francesco Di B., Vincenzo P., Alessandro L. e un manovale arabo. Testimonianza della vicinanza sul luogo di lavoro nel contesto maschile.

Costruzione dell’hotel Gebel a Garian (da sinistra a destra): Francesco Di B., Vincenzo P., Alessandro L. e un manovale arabo. Testimonianza della vicinanza sul luogo di lavoro nel contesto maschile

Sebbene tutte le descrizioni prendano le mosse dalla constatazione dell’incuria che precedette la loro venuta, è evidente che tali affermazioni derivino principalmente dal sostrato di propaganda fascista propinata a priori all’opinione pubblica piuttosto che dall’esperienza diretta. La rappresentazione che si impose all’immaginario collettivo dipingeva costantemente le popolazioni autoctone come neghittose e negligenti, incapaci di mettere a frutto il terreno secondo gli standard europei. Ciò risulta evidente proprio dall’esame delle abitazioni berbere (i ksour): gli “indigeni” non mancavano di tecnica, bensì avevano sviluppato una diversa tipologia di adattamento all’ambiente circostante, presentato come “radicalmente altro”, lavorando in funzione di esso e non contrapponendovisi. Tali modalità di territorializzazione non furono comprese, dato che non collimavano con l’ideale di progresso nell’ottica positivistica e per questo furono automaticamente collocate su un gradino inferiore nella scala evolutiva. Basti pensare al fatto che i coloni guardavano questo genere di tradizioni e pratiche dall’esterno e talvolta letteralmente dall’alto, vista l’ubicazione sotterranea delle abitazioni. Solo in alcune occasioni le costruzioni in questione sono connotate positivamente come “simpatiche” – aggettivo dall’accezione oltremodo paternalista – mentre nella maggior parte delle descrizioni compaiono riferimenti dispregiativi ai libici come “topi” o “sorci” che si nascondevano al buio delle loro tane scavate nella roccia.

Pertanto, la condizione di separazione tra i gruppi nazionali risulta evidente anche sulla base della configurazione spaziale che si verificava pressoché naturalmente in questi agglomerati. Sebbene la progettazione urbanistica della “città coloniale” prevedesse le cosiddette “linee verdi” per separare gli “indigeni” dagli spazi riservati alla popolazione bianca, alcune fonti [7] riportano un fenomeno di chiara zonizzazione anche senza coercizione o demarcazione esplicita, riprodotta su scala maggiore o minore in base al contesto:

«G: Avevate rapporti con loro?
L: Con qualcuno sì, qualcuno che si conosceva, che magari conoscevano anche i miei genitori. Non ricordo i nomi. Avevamo quello che stava con noi, dormiva nel nostro podere e faceva una specie di guardiano. Lui era libico. Hai visto le case di campagna? Lui stava in fondo al cortile, mio padre gli aveva aggiustato una casetta tutta per loro e loro vivevano lì. Ci guardava, stava attento alla campagna, vivevano per conto loro. Però mio padre c’aveva fiducia di questo, perché stava attento a tutto: chi entrava, chi usciva, se c’erano delle bestie. I rapporti erano buoni, nel senso che non è che discutevamo o parlavamo “tu sei arabo e io sono italiana”, niente di questo. C’erano buoni rapporti, quella fiducia. A Tripoli, io lasciavo la finestra un pochino aperta e se mi allontanavo per andare dal macellaio, se sentiva Daniele piangere, mi chiamava. C’era quel rapporto così, [era] bello, bello perché non si parlava di razzismo. C’era questo rapporto senza nessun problema. Come se fosse stato con un altro italiano, anche se forse avremmo litigato di più! Certo, c’erano [anche] gente… in tutto il mondo c’è sempre gente [cattiva]. Mio fratello aveva l’agenzia che vendeva le macchine e c’era insieme a lui anche un collega, o meglio un socio. Se lo conoscevi per lavoro o altro, si cercava di creare un rapporto sincero, come ti devo dire.
G: Quindi i contatti erano più che altro per lavoro?
L: Sì, per lavoro o se lì conoscevi, li conoscevi così. Non è che ci uscivi insieme. Era difficile quel rapporto così. Mio fratello che aveva il lavoro, che diversamente aveva a che fare con loro, aveva un rapporto diverso. Ma io, non è che lavoravo con loro, a parte l’età, avevo diciannove anni quando siamo venuti via. Però se li incontravi ci si salutava, ci si conosceva: “Come stai? Come non stai? Come sta la famiglia?” Questo era il rapporto, però era bello. Non stavi a guardare le piccolezze, quello era bello. Non si pensava “perché lui è di un’altra razza”. Il pensiero non andava lì.
G: Tra di voi come comunicavate?
L: Ci facevamo capire. Io, per esempio, non lo parlavo proprio perfettamente l’arabo, mentre il nonno… Mio fratello era bravissimo a parlare l’arabo perché stavano più a contatto, quindi sapevano di più. Io l’arabo l’ho studiato solo a scuola, quindi poco: i numeri, qualche parola, quelle che studi a scuola. Anche se c’era qualcuno che conoscevo, però ci intendevamo. Loro che lavoravano, è logico, stando a contatto tutti i giorni dalla mattina alla sera, è logico che lo sapessero di più».

Per poter essere comprese al meglio le vicende identitarie e relazionali in atto negli anni Cinquanta in Libia vanno ricondotte nel contesto sociale in cui si iscrissero: sul suolo libico, infatti, si incontrarono comunità di diverse nazionalità e provenienze, rendendo l’incontro con l’Altro un tratto costitutivo dell’identità di ciascuna di esse.

Battesimo di Daniele L. e ricevimento all’interno della nuova casa a Tripoli poco prima del rimpatrio, 1969

Battesimo di Daniele L. e ricevimento all’interno della nuova casa a Tripoli poco prima del rimpatrio, 1969

A un primo sguardo, tale convivenza appariva pacifica. Ma l’idillio descritto dai testimoni è principalmente riconducibile alla limitatezza delle interazioni tra i gruppi, circoscritte per lo più all’ambito lavorativo e dettate dalla necessità. Inoltre, la distanza tra di essi era acuita dalla barriera linguistica, la quale non permetteva scambi profondi ed era fortemente condizionata anche dall’appartenenza di genere, dal momento che il lavoro costituiva il maggior fattore di aggregazione per le due popolazioni le donne ne rimanevano quasi sempre escluse. Va aggiunto che la condizione coloniale codificava una sperequazione costitutivamente incolmabile: a un livello superiore i coloni, molto più in basso i colonizzati. Si trattava di un divario dato per scontato, che rendeva impossibile, per esempio, una competizione paritetica.

«G: Si lavorava anche con i libici?
A: I manovali erano quasi sempre arabi.
G: E come erano i rapporti?
A: Con loro i rapporti erano stupendi, si andava d’accordo, io non ho mai, mai, mai baruffato con nessuno. L’arabo a parlare con loro mezzo mezzo, senza studiarlo; hai visto come è fatto l’alfabeto: e quando lo impari? Mi hanno voluto sempre bene. E quando andavi a lavorare fuori al deserto i manovali più di qualche volta ci facevano da mangiare il couscous, la polenta araba, e ce lo portavano a noi. La polenta si faceva con l’orzo abbrustolito, si fa come la polenta italiana e si fa tutto un sugo dentro una ciotola e si mangia con le mani: si inzuppa il sugo con le mani e te lo mangi, tutte sporche… ma che ti lavavi le mani là al deserto! ‘Chiappavi e mangiavi. Le donne arabe alla mattina venivano ai pozzi là vicino dove lavoravamo, noi dormivamo fuori, perché d’estate, sotto le lamiere e l’eternit, che volevo dormire là sotto? Mettevamo le brande fuori con i materassi e dormivamo e c’erano i pozzi vicino. [Le donne] venivano con una ciotolina e i secchi, quelli della conserva da cinque chili, facevano il manico con il ferro e ci portavano i fichi e ce li mettevano accanto al letto. Però non gli potevi dire né “a” né “e” né “o”, dovevi far finta che stavi a dormire: loro ti posavano i fichi e se ne andavano. Se tu volevi fare il furbo, non venivano più. Ti portavano quella roba, però dovevi stare attento. Con gli altri uomini si scherzava, si parlava, si dicevano le parolacce. A loro non gli dovevi toccare la religione, se gli dicevi “Andìnek”, [ovvero] “maledetto il tuo Dio” erano guai. Però, come dovrei dire, io non c’ho avuto mai da baruffarci con gli arabi».

Il quadro che emerge è più complesso e articolato rispetto allo scenario monodimensionale dell’assenza di razzismo. Sebbene i rapporti fossero intessuti con spontaneità, con altrettanta naturalezza era vissuta questa separazione nella sfera relazionale e affettiva, come quella spaziale. Se da un lato i contatti con la popolazione locale erano quotidiani, dall’altro essi avvenivano principalmente per fattori esterni quali la contiguità spaziale e la necessità lavorativa.

«G: Tra italiani e libici ci si frequentava?
L: Noi frequentavamo chi frequentavamo, la nostra cerchia. Sempre gli stessi posti con le stesse persone. Magari si andava a ballare da qualche altra parte anziché nello stesso locale. La vita di Tripoli era diversa da Garian, lì ci si conosceva di più, perché si stava in campagna. A Tripoli era una città, era molto evoluta, perché c’eravamo di tutti: inglesi, americani, ebrei, italiani. Eravamo internazionali. Si stava bene, non c’erano problemi. Poi ognuno aveva la sua religione, non c’erano problemi».

Indipendentemente dalla differenza del vissuto dei singoli, entrambe le testimonianze sembrano essere caratterizzate dal medesimo epilogo marcatamente apologetico: al liminare del discorso, nella posizione enfatica per eccellenza, spicca la nevrotica riaffermazione dell’assenza di tensione nei rapporti. Ciononostante, le componenti discorsive che concorrono a restituire l’orizzonte di riferimento del soggetto intervistato sono da rintracciare nella presenza di un sottotesto chiaramente polarizzato, nella netta distinzione tra i soggetti collettivi “noi” e “loro”, nonché nell’enumerazione ricorrente delle varie componenti della società libica, a sottolineare la differenza identitaria di fondo. Nonostante la mutua tolleranza tra la comunità italiana e quella libica, nessuna delle due parti sembrò nutrire un particolare desiderio di compenetrazione, ma ognuna coltivò le proprie abitudini e tradizioni separatamente. 

«G: Voi eravate invitati alle cerimonie religiose?
A: Noi non partecipavamo [alla celebrazione], [andavamo] solo la sera del matrimonio che facevano la festa. Tanto per dire: suonavano con la cornamusa e i tamburi, no? Tu la sera andavi là, ti sedevi e vedevi, e ti davano qualcosa da mangiare. Finiva la festa e te ne andavi. Ti andava bene con tre o quattro suonatori arabi che si mettevano piffero e tamburi: gli mettevano i soldi in fronte (cinque piastre, dieci piastre). Eh, i soldi che si facevano i musicisti! E tu ti vedevi una serata così di festa. E facevano anche la corsa dei cavalli: si mettevano su una collina, partivano con i moschetti che sparavano in aria, si mettevano anche all’impiedi sui cavalli. Facevano gli ornamenti dei cavalli, che erano uno più bello dell’altro: tutti ricamati e tutto. Loro usavano molto l’argento per le donne, tutte argentate erano le donne arabe, facevano il barracano bello e tutto, è un vestito sia in lana che per la donna in bianco di tela, invece l’arabo il gerd. Poi c’avevano tutti quei giubbotti ricamati, il cappello con il piumino dietro: il fez. Me ne ha riportato uno Nancy dalla Tunisia, noi chi ci pensava a portarsi una cosa di quelle. Invece a Daniele avevano portato il burnus: una specie di cappottino di lana con il cappuccio, tutto in lana era».
Chiesa del campo profughi: Maria, vicina di casa e profuga tunisina, insieme a Daniele L., 1970

Chiesa del campo profughi: Maria, vicina di casa e profuga tunisina, insieme a Daniele L., 1970

Le occasioni di festa si configuravano come le situazioni per eccellenza in cui fare esperienza della diversità. All’interno di questi contesti era possibile osservare tradizioni diverse da quelle italiane e “entrare in contatto” – seppure in modo limitato – con la cultura libica. I coloni, infatti, non prendevano parte a tutte le fasi della celebrazione, ma spesso partecipavano solo ai ricevimenti che seguivano i riti religiosi. Tale forma di esclusione, implicita all’interno dell’invito stesso, era percepita come “naturale” da entrambe le parti, a testimonianza della coscienza della differenza linguistica, culturale e religiosa. Dai racconti traspare un certo grado di distanza perfino nelle situazioni di maggiore vicinanza. Nonostante la reciprocità dell’invito sia portata come prova dei buoni rapporti intrattenuti, essa non denota alcuna particolare propensione alla compenetrazione. La pacificità delle relazioni va letta alla luce delle dichiarazioni di estraneità precedenti: cosicché, di fatto, anche durante i momenti di festa e di maggior condivisione, lo sguardo dei coloni resta esterno e su un piano di “scontata” superiorità. La situazione sociale delineatasi è assimilabile maggiormente alla salad bowl piuttosto che al melting pot: l’interesse, pur presente, per l’alterità non si traduce mai non solo in un “amalgama delle due culture” ma neppure in una interazione realmente paritetica. La Libia degli anni Cinquanta è esente da palesi scontri interetnici, ma la convivenza è caratterizzata da un conflitto latente.

D’altra parte considerare le testimonianze in questione come un repertorio di fatti “oggettivi” esporrebbe a un’inopportuna ingenuità: come già detto, va ribadito come esse rappresentino un “serbatoio di impressioni”, immagini e narrazioni impregnate di una precisa prospettiva, segnata dalla problematicità dell’attuale condizione di ex coloni e dalle necessità di legittimazione identitaria, tanto consce quanto inconsce. In una quasi totale “concentrazione sul Sé”, si assiste a una complementare obliterazione dell’Altro. Il punto di vista libico diventa “impensabile” e le sue istanze inconcepibili, al punto da scomparire dall’orizzonte cognitivo, ristretto inesorabilmente in una bolla destinata a scoppiare. In un contesto di doppiezza generalizzata, lo spartiacque drammatico e traumatico fu il colpo di stato del 1° settembre 1969.

«G: Non si sono mai verificati incidenti?
L: Non che io ricordi, poi la gente cattiva la trovi dappertutto. […] Fino a quando non è stato il colpo di stato il 1° settembre non ci si pensava. Non è che si parlava di questo passato, non sentivi queste discussioni. Anche in famiglia: non sentivi discutere di fascismo, benché mio padre sia stato in guerra e mio suocero lo stesso. Però non erano discussioni. Non si parlava di politica. […] Di politica si parlava poco, la politica era lontana. Quando si riunivano, gli uomini non si mettevano a discutere subito di politica, proprio per niente. Quando sono cresciuta un po’ ho saputo che si poteva venire a votare in Italia, ci davano quel permesso per venire a votare, penso che più di qualcuno sia andato, ma noi sinceramente no. Non ricordo che mio padre sia venuto in Italia per votare o cose del genere.
G: Non c’era partecipazione?
L: Forse c’era, ma io non ho mai sentito quelle discussioni, come tante volte facciamo qui. Forse perché c’avevano da fare. Se non mi sbaglio, quando è entrato Gheddafi hanno detto che dovevamo andare via, che dovevamo tornare. Perché secondo loro eravamo fascisti. Secondo lui e secondo loro eravamo fascisti, perché c’è stata la guerra e siamo andati ad occupare lì. Però i vecchi potevano essere fascisti, ma non i giovani, che di politica lì non si parlava tanto».
Set da tè, cimelio riportato dalla Libia

Set da tè, cimelio riportato dalla Libia

Già il 21 luglio 1970 Muhammar Gheddafi emanò i decreti di confisca ed espulsione volti a risolvere la “questione” della presenza italiana sul territorio libico: secondo un calcolo dell’Airl (Associazione degli italiani di Libia) l’ammontare complessivo dei beni espropriati corrisponderebbe a 400 miliardi di lire del 1970, pari a circa 3 miliardi di euro [8]. Volgeva così al termine l’esperienza di uomini e donne giunti sul suolo della Libia ancor prima dell’avvento di Mussolini: cittadini del Regno d’Italia nati nelle colonie, costretti al rimpatrio in una terra d’origine alla quale non sentivano di appartenere propriamente e dalla quale furono esclusi al momento del loro rientro in quanto propaggini di un regime, quello fascista, ormai superato. In questo modo la politica di Gheddafi mirò non solo all’abbattimento del dominio, ma al totale sovvertimento della memoria: l’obiettivo delle lunghe pratiche cui il suo regime obbligò gli italiani prima dell’espulsione fu proprio quello di sottolineare il loro status di “usurpatori” di cui egli si stava liberando. L’ostilità di Gheddafi può essere ricondotta all’atteggiamento di un capo che, more solito di ogni dittatura, necessitava di nemici su cui attirare strumentalmente l’attenzione del proprio popolo, dell’opinione pubblica e di quella internazionale, tramite i mass media. Tuttavia, è altrettanto evidente l’impossibilità di separare nettamente le vecchie generazioni di coloni dalle nuove, seppur meno avvezze alla politica e cronologicamente più lontane dal fascismo. 

«G: I discorsi passavano alla radio e si sentivano?
L: Io non stavo dietro alla politica, è stato il periodo in cui io avevo appena avuto Daniele. Anche perché noi eravamo tranquilli. Io [l’ho scoperto] perché la mattina mio suocero si è alzato e ci ha detto che c’era il colpo di stato. L’abbiamo saputo dalla radio. Nel frattempo è rientrato nonno Sandro a casa perché non l’hanno fatto passare per andare a lavoro. Lui si è preparato, tutto quanto e invece l’hanno bloccato per strada e gli hanno detto di tornare a casa. Io un po’ preoccupata ero, perché era appena nato Daniele, figurati. Ma mentalmente non riesci subito a connettere tutto. Io mi sono detta: “vabbè, passerà”. Lì per lì… poi piano piano invece…
A: La mattina del 1° settembre, piglio la macchina e: Pum! Pum! Pum! Sparavano. Ho fatto un chilometro, un chilometro e mezzo da casa e trovo un militare con il mitra e mi fa: “Dove vai?” “Vado a lavoro”. Allora lui mi fa: “Ma non lo senti?” “Che cosa?” Dice che stanno a sparare. “E beh? Oggi è il primo settembre, è aperta la caccia.” “La caccia? Altro che caccia, guarda che c’è stato colpo di stato! Lascia la macchina e vai a casa”. “Ma io come lascio la macchina qua? Vado a casa a piedi?” “Ma mi dici la verità che vai a casa?” “Se me lo stai a dire, vado a casa”. Ho girato la macchina e sono andato a casa. Arrivo a casa, accendo la radio: “Colpo di stato in Libia”. Ecco perché sparavano! Noi che eravamo là, non sapevamo niente. […] Avrà fatto bene per il suo Paese, ma nemmeno tanto. Perché lui se l’è vissuto bene, ma quelli li ha fatti soffrire».

A prescindere dalla realtà di fatto, queste parole sono indicative della percezione della comunità italiana, la quale sentiva di intrattenere ottimi rapporti con le popolazioni libiche. Da ciò deriva l’insistenza paradossale sulla pacificità nel contesto della rivoluzione riportata nell’aneddoto sopracitato. Secondo questa visione, il sodalizio tra le due parti sembrava sussistere anche in un’occasione anomala come il colpo di stato. Tramite i racconti, si assiste a scene di estrema disponibilità e cortesia, di improbabili dialoghi improntati alla cordialità, con la sola e unica clausola del rispetto del coprifuoco. Nonostante il portato di violenza senza precedenti per le comunità italiane sul territorio libico, le testimonianze in alcuni punti sembrano accogliere le ragioni della controparte, riconoscerne quantomeno la legittimità se non l’operato. 

«G: Dopo il colpo di stato cosa è successo?
A: Noi abbiamo fatto in tempo ancora a portare qualche valigia e qualche altra cosa, ma c’è stata gente proprio solo con la valigia, capito? Io i soldi li avevo spesi tutti là quando mi sono sposato, perché qualche lira prima ce l’avevo: fai la camera da letto, fai la sala da pranzo, fai a mio padre, rifai il bagno, fai la cucina e ho speso tutto quello che c’avevo. Arrivato qua in Italia ho fatto il campo profughi, un anno di campo profughi».

Così giunsero sul suolo italiano i “profughi d’Africa”: coloni sorpresi dalla sconfitta del fascismo nell’Oltremare e costretti a causa di varie istanze al rimpatrio. Il loro numero era consistente: già alla fine degli anni Quaranta ne sarebbero stati computati circa 90 mila dalla Libia, più di 50 mila dall’Etiopia, poco meno dall’Eritrea e più di 10 mila dalla Somalia. Sommati assieme questi profughi erano di gran lunga più numerosi dei reduci italiani d’Africa rimasti nell’Oltremare e rappresentavano un problema di consistente imbarazzo per i governi italiani [9]. 

«G: Ricordi che giorno siete partiti?
L: Siamo arrivati in Italia, se non ricordo male, il 3 marzo. Dal porto di Napoli siamo andati direttamente ad Aversa. Siamo arrivati in nave, l’impatto è stato terribile. Il viaggio è andato bene, ma la cosa brutta è lasciare il Paese dove sei nato, i ricordi…  L’impatto è stato terribile, almeno per me, quando siamo arrivati. Entrare lì nel campo profughi, un sacco di gente. Forse abbiamo avuto un rifugio in quel momento, però ti ritrovi dalle stelle alla stalla. Poi nonno ha dovuto cominciare a lavorare, piano piano, però terribile. Ti ritrovi senza casa, tutto in due stanze. Il campo profughi ti ripara, ma non è una cosa bella. Poi appena sposata avevo una bella casa e mi sono ritrovata in quella maniera. A Tripoli vivevamo in un bellissimo appartamento, lì ci siamo ritrovati in due camere di casa: in una ci viveva mia suocera, in una noi. Lì ci si faceva anche da mangiare, tutto. Con il bambino piccolo… Come si suol dire: “dalle stelle alla stalla”, come se ti ritrovassi per strada. Non più una casa, non più una cosa tua, il tuo intimo: è terribile. Per quanto sia, per carità… Però veramente non lo auguro a nessuno. Per quanto avessi un tetto, ma non una casa…
G: Il campo come era organizzato?
A: Appena arrivati al campo profughi d’Aversa, non ci potevano vedere, come i cani dentro la chiesa. Ci guardavano un po’ storti. Ora qui gli emigrati arrivano e possono andare in giro, noi eravamo chiusi dentro un recinto e quando uscivi c’era la guardiola [e ti dicevano:] “Dove vai? Cosa vai a fare fuori?” E serviva il permesso per uscire. Se uscivi e andavi fuori provincia, dovevi fare un verbale per quanti giorni stavi fuori e tutto quanto. Se uno trovava qualche lavoretto da fare, s’andava a lavorare una giornatella. Sennò lì ti davano da mangiare… lasciamo perdere. Invece, se ti arrangiavi, sopravvivevi. E c’erano le baracche al campo, noi critichiamo ‘sti poveri migranti, a noi c’hanno trattato quasi peggio: erano baracche di cartone con dei cosi di legno che si sostenevano. C’erano i bagni: 7-8 bagni per ogni 20-30 famiglie, hai capito? La doccia dovevi farla una volta alla settimana, non di più, hai capito? Io appena sono arrivato ho trovato a lavorare nella cucina del campo, ho cercato lavoro lì e mi ha preso: settemila lire al mese. Lavoravo e mangiavamo quello che ci davano al campo e un po’ di soldi fatti così.
G: Vi hanno risarcito?
L: No, almeno che io sappia. Poi il nonno ha fatto domande di lavoro. Io, per me ci penso sempre alla mia casa, appena arredata, figurati. È stato proprio un impatto… Poi, grazie a Dio, ci siamo rifatti. Grazie a Dio, abbiamo trovato un lavoro, però è stata dura, ci si ripensa.
A: Chi ti risarcisce? Io ringrazio a Dio quello che ho adesso, dei sacrifici e tutto. È stata una vita dura, dura, dura, dura.
G: Cosa ne pensavano gli italiani?
A: Gli italiani che stavano in Italia non ci volevano tanto bene. Eravamo malvisti, perché il lavoro per i profughi era il 7% nelle fabbriche, nello Stato, alle ditte. Dovevano assumere sette profughi per cento italiani. Erano un po’ arrabbiati. È anche logico, se noi eravamo a Tripoli e non tornavamo qui, quei posti erano occupati da italiani. Ma essendo profughi, era obbligatorio, anche oggi c’è la legge per gli invalidi e per i profughi, il 7% lo dovrebbero assumere per forza».

Nei numerosi campi profughi si concentravano famiglie con varie difficoltà di inserimento nella società della madrepatria. Terreno di coltura fertile per proteste di stampo nazionalista e nostalgiche, la loro precarietà fu percepita e utilizzata dai governi più alla stregua di una questione di ordine pubblico che di assistenza sociale. La giovane Italia repubblicana fu fra le prime nazioni a doversi confrontare con questo problema e non stupisce che vi sia giunta impreparata: furono adottati alcuni provvedimenti, ma di fatto la soluzione venne rimandata ai profughi stessi, alla loro capacità di riscatto e all’imprenditorialità dei singoli.

Considerati fascisti sia in Libia sia in Italia, furono oggetto di una forte esclusione sociale che segnò significativamente la memoria degli ex coloni. Alla mancata accoglienza nella madrepatria si unì l’affermazione di diverse istanze e di “interpretazioni del reale”, ma soprattutto del passato, divergenti dalla narrazione fino ad allora dominante. In una ripresa contrappuntistica al mescolamento percepito dai coloni è opposta la separazione subita dai libici e alla pacificità è sostituta la categoria di “invasione”, termine usato emblematicamente nei contributi degli studiosi africanisti in merito [10].

9788815273444_0_536_0_75Oltre il fascismo

L’ingresso improvviso nell’ordine discorsivo coloniale degli ex colonizzati, solitamente assoggettati alla narrazione civilizzatrice e paternalista, quando non di esplicito dominio, dell’Occidente, evidenziò la condizione problematica della controparte e ne determinò il progressivo allontanamento dalla storiografia. Ciò deriva dall’incapacità di ridefinire il proprio passato e quello dei propri predecessori in maniera critica, senza chiudersi di fronte alle istanze esterne e senza rigettare aprioristicamente l’alterità storica e culturale. In questo frangente risulta in maniera sempre più evidente che la memoria deve essere interpretata come un’azione narrativa e simbolica, nei confronti della quale le scienze sociali, storiche e antropologiche devono necessariamente affinare i propri strumenti ermeneutici:

«I tasselli che sorreggono l’autorità di una testimonianza autobiografica dovrebbero essere decostruiti, non per negare la verità narrativa trasmessa nella storia raccontata ma per valorizzarne la dimensione culturale e sociale, evitando di confondere il realismo testimoniare con la verità probatoria e probante. In sintesi la verità fotografica che gli aneddoti raccontati dai testimoni contengono può connettersi alla ricerca storica, ma non può sostituirla» [11].

71dpvhz8zcl-_ac_uf10001000_ql80_Vedendosi etichettati come “fascisti” sia in Libia sia in Italia, i rimpatriati si trovarono nella condizione di dover ripudiare e al contempo difendere la loro visione del regime, dato che sotto attacco era la loro stessa identità. Implicitamente, le critiche rivolte al fascismo erano percepite come azioni offensive mosse nei loro confronti, in quanto ultimi residui di una peculiare congiuntura storico-sociale. Tuttavia, essi vissero il periodo storico nelle colonie, in comunità agricole di dimensioni esigue, in un sostanziale deserto educativo e nella totale ignoranza delle istanze della controparte. Per questo motivo il fascismo che essi avevano esperito aveva un volto diverso rispetto a quello che gli era stato restituito al momento del rientro in patria: gli ex coloni non difendevano il fascismo in sé e per sé, ma ciò che esso significava nel contesto della loro storia di vita.

Associato al lavoro, alla fatica dell’appoderamento e alla volontà di godere dei frutti dei propri sforzi, il fascismo degli italiani di Libia raccoglieva al suo interno espressioni percepite come del tutto valide, ma che non tengono conto della realtà della controparte libica né tanto del nuovo dibattito italiano repubblicano. Per poter comprendere tale meccanismo è necessario leggere l’identità e la pratica memoriale in una prospettiva culturale, all’interno della quale secondo Roberto Beneduce:

«Il passato non appartiene mai soltanto ai singoli individui ma sempre, che lo si riconosca o meno, si intreccia ai discorsi collettivi sul presente e sulla storia. La memoria è inevitabilmente fatto individuale e sociale ad uno stesso tempo: le sue “leggi” non sono unicamente quelle fisiologiche dell’organizzazione neuronale o quelle psicologiche dettate dalle passate esperienze infantili ma anche quelle, altrettanto inesorabili, derivanti dalle norme sociali (norme che prescrivono la forma dei discorsi, indicano quali sono i luoghi della memoria che si possono esplorare, quali quelli che devono essere lasciati nell’ombra)» [12].

Data tale obliterazione dell’alterità, i coloni non concepivano che i libici potessero vivere una realtà discordante da quella che era la loro percezione. A ciò si unisce lo statuto ambivalente della Libia, Quarta Sponda a tutti gli effetti e realtà separata dalla Penisola, che contribuì notevolmente alla distorsione della loro visione. Essi, infatti, non erano a conoscenza né delle politiche interne ed estere operate dal regime di Mussolini in Italia, né delle questioni governative in Libia.

L’assenza stessa di evidenti conflitti nella Libia degli anni Cinquanta non va letta come un segno di una precoce pacificazione quanto come un sintomo della ritrosia dei coloni a riconoscere il diverso e il suo punto di vista.

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Laurea conseguita in Lettere e culture moderne con una tesi intitolata Quarta sponda: tra storia e memoria. Gli italiani in Libia, da coloni a profughi. Un approccio antropologico, relatore il professore Carmelo Russo, discussa in data 14.12.2022.
[2] Per i contributi relativi alla ricostruzione della memoria nello specifico contesto della dittatura militare in Argentina (1967-1983) vedere: A. C. G. M. Robben, Seduction and Persuasion. The Politics of Truth and Emotions among victims and Perpetrators of Violence, in Nordstrom e Robben, 1995: 81-103.
[3] R. Beneduce, Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Milano, FrancoAngeli, 1998: 110.
[4] Testimonianza di Alessandro L., 81 anni, pensionato, a Latina in data 20.02.2022.
[5] U. Neisser, Memory Observed: Remembering in Natural Contexts, San Francisco, Freeman & Co., 1982.
[6] N. Labanca, Oltremare, storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2007: 322. 
[7] Ivi: 418.
[8] A. Del Boca, Gheddafi una sfida al deserto, Laterza, Bari, 1998: 50.
[9] N. Labanca, Oltremare, storia dell’espansione coloniale italiana, cit: 439.
[10] In merito a questa prospettiva si vedano ad esempio: Habib Wada’a Al-Hesnawi, Note sulla politica coloniale italiana verso gli arabi libici (1911-1943), in A. Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo; Ahamed Mohamed Ashiurakis, A Concise History of the Libyan Struggle for Freedom, Tripoli, General Publoishing Distributing & Advertising Co., 1976.
[11] C. Di Pasquale, Antropologia della memoria – il ricordo come fatto culturale, Bologna, Il Mulino, 2018: 182.
[12] R. Beneduce, Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Milano, FrancoAngeli, 1998: 110.
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Giulia Castellani, studentessa della magistrale di Filologia Moderna presso l’università di Roma La Sapienza. È laureata in Lettere e culture moderne con una tesi dal titolo “Quarta Sponda: tra storia e memoria. Gli italiani in Libia, da coloni a profughi. Un approccio antropologico”, conseguita nell’anno accademico 2021-22.

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