Introduzione
Nella società contemporanea vi è una “deintellettualizzazione con perdita di conoscenza storica”, che porta a sovrasemplificare gli eventi [1]. Oggi, anche in un’ampia parte delle persone istruite, vi è, specialmente fra i giovani, un’incapacità di pensare la storia per la mancanza anche delle nozioni più semplici, un tempo fornite dalle scuole superiori, e ciò induce a trattare il presente come se non avesse un passato alle spalle [2]. Ritengo pertanto opportuno premettere alle mie brevi riflessioni sulla guerra in corso nella regione di Gaza qualche richiamo alla storia. Quella guerra è infatti il risultato di una vicenda lunga e complessa, che non consente sovra-semplificazioni. Per affrontarla criticamente, non si può partire né dal 7 ottobre 2023 (come vogliono alcuni), né dal 1967 (come vogliono altri), né dal 1948 (come vogliono altri ancora), anche se, naturalmente, quel che è accaduto in tali date non va dimenticato.
Alcuni richiami storici
Innanzi tutto è bene ricordare che né la presenza ebraica né la presenza arabo-islamica in quell’area sono cadute dal cielo. Secondo la Bibbia, la prima fonte scritta, ma ovviamente discutibile, gli ebrei sarebbero arrivati nell’attuale Palestina dall’Egitto ai tempi di Mosé (che peraltro non avrebbe visto quella “terra promessa”, molto ottimisticamente definita come “la terra in cui scorre latte e miele”). Vi sarebbero arrivati non pacificamente, ma sconfiggendo le popolazioni già lì presenti, che avevano cercato di respingerli, attaccandoli anche a tradimento quando erano prostrati dalla fame e dal lungo viaggio, durato quarant’anni, a quanto si dice in quel testo. La Bibbia invita gli ebrei a ricordare l’accaduto, con una frase che sarebbe diventata un elemento costitutivo della cultura ebraica, tanto da essere poi applicata a successive vicende: «Ricordati ciò che ti ha fatto Amalek, quando eravate usciti dall’Egitto: come ti assalì lungo il cammino e, mentre eri stanco e sfinito, aggredì tutti i più deboli nella retroguardia della tua carovana, senza alcun timore di Dio» (Deuteronomio 25, 17-18).
Gli Amalechiti, spesso collettivamente indicati col nome di quel loro mitico antenato, secondo studi non recenti e quindi non sospetti, sarebbero stati gli abitanti dell’attuale area di Gaza, allora non arabi e tanto meno islamici. In quella terra gli ebrei vissero per molti secoli, costituendovi i loro regni, ma poi, dopo la conquista romana, e più precisamente al tempo di Tito, quando dopo una loro rivolta il tempio di Gerusalemme fu distrutto per la seconda volta (70 d.C.), molti la lasciarono e si dispersero in altri Paesi, dando vita alla cosiddetta “diaspora” (come quel processo fu definito con termine greco). Ovviamente, la lasciarono molti, ma non tutti: l’abbandonarono soprattutto quelli di Gerusalemme, ma restarono gran parte degli altri.
Secoli dopo, in quell’area arrivarono gli arabi islamici, anche loro armata manu, provenendo anch’essi da un altro Paese: l’Arabia, dove aveva predicato Maometto, che aveva invitato a esportare la religione da lui fondata, una religione monoteistica diversa e in contrasto con l’ebraismo e con il cristianesimo, da cui pure aveva molto ripreso. Le conquiste arabo-islamiche, iniziate nella seconda metà del VII secolo d.C., non si fermarono lì. Arrivarono rapidamente, spesso trucidando chi non si convertisse o non si sottomettesse, anche in tante altre aree del Medio Oriente, del Nord Africa e anche dell’Europa (la penisola iberica e certe parti della Francia meridionale), dove furono fermati dalla resistenza armata di cui favoleggiano le chansons des gestes: prima la battaglia di Poitier (732 d.C.), in cui combatté Carlo Martello, al servizio dei merovingi; poi la battaglia di Roncisvalle (778 d.C.), in cui combatté il paladino Orlando, al servizio di Carlo Magno. In Europa orientale l’espansione araba era stata fermata a Costantinopoli dall’imperatore bizantino Costantino IV (674 d.C.), ma la conquista islamica riprese più tardi, a opera non degli arabi, ma dei turchi ottomani, che molto più tardi conquistarono Costantinopoli (1453), la capitale dell’Impero romano di Oriente, e giunsero a minacciare due volte Vienna (1529 e 1683), la porta dei Balcani per l’Europa centro-settentrionale.
Né si può dimenticare il trattamento che ricevettero gli ebrei della diaspora riparati in Europa. Nella penisola iberica, al tempo della dominazione arabo-islamica, il trattamento loro riservato non fu certamente così idillico come oggi sostengono alcuni “buonisti”, che attribuiscono impropriamente ai musulmani una concezione multiculturale, incompatibile con il Corano, che pur permise loro di beneficiare dello status di dhimmi, come fedeli delle “religioni del Libro”.. Né lo fu quello che ricevettero dai “re cattolicissimi”, che anzi, non appena conclusa la reconquista con il recupero di Granada (1492), nello stesso anno della “scoperta dell’America” che apre formalmente l’età moderna, espulsero dalla Spagna tutti gli ebrei che non si fossero convertiti al cristianesimo o non avessero finto di farlo. Alcuni ripararono in Portogallo, da cui però furono espulsi poco dopo (1496) e si trasferirono altrove, molti in Italia
Persecuzioni, discriminazioni e segregazioni, del resto, erano presenti anche in quasi tutti gli altri Paesi europei, come prosecuzione di quelle medievali, dettate o velate da motivi religiosi. In questo periodo, in molti Paesi (Italia compresa), gli ebrei vennero persino relegati nei “ghetti”. Il primo a essere istituito fu quello di Venezia (1516) e l’ultimo a essere abolito fu quello di Roma (1870), dopo la conquista della città da parte dei bersaglieri del Regno d’Italia (anche se c’era già stata una breve apertura durante l’effimera Repubblica romana del 1849, quella di Garibaldi, Mazzini e Mameli). Nel resto dell’Europa l’abolizione dei ghetti era stata decretata dalla Rivoluzione francese, anche se poi, con la Restaurazione post-napoleonica (1815), furono ripristinati in molti Paesi. Fra le eccezioni, va ricordato il Granducato di Toscana, più aperto alla libertà religiosa, dove per questo emigrarono molti ebrei.
In ogni caso, dopo le illusioni della Rivoluzione francese, che aveva proclamato per tutti liberté, égalité e fraternité (che però, nella sua deriva autoritaria, aveva negato anche ai suoi promotori), ripresero quasi dappertutto le discriminazioni e le persecuzioni anti-ebraiche. Si ebbero così sia gravissime sollevazioni popolari contro le minoranze, anche con motivazioni economiche, soprattutto nel vasto Impero zarista (i progrom sono chiamati col termine russo per devastazione), sia ricorrenti ingiustizie personali, di cui è diventato un simbolo l’Affaire Dreyfus (1894-1895), nella Francia repubblicana di fine Ottocento. Le aperture della Rivoluzione francese, prima, e la ripresa, poi, delle repressioni e delle pressioni psicologiche e culturali indussero così una parte del mondo ebraico a cercare di “assimilarsi”, almeno là dove sembrava possibile.
È nel contesto di queste vicende che sorse il “sionismo”, di cui oggi tanti parlano senza saper bene di che cosa si tratti [3]. Il sionismo, prima come elaborazione e proposta teorica, poi anche come movimento politico, nacque nell’Ottocento, in parte in contrapposizione allo “assimilazionismo”, sostenuto e soprattutto praticato di fatto da una parte consistente degli ebrei della diaspora, e in parte come risposta identitaria alla ripresa delle discriminazioni e delle persecuzioni [4].
Del sionismo vanno però distinte almeno due forme, pur in parte storicamente intrecciate: il sionismo culturale e religioso, che predicava un metaforico “ritorno a Sion” (sinonimo biblico di Gerusalemme e metafora della “terra promessa” [5]), e il sionismo politico, orientato invece alla costituzione (o, meglio, alla ricostituzione) di uno Stato ebraico nel suo antico territorio. Del sionismo culturale e religioso fu inaspettato promotore il tedesco Moses Hess (1812-1875), socialista e poi comunista, a lungo fraterno amico di Marx e di Engels (e, come loro, costretto a lasciare la Germania per motivi politici), co-fondatore del “materialismo storico”, cui diede un contributo notevole, ingiustamente dimenticato o cancellato (la cancel culture non è di oggi!) dopo la sua separazione dai due autori del Manifesto del partito comunista (che si erano anche occupati della “questione ebraica” [6]).
Nel fervore dei movimenti nazionali iniziati nella prima metà dell’Ottocento (in Europa occidentale gli ultimi Paesi a raggiungere l’unità nazionale sarebbero stati l’Italia e la Germania), Hess scrisse Roma e Gerusalemme. L’ultima questione nazionale (1862), in cui propugnava la rinascita nazionale del popolo ebraico, pur essendo pienamente consapevole delle difficoltà che avrebbe incontrato e delle reazioni che avrebbe suscitato. In quel testo Hess proponeva la creazione di uno Stato ebraico socialista in Palestina, come risposta sia al ritorno dell’anti-giudaismo sia alla diffusione dell’assimilazionismo.
Fra gli altri che ne parlarono in quel periodo, va ricordato il medico polacco Leon Pinsker (1821-1891), che, pur essendosi inizialmente pronunciato per l’assimilazione, di fronte alle grandi ondate di antisemitismo che si andavano diffondendo soprattutto nell’Impero zarista – da lui ben conosciuto avendo studiato a Odessa (dove nel 1872 c’era stato un grande progrom, cui altri ne seguirono in quella città, in Russia e in altri Paesi) – si convinse che era un’illusione sperare che una nuova illuminazione culturale e umanitaria (simile a quella del “secolo dei lumi”) sconfiggesse la “giudeofobia” (termine che preferiva al neologismo, oggettivamente improprio, di “antisemitismo”). Scrisse dunque un invito all’Autoemancipazione (1882), pubblicato anonimo in lingua tedesca e definito nel sottotitolo come un «avvertimento di un ebreo russo alla sua gente», per sollecitare gli ebrei a sviluppare una propria coscienza nazionale e a lottare per l’indipendenza. La sua analisi l’aveva infatti portato a credere che l’ebreo («un cadavere per i vivi, uno straniero per gli autoctoni, un nomade per i residenti, un mendicante per i proprietari, un milionario sfruttatore per i poveri, un senza patria per i patrioti, un odiato rivale per tutti») fosse odiato dovunque e dovesse quindi pensare a costituirsi da qualche parte un proprio “focolare nazionale”. Inizialmente non pensava alla Palestina, ma a qualche territorio ancora da colonizzare, in America settentrionale, in Argentina o in qualche altra parte del mondo. Ma, convinto che l’avversione per gli ebrei dipendesse per prima cosa dal loro essere percepiti come stranieri dappertutto tranne che nella loro terra di origine, fondò il movimento degli “Amanti di Sion”, che trovò un sostegno nel barone Edmond James de Rothschild e nella sua ricca e potente famiglia. Inizialmente la Russia non contrastò quel movimento e neanche la “Società per il sostegno dei contadini e degli artigiani ebrei in Siria ed Eretz Israel”, che Pinsker aveva costituito a Odessa. Ma all’immigrazione ebraica in quei territori si oppose l’Impero ottomano che allora li controllava, senza peraltro riuscire a fermarla del tutto.
Del sionismo propriamente politico il primo e più importante fautore fu il giornalista ungherese, naturalizzato austriaco, Theodor Herzl (1860-1904), che riconobbe apertamente il suo debito verso Hess e Pinsker. A Parigi, da corrispondente per la viennese Neue Freie Presse, poté seguire l’affaire Dreyfus, che gli fece toccare con mano quanto diffuso, forte e radicato fosse l’antisemitismo, come ormai si era cominciato a chiamarlo. Così, nel 1896, pubblicò in tedesco un appello per lo Stato ebraico (Der Judenstaat, 1896; presto tradotto in molte lingue), che considerava l’unica “soluzione” per la “questione ebraica”. In quale parte del mondo quello Stato dovesse essere costituito era anche per lui una questione secondaria, per quanto importante. Ma fra le tante ipotesi avanzate e discusse si fece presto strada e prevalse, al primo Congresso sionista mondiale da lui convocato (1897), la soluzione più naturale, la “Terra d’Israele”, per cui giocava sia il richiamo storico, culturale e religioso, sia il fatto che già vi erano insediati i discendenti degli ebrei che non l’avevano mai abbandonata per la diaspora, gli ebrei che vi erano arrivati nel corso dei secoli perché espulsi altrove e quelli che vi erano andati e vi continuavano ad andare alla spicciolata, soprattutto per motivi religiosi. Nel movimento sionista si diffuse così l’idea che per costituire uno Stato ebraico quella fosse la scelta giusta: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, come si cominciò a definirla, con un discutibile slogan, peraltro non inventato nel mondo ebraico, ma coniato da un cristiano restaurazionista, Alexander Keith, nel 1843 [7]. Continuava però la resistenza degli ottomani, che oltre tutto sapevano bene che quella, pur non molto abitata, non era affatto “una terra senza popolo”.
Così, durante la Prima Guerra mondiale, il movimento sionista, che aveva ormai raggiunto una certa consistenza, si rivolse al Regno Unito, che combatteva l’Impero ottomano, alleato degli imperi centrali, e, assicurandogli il sostegno ebraico (politico, economico e anche militare, con l’invio di una piccola brigata), ottenne dal ministro degli esteri Arthur James Balfour una dichiarazione (2 novembre 1917) che prevedeva la costituzione in Palestina, dopo la sconfitta ottomana, di una national home ebraica: una realtà pre-statuale che avrebbe dovuto aprire la strada a un vero e proprio Stato ebraico. Quella dichiarazione, cui si associarono l’anno seguente la Francia e l’Italia, alleati della Gran Bretagna, precisava peraltro che niente si sarebbe fatto che pregiudicasse i diritti delle altre collettività presenti in Palestina. A strappare quella promessa, in una lettera formalmente rivolta a Lionel Walter Rothschild, un banchiere svizzero di orientamento sionista, era stato Chaim Weizmann (1874-1952), leader di un partito sionista liberale, che nel 1901 era successo a Herzl nella guida del movimento e trent’anni dopo sarebbe diventato il primo presidente dello Stato d’Israele. Vale la pena di ricordare che inizialmente Weizmann, così come altri dirigenti sionisti, non era però contrario alla costituzione in Palestina di un unico Stato indipendente per arabi ed ebrei. Il che prova, fra l’altro, che era ben consapevole che quel Paese non fosse “una terra senza popolo” [8].
La Palestina sotto il mandato britannico (1922-1948)
L’Impero ottomano fu sconfitto e si frantumò. I suoi possedimenti nell’area medio-orientale passarono a Regno Unito e Francia, che se li spartirono, secondo un accordo intercorso fra loro all’indomani della guerra, in contrasto con la promessa di un grande Stato arabo indipendente che avevano fatto ai leaders arabi, anche tramite il famoso Lawrence d’Arabia, per ottenerne il sostegno. Dopo una iniziale resistenza. quella spartizione, pur di tipo coloniale, fu accettata dalla nuova Turchia di Mustafà Kemal Atatürk, che invece si preoccupò di ricuperare, muovendo guerra alla Grecia (1919-1922), le città dell’Anatolia abitate prevalentemente da greci, come Smirne, assegnate alla Grecia dal Trattato di Sèvres (1920), cedendole in cambio la Tracia, prevalentemente abitata da turchi, il che portò a un grande scambio forzato di popolazioni: una vera e propria operazione di “pulizia etnica”, cui i turchi aggiunsero l’espulsione dei cristiani armeni, in forme, che, a giudizio di molti, integrarono il primo genocidio dell’età moderna.
Dopo la Conferenza di Sanremo (1920), in cui i Paesi vincitori avevano adottato la dichiarazione Balfour, nel 1922 la Società delle Nazioni (costituita su proposta dal presidente statunitense Thomas W. Wilson, ma in cui gli Stati Uniti poi non erano entrati) sancì la divisione, già avvenuta, affidando alla Francia il mandato su Libano e Siria e alla Gran Bretagna il mandato su Palestina, Transgiordania e Iraq. Gli Stati Uniti stettero a guardare, ma il loro Congresso aveva approvato la dichiarazione Balfour, contestata invece dagli arabi già alla conferenza di Versailles (1919).
Il periodo del mandato britannico sulla Palestina può essere diviso in tre periodi: il primo (1920-1936) favorevole alla immigrazione ebraica; il secondo (1936-1944) orientato soprattutto a mantenere l’ordine, di fronte al moltiplicarsi dei conflitti fra arabi ed ebrei; il terzo (1944-1948) caratterizzato dalla repressione anche dura delle rivendicazioni d’indipendenza di entrambe le parti, dall’opposizione a un ulteriore immigrazione ebraica, nonostante gli stermini avvenuti in Europa durante la Seconda Guerra mondiale, e, infine, da un crescente disimpegno, in parte forzato, che portò la Gran Bretagna a rassegnare il mandato, all’avvicinarsi della sua scadenza, ma non alla Società delle Nazioni, bensì all’Organizzazione delle Nazioni, che le era subentrata nel 1945.
Nel primo periodo la Gran Bretagna, pur non dando seguito diretto alla dichiarazione di Balfour, operò nel suo spirito. Nominò così, come primo Alto Commissario per la Palestina, un ebreo non credente e di orientamento sionista, il laico e liberale Samuel Herbert, il primo ebreo che era diventato ministro del Regno Unito (1909) e sarebbe poi diventato segretario di uno dei maggiori partiti britannici, il Partito liberale, e l’unico membro di quel partito ad assumere la responsabilità di uno dei quattro grandi uffici dello Stato britannico, il ministero degli Interni.
Herbert, che già prima della dichiarazione di Balfour, aveva sostenuto che il Regno Unito dovesse impegnarsi in quell’area a favore degli ebrei, svolse il suo incarico per tre anni, dando prova di grande responsabilità. Nelle sue competenze rientrava, stranamente, anche quella, esercitata in precedenza dal sultano ottomano, di nominare il Gran Muftì di Gerusalemme, la più alta autorità islamica locale, ed egli scelse delle figure di orientamento moderato, superando le proposte non vincolanti delle personalità islamiche più rappresentative (il che non fece passare inosservato che quelle nomine erano state effettuate da uno straniero non islamico e per di più ebreo). Il primo Gran Muftì da lui nominato si rifiutò di firmare una dichiarazione a favore della costituzione di uno Stato ebraico in Palestina e fu da lui destituito; il secondo invece la firmò, pur apponendole in calce la clausola che quello Stato dovesse rispettare tutti i diritti degli arabi presenti (1922). Nello stesso anno la creazione di uno Stato ebraico in Palestina fu accettata anche dal re hascemita della Transgiordania (l’odierna Giordania), da poco messo in trono dagli inglesi.
In quel periodo, con la tolleranza britannica, si costituì anche l’Haganà, una milizia ebraica che aveva lo scopo ufficiale di difendere gli ebrei dagli attacchi arabi (nel 1929, ci sarebbe stato, nei pressi di Hebron, anche il massacro di una pacifica colonia di ebrei religiosi che vivevano lì già dal secolo precedente, con uccisione di donne e bambini, stupri e altre violenze). L’Haganà, però, trascese più volte la sua originaria funzione, rendendosi responsabile a sua volta di attacchi agli insediamenti arabi. Tra il 1924 e il 1932 la Palestina conobbe una forte ondata migratoria, proveniente in gran parte dalla Polonia, di ebrei askenaziti (di lingua e cultura yiddish), di livello sociale e culturale mediamente superiore a quello della popolazione ebraica già presente. Dal 1933 ne giunsero altre, dalla Germania, soprattutto dopo le leggi razziali e le discriminazioni e le persecuzioni del regime nazista.
Nel secondo periodo le tensioni fra arabi ed ebrei in Palestina aumentarono, portando a una vera e propria guerra civile, durata tre anni (1936-1939). Le richieste degli arabi di bloccare completamente l’immigrazione ebraica, porre subito fine al mandato e indire delle libere elezioni (da cui sarebbero usciti sicuramente vincitori, per la loro larga superiorità numerica), furono tutte respinte e le reazioni, anche molto violente suscitate da quei dinieghi furono duramente represse (gli scontri, secondo i dati ufficiali, causarono 5.000 morti tra gli arabi, 400 tra gli ebrei e 200 tra i britannici). Dopo il fallimento di tre diversi tentativi britannici di proporre una divisione della Palestina fra due Stati indipendenti (con l’esclusione di Gerusalemme, che sarebbe dovuta restare sotto il controllo dello Stato mandatario), il ministro britannico per le colonie, Malcolm MacDonald, pubblicò il terzo “Libro Bianco” sulla Palestina (17 maggio 1939), che prevedeva fra l’altro una drastica limitazione dell’immigrazione ebraica, che non sarebbe dovuta proseguire più di cinque anni, con un massimo di 75 mila arrivi, perché la popolazione ebraica non superasse 1/3 di quella totale.
Ma ciò portò solo a un consistente aumento dell’immigrazione clandestina, per cui si spesero le organizzazioni ebraiche in Palestina e altrove, anche per l’aggravamento delle persecuzioni in Germania dopo l’andata al potere del nazismo e la loro estensione in tutti Paesi da questa via via occupati dopo l’inizio della Seconda Guerra mondiale (1° settembre 1939). Le autorità britanniche vietarono anche l’acquisto di altre terre in Palestina da parte degli ebrei, decisero di rinunciare al mandato entro dieci anni e prospettarono la fondazione di uno Stato indipendente bi-nazionale, peraltro sgradito sia agli arabi sia agli ebrei. Ciò indusse, fra l’altro, gli ebrei a ricercare negli Stati Uniti quell’appoggio internazionale che prima avevano trovato, sia pur con alti e bassi, nel Regno Unito. Va notato, per contro, che l’allora Gran Muftì di Gerusalemme, Haji al-Husayni, assai diverso dai precedenti, nel suo odio fanatico per gli ebrei si era avvicinato a Hitler, che invitò a proseguire sino in fondo il suo disegno di sterminio e che sostenne persino il suo assurdo attacco all’Unione Sovietica, mandando a parteciparvi una brigata palestinese.
Nel terzo periodo si moltiplicarono le aggressioni agli inglesi da parte di gruppi para-militari ebraici, in reazione al loro nuovo orientamento considerato anti-ebraico. Già nel 1942 un gruppo di loro militanti, la banda Stern, aveva compiuto diversi attentati politici. Nel 1944 quel gruppo e un altro, l’Irgun Tzvai Leumi (Organizzazione Militare Nazionale), matrice del partito di destra Likud, attaccarono l’esercito e le istituzioni amministrative locali del Regno Unito con azioni di commandos e di sabotaggio. Nel 1944 la banda Stern assassinò al Cairo il residente britannico per il Medio Oriente. Dopo la Seconda Guerra mondiale questi gruppi intensificarono le loro azioni per indurre gli inglesi a ritirarsi dal Paese. Il 22 luglio 1946 giunsero a far saltare in aria il quartier generale dell’amministrazione britannica nell’hotel King David di Gerusalemme, causando un centinaio di morti (28 britannici, 41 arabi e 17 ebrei). Alla testa degli attentatori c’era Menachem Begin, futuro presidente di un governo israeliano. Il 17 settembre 1948 dei militanti di Irgun assassinarono il diplomatico svedese Folke Bernadotte, inviato dalle Nazioni Unite a sovrintendere alla spartizione della Palestina.
Era infatti accaduto che, alla fine della Seconda Guerra mondiale, l’agghiacciante scoperta dell’orrendo genocidio perpetrato dai nazisti (con la collaborazione anche dei fascisti italiani), aveva convinto gli alleati (che si sentivano responsabili di aver fatto ben poco per prevenirlo e per contrastarlo) che fosse giunto il momento di dare una patria agli ebrei che l’avessero voluta (una minoranza, anche fra i sopravvissuti, che però le organizzazioni ebraiche cercarono di convincere). Così, poco prima della scadenza del mandato britannico, il 29 novembre 1947, l’Organizzazione delle Nazioni Unite aveva approvato a larga maggioranza la spartizione della Palestina fra arabi ed ebrei, con la costituzione di due Stati, dai quali sarebbe dovuta restar fuori l’area di Gerusalemme, compresa Betlemme, da porre sotto controllo internazionale, così come era stato previsto nel “Libro Bianco” del 1939. Il progetto era stato sostenuto, di comune accordo, da Stati Uniti e Unione Sovietica, pur già in profondo conflitto su altri fronti. La Gran Bretagna si era astenuta, così come la Cina, ancora rappresentata dai nazionalisti. La Francia, inizialmente orientata anch’essa per l’astensione, finì per votare a favore, per pressione degli Stati Uniti. Tredici Stati votarono contro, fra cui tutti gli Stati arabi (Arabia Saudita, Egitto, Iraq, Libano, Siria), l’Iran e la Turchia. I palestinesi, non rappresentati nell’Assemblea (così come gli ebrei), espressero, fuori dall’aula, la loro contrarietà.
Lo Stato d’Israele, il “rifiuto” arabo e l’inizio delle guerre
1948. 4 maggio. La proclamazione dello Stato ebraico. Alla vigilia della scadenza del mandato britannico, viene proclamato, nel territorio assegnato agli ebrei dalle Nazioni Unite, lo Stato ebraico d’Israele, subito riconosciuto da Stati Uniti e Unione Sovietica: uno Stato di piccole dimensioni (14.000 km², inferiore per territorio alla Calabria), ma con un buon accesso al Mediterraneo e al Giordano (principale risorsa di acqua dolce dell’area), dalle sue sorgenti al lago di Tiberiade, ma anche con ampie aree semi-desertiche e desertiche, come il triangolo del Negev, che arriva nel golfo di Aqaba, sul Mar Rosso, dove ora c’è Eilat. Ai palestinesi fu attribuito un territorio di poco più piccolo, senza i terreni più produttivi ma anche senza grandi aree desertiche, con un accesso diretto all’acqua del Giordano dal lago di Tiberiade al Mar Morto. Ciò non bastò ad assicurare la pace. Fu, anzi, l’elemento scatenante delle guerre successive, iniziate quasi tutte dagli arabi.
1948. 15 maggio. La prima guerra. Il giorno stesso in cui le truppe britanniche lasciano la Palestina, lo Stato ebraico, appena proclamato, viene aggredito da cinque Stati (Egitto, Transgiordania, Libano, Siria e Iraq) e da gruppi palestinesi, convinti di poterlo distruggere in un batter d’occhio e di poter “buttare a mare” tutti gli ebrei, compresi i poveri e macilenti scampati ai campi di sterminio nazisti, arrivati con lunghi e tormentati percorsi, di cui è un simbolo la vicenda dell’Exodus (la vecchia nave passeggeri con più di 4.500 rifugiati a bordo, respinta dai britannici). Per la Lega Araba, l’organizzazione degli Stati arabi costituita nel corso della Seconda Guerra mondiale (che comprendeva, oltre ai cinque Stati sopra citati, Arabia e Yemen), quella sarebbe dovuta essere, come si espresse brutalmente il suo segretario generale, Abd al-Rahmān Azzām Pascià, «una guerra di sterminio e di massacri, di cui in futuro si sarebbe parlato come di quelli operati dai mongoli e dai crociati». Ma gli arabi non vinsero quella guerra, che segnò invece l’inizio di una lunga, sofferta e sanguinosa serie di conflitti, mai chiusi da una pace sottoscritta da tutte le parti coinvolte.
L’offensiva araba fu respinta (con grandi perdite, ma nettamente) dal neo-costituito Stato ebraico, le cui truppe riescono a occupare quasi tutto il territorio palestinese, a eccezione della Striscia di Gaza (egiziana) e della Cisgiordania. Per gli arabi è la nabka (la “catastrofe”). L’esito di quella guerra, interrotta da un armistizio e non da una pace, getta le basi dei successivi conflitti. Circa 700 mila arabi lasciano le loro terre, di propria volontà o costretti dai vincitori o istigati dai Paesi arabi e dal Gran Muftì (che disse loro che vi sarebbero presto ritornati trionfanti), senza potervi più rientrare, se non per motivate ragioni di ricongiungimento famigliare riconosciute da Israele. D’altra parte gli adiacenti Stati arabi, che pure avevano aperto il conflitto che ne aveva causato l’esodo, non consentono loro di trasferirsi nei loro territori, preferendo che restino negli invivibili campi di accoglienza, assistiti da un’agenzia delle Nazioni Unite appositamente costituita nel 1949, l’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees). Vogliono infatti mantenere una spina nel fianco di Israele, mostrare che la guerra non è finita e motivare anche con la loro condizione la richiesta della restituzione delle terre occupate.
1950. Legge del Ritorno. Il 5 luglio la Knesset, il Parlamento d’Israele, vota la Legge del Ritorno (unica al mondo), che, integrata due anni dopo da una legge specifica (1° aprile 1952) quella sulla nazionalità, garantisce agli ebrei di tutto il mondo il diritto di far aliyah (“salire” a Sion), acquisendo immediatamente la cittadinanza israeliana (il riconoscimento dell’“ebraicità” era affidato ai rabbini, in modo un po’ strano per uno stato tendenzialmente laico; ora la normativa è in parte mutata, anche se si basa sempre su quel principio [9]). Degli 850 mila ebrei che in quel periodo preferiscono lasciare i Paesi arabi per evitare il rischio di perdervi la vita, circa 600 mila si riversano in Israele, determinando un forte aumento della sua ancora esigua popolazione. Data l’allora grande povertà del territorio, il governo è costretto a varare dure misure di austerità, che prevedono il razionamento dei generi di prima necessità. Intanto il Regno di Giordania pone la Cisgiordania sotto la propria amministrazione e, unico tra gli Stati arabi, concede la propria cittadinanza ai palestinesi che avevano lasciato il territorio occupato dagli israeliani.
1956. La Guerra del Canale di Suez. La guerra riprende nel 1956, quando il presidente dell’Egitto Gamal Abd el-Nasser (arrivato al potere rovesciando il generale Naguib, assieme al quale nel 1952 aveva deposto re Faruq, abbattendo la monarchia), anche con l’intento di rafforzare la propria popolarità o, meglio, ricuperarne un po’ (dato lo scarso gradimento del suo inefficiente “socialismo arabo” a partito unico, autoritario e repressivo [10]), nazionalizza lo strategico ed economicamente importante Canale di Suez, di proprietà franco-britannica, presentando la sua iniziativa, nel clima del tempo, come una grande operazione anti-colonialista. Nasser, che già nel 1954 aveva cominciato a sostenere le reiterate incursioni dei fedayn palestinesi nello Stato d’Israele, blocca il golfo di Aqaba (sbocco di Israele sul Mar Rosso) e inibisce alle navi israeliane il passaggio per il Canale di Suez. Così quando il Regno Unito e la Francia decidono di attaccare l’Egitto per rispondere a quella nazionalizzazione, Israele si unisce loro, occupando il Sinai, con i paracadutisti di Ariel Sharon e le truppe di terra di Moshe Dayan. I Paesi arabi non avrebbero mai perdonato a Israele quell’intervento, considerato, a torto, un sostegno al colonialismo, quando era un’autodifesa contro le misure di Nasser. A porre termine alle ostilità, scoppiate mentre è in corso l’invasione sovietica dell’Ungheria, è l’intervento congiunto di statunitensi e sovietici, favorevoli i primi a Israele e i secondi all’Egitto, ma entrambi desiderosi di evitare un’escalation e le sue conseguenze. Poi, nel 1957, Israele si ritira dal Sinai, ottenendo dalle Nazioni Unite l’invio di un corpo di pace in quel territorio.
Dopo quella guerra, l’Urss vieta l’emigrazione ebraica in Israele. Ma vi arrivano molti ebrei sefarditi, espulsi dai Paesi arabi del Nord Africa o giuntivi liberamente dal Marocco. Intanto però vi si costituiscono delle formazioni politiche e militari anti-ebraiche: nel 1959 Al-Fatah, che si propone l’annientamento dello Stato ebraico e considera un tradimento ogni trattativa in contrasto con quell’obiettivo, e nel 1964 l’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), il cui statuto definisce la lotta armata per la distruzione di Israele un obiettivo imprescindibile per tutto il mondo arabo.
1967. La Guerra dei Sei Giorni. Nel 1967, quando le truppe delle Nazioni Unite completano il ritiro dall’Egitto richiesto loro da Nasser, questi riprende a minacciare Israele, affermando che per i Paesi arabi la questione non era il porto di Eilat, ma l’esistenza dello Stato ebraico (che nessuno Stato arabo aveva riconosciuto e con cui, tanto meno, aveva firmato la pace). Questa volta gli israeliani decidono di reagire con un attacco preventivo. Mentre l’Egitto e i suoi alleati si preparano a sferrare un altro attacco a Israele, le forze israeliane, guidate dal ministro della difesa Moshe Dayan e dal generale Yitzhak Rabin, li precedono, distruggendo a terra l’aviazione militare egiziana, giordana e siriana.
In meno di una settimana gli israeliani occupano il Sinai, la striscia di Gaza, la Cisgiordania e le alture del Golan, riunificano Gerusalemme e l’annettono tutta nel proprio Stato. Il premier Levi Eshkol dichiara che, per motivi di sicurezza, Israele deve tenere sotto il proprio controllo i territori occupati, fintantoché i Paesi arabi non rinuncino a distruggere Israele (ma quell’occupazione è ritenuta illegale dalle Nazioni Unite). Il 1º settembre la Lega Araba esprime i suoi tre famosi no: “no al riconoscimento di Israele, no alle trattative con Israele, no alla pace con Israele”. Tre “no” che non avrebbe mai rinnegato, giungendo a espellere prima l’Egitto (1979) e poi la Giordania (1994), quando questi due Paesi, molti anni più tardi e dopo altre importanti vicende, riconoscono Israele e firmano una pace separata. In ogni caso, questa è la situazione del 1967, cui molti nelle recenti discussioni hanno fatto riferimento, in modo corretto o, più spesso, scorretto, tacendone le cause.
Il 22 novembre 1967 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adotta una risoluzione intesa a ristabilire la pace, che prevede il ritorno ai confini precedenti. Israele però, in contrasto con quella risoluzione, mantiene l’annessione dell’intera Gerusalemme (compreso il suo quartiere orientale prevalentemente abitato da arabi) e la proclama propria capitale (senza il riconoscimento da parte degli altri Stati, se non quello, moltissimi anni dopo, degli Stati Uniti, al tempo della presidenza Trump). Nonostante l’impegno delle Nazioni Unite, non risulta possibile nemmeno avviare delle trattative di pace, per il persistente rifiuto dei Paesi arabi di parlare direttamente con le autorità israeliane, per non riconoscere neanche indirettamente lo Stato d’Israele [11].
Per contro, le organizzazioni terroristiche palestinesi riprendono i loro attentati, anche fuori dei confini d’Israele. Nel settembre 1970, dopo la distruzione in un aeroporto giordano di quattro aerei che vi erano stati dirottati, la Giordania che le colpisce in un modo durissimo, uccidendo migliaia di loro militanti, che ne indusse alcune a darsi il nome di Settembre Nero in memoria di quella repressione. Il 5 settembre 1972 un loro gruppo uccide a Monaco 11 atleti della squadra israeliana che stava partecipando alle Olimpiadi. Israele reagisce colpendo a uno a uno, anche a distanza di anni, quasi tutti i responsabili del massacro.
1973. La Guerra dello Yom Kippur. Il 6 ottobre 1973, mentre in Israele si celebra lo Yom Kippur, una delle più importanti feste del calendario ebraico, gli eserciti di Egitto e di Siria, appoggiati da piccole unità algerine, giordane, irachene, kuwaitiane, libiche, marocchine e saudite, attaccano di sorpresa Israele. Dopo lo sbandamento iniziale, Israele contrattacca, superando le linee avversarie. L’11 novembre, quando l’esercito israeliano è ormai a 40 km da Damasco e a 100 km dal Cairo, le parti in conflitto accettano il “cessate il fuoco” richiesto dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, anche perché indebolite dalle molte consistenti perdite.
La conferenza di pace convocata a Ginevra dalle Nazioni Unite deve essere però subito rinviata sine die, per il persistente rifiuto degli arabi di trattare con gli israeliani. I dirigenti arabi scelgono di operare in altro modo: inducono l’Opaec (l’Organizzazione dei Paesi arabi esportatori di petrolio) a aumentare di molte volte il prezzo del greggio e a dichiarare l’embargo contro i Paesi ritenuti più filo-israeliani. Ciò causa una grave crisi economica internazionale, durata per tutti gli anni ’70. Così molti Paesi, fra cui quelli della Comunità Economica Europea, devono piegarsi e si pronunciano contro Israele, giungendo in qualche caso a condannare il “sionisimo”, come se la responsabilità della situazione fosse imputabile a Israele. Intanto continuano a imperversare le azioni terroristiche dei palestinesi. In Italia il 31 dicembre 1973 un attacco all’aeroporto di Fiumicino da parte di cinque militanti di Settembre Nero causa 32 morti. Si dice, dopo quell’attentato, per evitarne altri, il governo abbia segretamente trattato con i terroristi palestinesi, giungendo al “lodo Moro” che avrebbe consentito il loro transito armato in Italia.
1974-1975. Le risoluzioni anti-israeliane delle Nazioni Unite. Nel 1974 l’allora Segretario di Stato degli Stati Uniti, l’abile Henry Kissinger, scende in campo personalmente per far ritirare Israele dai territori egiziani e siriani occupati durante la guerra dello Yom Kippur. Il 14 ottobre le Nazioni Unite riconoscono l’Olp come rappresentante del popolo palestinese, anche se questa ribadisce l’intenzione di cancellare Israele, che a sua volta rifiuta di trattare con l’Olp, che definisce un’organizzazione terroristica. Il 22 novembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosce ai palestinesi anche il diritto di far valere le proprie ragioni “con tutti i mezzi”. Con la schiacciante maggioranza costituita dal concorso dei Paesi arabi, dei Paesi non allineati e dei Paesi del patto di Varsavia, le Nazioni Unite approvano anche numerose altre risoluzioni contro Israele, fra cui la sua esclusione dall’Unesco e la sua sospensione da ogni aiuto e da ogni collaborazione di cui beneficiasse. Il 10 ottobre 1975 una risoluzione semplicemente ignobile (abrogata nel 1991) equipara sionismo e razzismo. Tutto ciò mentre continuano le azioni terroristiche dei palestinesi, che il 27 giugno 1976 dirottano un aereo dell’Air France a Entebbe, prendendone in ostaggio tutti i passeggeri, in maggioranza israeliani. Con un blitz, un’unità speciale israeliana interviene in quell’aeroporto, riuscendo a liberare 256 dei 260 passeggeri tenuti prigionieri (tre muoiono durante l’operazione e uno è ucciso all’ospedale della capitale ugandese).
1977-1981. Camp David e la pace fra Egitto e Israele. Nel novembre 1977, il Presidente egiziano Muhammad Anwār al-Sādāt (succeduto nel 1970 a Nasser, di cui era stato il braccio destro), rompendo trent’anni di ostilità armata, visita Gerusalemme, accettando l’invito del primo ministro israeliano Menachem Begin. Sadat riconosce il diritto all’esistenza dello Stato di Israele, permettendo così l’avvio di trattative di pace fra i due Paesi. Nel settembre 1978 il presidente statunitense Jimmy Carter li invita a continuare i loro colloqui negli Stati Uniti, nella residenza presidenziale di Camp David, dove il 26 marzo 1979, con la sua mediazione, firmano una pace separata. L’Egitto è espulso per dieci anni dalla Lega Araba, ma ricupera il Sinai (rifiutando però Gaza). Sadat viene molto lodato in patria per questo successo, ma nel 1981 è spettacolarmente ucciso come un traditore, insieme ad altre undici autorità egiziane e di altri Paesi, da un gruppo di estremisti, durante una parata militare intesa a ricordare l’asserito successo egiziano nella guerra per il Canale di Suez. Nel 1978 Begin e Sadat avevano ricevuto il Premio Nobel per la Pace.
1982. La Guerra del Libano e la strage di Sabra e Shatila. In Libano era in corso sin dal 1975 una complessa guerra civile, innescata dal crescente contrasto fra la componente cristiano-maronita, che temeva di perdere la propria prevalenza demografica e politica anche per l’afflusso di profughi palestinesi provenienti dalla Giordania e da altri Paesi, e la componente musulmana (peraltro divisa fra sciiti e sunniti), che, ritenendosi sottorappresentata nelle istituzioni, voleva rimettere in discussione i rapporti di forza. Ad alimentarla e a prolungarla avevano contribuito anche dei fattori esterni, tra cui l’intervento dei Paesi vicini: la Siria, intenzionata a porre sotto tutela il Libano, e Israele, desiderosa di contrastare la presenza in quel Paese dell’Olp, soprattutto dopo che alcune sue formazioni avevano cominciato a lanciare nel 1981 degli attacchi contro le postazioni israeliane vicine al confine. Israele nel 1982 invade il Libano, occupandone la regione meridionale, per poi ritirarsi in una fascia di rispetto di circa 10 miglia, all’interno del territorio libanese, della quale avrebbe mantenuto il controllo sino al 2000, affidandone la sorveglianza alle truppe dei maroniti libanesi, suoi alleati.
In quel contesto, tra il 16 e il 18 settembre 1982, mentre le truppe israeliane già stavano ritirandosi dal Libano, dopo aver firmato la pace con il presidente Bahir Giumayyil, dei falangisti libanesi cristiano-maroniti, per vendicare quel presidente, ucciso pochi giorni prima probabilmente proprio per aver firmato quella pace, entrano nei campi di Sabra e Shatila, due quartieri alla periferia di Beirut, e cominciano a uccidere i profughi che vi erano assiepati, facendo un gran numero di vittime (valutate, dalle diverse fonti, da alcune centinaia a più di tremila). Le truppe israeliane, presenti nei dintorni, non fanno nulla per fermarle, rendendosi corresponsabili della strage. L’indignazione internazionale è enorme e le critiche interne costringono a dimettersi i capi militari, il ministro della difesa Sharon e, l’anno seguente, anche il primo ministro Begin.
1985. Il sequestro dell’Achille Lauro. Il 7 ottobre alcuni terroristi palestinesi (dichiaratisi membri dell’Olp, ma appartenenti in realtà a una sua componente minoritaria filo-siriana, il Fronte per la Liberazione della Palestina) sequestrano al largo delle coste egiziane il transatlantico italiano Achille Lauro, utilizzato come nave da crociera, prendono in ostaggio i passeggeri e uccidono, gettandolo in mare sulla sua carrozzella, un ebreo paraplegico di cittadinanza statunitense. Le trattative del governo italiano con i dirottatori (che minacciano di far saltare in aria la nave con tutti i passeggeri, nel caso in cui non siano liberati 50 loro compagni detenuti in Israele) conducono alla crisi di Sigonella tra Italia e Stati Uniti, la più grave del secondo dopoguerra, per il rifiuto del presidente del consiglio Bettino Craxi di consegnare agli americani, come da loro richiesto, i terroristi atterrati in Italia, secondo l’accordo, e Abu Abbas, l’esponente dell’Olp (dichiaratasi non responsabile del sequestro) che li aveva accompagnati. Abu Abbas è condannato all’ergastolo negli Stati Uniti, in contumacia.
1993. Gli accordi Rabin-Arafāt e la prima intifada. In agosto un’organizzazione politica e para-militare islamista, Hamas, fondata l’anno precedente come braccio armato in Palestina dei Fratelli Musulmani, con un nome che ne rivela lo spirito (un acronimo arabo di “entusiasmo, zelo e spirito combattente”), proclama la Jihād, la “guerra santa” islamica, e dà inizio alla prima intifada (la guerriglia combattuta con sassi, bastoni e altre armi improprie anche da donne e bambini), accompagnandola con diversi attentati [12].
Nel frattempo però la situazione internazionale risulta profondamente cambiata da una serie di eventi che qui possiamo solo accennare: il crollo del sedicente regime comunista sovietico (in realtà un’obsoleta e corrotta forma di collettivismo burocratico [13]), seguito dallo scioglimento della stessa Unione Sovietica (31 dicembre 1991); la fine della lunga e cruenta guerra tra Iraq e Iran (1980-1988) e della prima guerra del Golfo contro l’Iraq (1990-1991), condotta da una coalizione guidata dagli Stati Uniti; la fine anche della guerra fra Libano e Siria (1990) e il disarmo nel Libano dei gruppi para-militari che avevano lacerato il paese per anni, a eccezione degli Hezbollah, i militanti del “partito di Dio” radicati fra gli sciiti e addestrati e finanziati dall’Iran.
In questo contesto accade l’imprevedibile. Arafāt, leader di Al-Fatah e presidente dell’Olp, riconosce, per conto del popolo palestinese, lo Stato di Israele, con cui accetta di negoziare rinunciando alla violenza, e a sua volta il primo ministro israeliano Rabin, per conto d’Israele, riconosce l’Olp come legittimo rappresentante del popolo palestinese. Il 13 settembre, dopo mesi di trattative riservate, i due, invitati da Bill Clinton, s’incontrano alla Casa Bianca e firmano davanti a lui una dichiarazione che delinea un percorso per arrivare a una pace che ponga fine all’annoso conflitto. Gli accordi di Oslo, sottoscritti nello stesso anno, prevedono l’autogoverno dei palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza entro cinque anni. Nel 1994 Arafāt, Shimon Peres e Yitzhak Rabin ricevono il Premio Nobel per la Pace.
La svolta di Arafāt suscita però l’aspra reazione delle correnti palestinesi più radicali. Non cessa così l’intifada, anche perché Israele non blocca il proliferare d’insediamenti ebraici nei territori occupati e la distruzione delle case dei palestinesi costruitevi senza il suo permesso. Israele inoltre non mantiene la promessa di collegare la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, che secondo gli accordi intercorsi avrebbero dovuto diventare una sola entità. Inoltre continua a mantenere nei territori occupati due diversi sistemi giuridici, uno per i coloni israeliani e un altro per i palestinesi. Per di più, nello stesso anno, come risposta all’intifada chiude il proprio territorio ai palestinesi e impone a quelli che vi lavoravano l’obbligo di un permesso particolare, determinando un aumento della disoccupazione nei territori occupati e ostacolando l’accesso ai luoghi santi e agli ospedali di Gerusalemme Est. Intanto lo stillicidio degli attentati continua.
1994. La Lega Araba pone fine all’embargo contro Israele (30 settembre). Viene poi firmata la pace tra Israele e Giordania (26 ottobre), che aveva già rinunciato sin dal 1988 alla sua tutela sulla Cisgiordania.
1995. Nascita dell’Autorità palestinese. Viene firmata la seconda parte degli Accordi di Oslo, che porta alla nascita di quell’Autorità, dotata di una propria polizia. Il 4 novembre, però, un estremista di destra israeliano, appartenente a un’ala del Likud, uccide il primo ministro Rabin, ai cui funerali partecipano anche alcuni esponenti di Paesi arabi. Gli succede come primo ministro Shimon Peres.
1996. Primo governo di Netanyahu. In Israele, alle elezioni politiche, vince il Likud, il maggior partito di destra, e il 18 giugno diviene primo ministro, per la prima volta, Benjamin Netanyahu. Intanto scontri e attentati continuano.
1997. Ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati. In attuazione degli accordi intercorsi, le truppe israeliane si ritirano dai territori occupati e il 95% della popolazione palestinese passa sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Netanyahu però non rispetta gli accordi che prevedevano anche il blocco degli insediamenti di coloni israeliani nel territorio palestinese, il che accresce le tensioni.
1999. Il laburista Ehud Barak viene eletto primo ministro di Israele, a capo di un governo di coalizione guidato dal suo partito, e rilancia il processo di pace. Però anche una sua più generosa offerta viene respinta da Arafāt.
2000. La “passeggiata” di Sharon e la seconda intifada. Nel mese di maggio le forze israeliane si ritirano dalla fascia di sicurezza nel Libano meridionale. Nel luglio dello stesso anno Barak e Arafāt s’incontrano a Camp David, per far procedere, sempre con la mediazione di Clinton, le trattative di pace, che però non decollano. Non viene infatti trovata un’intesa sul ritorno dei profughi palestinesi in Israele, sullo status di Gerusalemme e sul territorio dell’istituendo Stato palestinese. Barak offre il 100% della Striscia di Gaza e quasi il 75% della Cisgiordania, ma non vuole rinunciare al controllo su quel 25% in cui si concentrano le colonie ebraiche. In cambio offre una parte del deserto del Negev: una proposta che Arafāt giudica inaccettabile. Un altro problema è costituito dalla ripartizione dell’acqua del Giordano, largamente controllata da Israele.
In questo contesto, in settembre Ariel Sharon, il leader del Likud, allora all’opposizione, compie una “passeggiata” provocatoria sulla spianata delle moschee di Gerusalemme, alla testa di un corteo di un migliaio di sostenitori e con una scorta militare. L’iniziativa suscita veementi proteste palestinesi, tanto più che Sharon aggrava la situazione dichiarando che Gerusalemme Est è una parte irrinunciabile d’Israele, in contrasto con le posizioni dei palestinesi, che vorrebbero farne la propria capitale. Le proteste trascendono e sono duramente represse: in una settimana 61 palestinesi vengono uccisi e 2.657 feriti. All’inizio di ottobre, vengono uccisi anche 12 palestinesi con cittadinanza israeliana e un palestinese della Striscia di Gaza. È l’inizio della seconda intifada. Alle dimissioni del primo ministro Bark seguono nuove elezioni, che vedono una clamorosa sconfitta dei laburisti e portano al governo proprio l’autore della provocazione, Ariel Sharon (2001).
2001. Continuano gli attentati palestinesi e le risposte israeliane. Israele distrugge il porto di Gaza e attacca anche il suo aeroporto, costringendo a chiuderlo temporaneamente al traffico civile. Arafāt non sembra in grado di controllare i terroristi palestinesi e in dicembre Sharon dichiara di non voler più trattare con lui. Gli attentati palestinesi si susseguono senza tregua, così come le dure reazioni israeliane. A quanto si calcola, dal 2000 al 2004 Israele distrugge 3 mila case di palestinesi e nella sola Gaza lascia 18 mila persone senza un tetto.
2004. Morte di Arafāt e sue conseguenze. L’11 novembre 2004 Arafāt muore in un ospedale francese per cause mai bene accertate. Le elezioni per l’Autorità Nazionale Palestinese, avvenute dopo la morte di quel leader, portano alla sua presidenza Maḥmūd Abbās, detto Abū Māzen. Il governo israeliano dichiara di essere pronto a riprendere le trattative con lui, ma intanto fa costruire un muro per separare Israele da gran parte della Cisgiordania, asserendone la necessità per contrastare le azioni terroristiche, compiute anche con attentati suicidi. Ma la Corte Internazionale di giustizia giudica illegittima quella misura, perché sproporzionato rispetto al motivo e tale da costituire un’annessione di fatto di territori palestinesi e da peggiorare notevolmente la vita dei palestinesi, costretti a passare da varchi controllati dall’esercito israeliano e non sempre aperti, anche solo per accedere ai propri campi e ai propri pozzi e per raggiungere gli ospedali di Gerusalemme Est. Proprio per quel muro, si dice, fra il 2000 e il 2005 ai suoi varchi avrebbero partorito senza assistenza 60 donne e sarebbero morti 36 neonati.
2005. Israele porta a compimento l’impegno, annunciato nel 2003, di ritirare soldati e coloni dalla parte settentrionale della Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, di cui però conserva il controllo dei confini e dello spazio aereo. Impone inoltre agli abitanti di Gaza di pescare a non più di sei miglia dalla costa, con conseguenze negative sull’approvvigionamento alimentare, che, anche per ragioni non attribuibili a Israele, finisce per dipendere sempre di più dalle importazioni e dagli aiuti internazionali. Un problema persistente è la distribuzione ineguale dell’acqua dolce della Cisgiordania: 350 litri pro capite al giorno per gli israeliani, ancora di più per quelli di loro che vivono nei territori occupati e solo 80 litri per i palestinesi, contro un fabbisogno di almeno 100 litri, calcolato dall’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità).
2006. Vittoria elettorale di Hamas. Si tengono nel territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese le elezioni politiche più volte rimandate per via dell’occupazione israeliana. Quelle elezioni, che sembrano relativamente regolari e vedono la partecipazione di oltre un milione di elettori, segnano la sconfitta di Al-Fatah, ormai da tempo senza Arafāt, e la vittoria di Hamas, il movimento oltranzista che continua a predicare la distruzione di Israele come fine, e la violenza e il terrorismo come mezzi. Per cercare di limitarne il più possibile l’impatto, Israele, Stati Uniti, Unione europea e anche Russia adottano delle misure restrittive, che però si rivelano poco efficaci e controproducenti, perché incrementano la disoccupazione (che giunge al 50%) e peggiorano gravemente le condizioni della gente (ridotta a vivere per l’80% di aiuti umanitari). Nel 2006 quasi 50 mila palestinesi lasciano volontariamente il Paese, con soddisfazione di quei partiti della destra religiosa israeliana che avrebbero voluto addirittura l’espulsione di tutti i palestinesi dai territori occupati.
2006. La guerra contro il Libano e Hezbollah. In luglio Hezbollah lancia dal Libano dei missili contro Israele e in un’imboscata uccide otto suoi soldati e ne cattura due. Israele reagisce entrando nel Libano con l’obiettivo di eliminare Hezbollah. Questa organizzazione risponde intensificando il lancio di missili contro Israele e colpisce diverse città del nord del Paese, fra cui Haifa, Nazareth e Tiberiade. In risposta aerei israeliani bombardano i quartieri di Beirut che ospitano i quadri di Hezbollah, causando centinaia di morti e distruggendo le principali vie di comunicazione, l’aeroporto e l’autostrada che conduce al confine siriano. Dopo dieci giorni, Israele invade il Libano meridionale, dopo aver inutilmente richiesto al governo libanese di smantellarvi Hezbollah, il cui leader aveva dichiarato di essere pronto alla guerra totale. Il 14 agosto, dopo 34 giorni di scontri che causano 1.100 vittime libanesi e 154 israeliane, le ostilità si fermano, in ossequio alla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che, al ritiro delle forze militari israeliane, invia a sostituirle un corpo di pace internazionale per disarmare Hezbollah e garantire la sicurezza della frontiera. Alla missione, tuttora in corso, prendono parte 7 mila caschi blu di diversi Paesi, inclusa l’Italia.
2006-2007. Aumenta la contrapposizione, anche con scontri aperti, fra Al-Fatah, più forte in Cisgiordania, e Hamas, più forte nella Striscia di Gaza, di cui ha assunto il controllo quasi assoluto. Da qui Hamas comincia a lanciare missili contro Israele, specialmente dopo che questa si era mobilitata per catturare due suoi terroristi che avevano ucciso tre adolescenti israeliani. Israele risponde con l’operazione “Margine di Protezione” (8 luglio – 26 agosto), con bombardamenti di Gaza e azioni di terra intese a distruggere i tunnel sotterranei utilizzati da Hamas. Dopo alcune brevi tregue che non tengono, una “tregua duratura” viene raggiunta al Cairo. Durante gli scontri erano stati lanciati contro Israele più di 4.500 missili e numerosi colpi di mortaio, mentre su Hamas erano state sganciate 20 mila tonnellate di esplosivi. Le vittime a Gaza erano state più di 2.000, per un quarto bambini, mentre fra gli israeliani erano stati uccisi 66 soldati e 5 civili, fra cui 1 bambino. Più di 500 mila palestinesi fuggono dalle loro case e molti restano senza cibo né acqua. Anche molti israeliani (fra i cinquemila e i diecimila) lasciano le loro case, per paura di essere colpiti, ancorché dal 1995 le nuove case prevedano un safety room, cioè un locale di sicurezza. Si accelera anche la ricerca di altri sistemi difensivi, che avrebbero portato alle iron domes (le “cupole di ferro”), entrate in funzione dal 2011.
2009. Il nuovo presidente statunitense Barack Obama, sin dall’inizio del suo mandato, chiede ripetutamente al governo israeliano di Benjamin Netanyahu d’interrompere l’espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati. Tuttavia, nel febbraio 2011, gli Stati Uniti pongono il veto alla risoluzione dell’Onu che condannava quegli insediamenti come illegali.
2012. L’Onu attribuisce all’Autorità Nazionale Palestinese (che avrebbe voluto un seggio di membro a pieno titolo) il ruolo di “osservatore” permanente, evitando il veto degli Stati Uniti, che peraltro votano contro, così come Israele.
2014. Al-Fatah e Hamas, dopo sette anni di divisioni, si riconciliano per la seconda volta e danno vita il 2 giugno a un governo di coalizione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Nazioni Unite, Stati Uniti, Unione europea, Russia, Cina, India e Turchia decidono di lavorare con quel governo. Netanyahu invece dichiara che Israele non avrebbe mai negoziato alcun accordo con un governo “incompatibile con la pace” e cerca di mettere in atto delle misure preventive e difensive. Il 31 dicembre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite respinge la risoluzione della Giordania che chiede la fine dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi entro il 2017 e una ripresa dei negoziati per arrivare a risolvere l’annoso conflitto con la costituzione di due Stati entro i confini del 1967. Votano a favore, tra gli altri, la Russia, la Cina, la Francia e l’Argentina e contro gli Stati Uniti e l’Australia, mentre si astiene il Regno Unito.
2016. Il 23 dicembre una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite chiede a Israele di porre fine agli insediamenti nei territori palestinesi, compresa Gerusalemme Est, asserendo che non avrebbe riconosciuto alcuna modifica unilaterale dei confini del 1967 e che la soluzione del conflitto era da perseguire con un negoziato che prevedesse l’esistenza di due Stati.
2019. Il 4 maggio 2019, durante lo shabbat, Hamas effettua un fitto lancio di razzi su Israele, colpendo diverse cittadine nel sud di Israele. In una rivendicazione Hamas dichiara che l’azione voleva essere una contestazione dell’Eurovision Song Contest, previsto per la settimana seguente a Tel Aviv.
2020. Gli “Accordi di Abramo”. Con questa espressione si indicano gli accordi sottoscritti a Washington, con la mediazione del presidente Donald Trump, fra Israele ed Emirati Arabi (13 agosto), fra Israele e Bahrein (15 settembre) e fra Israele e Marocco (22 dicembre), cui ha poi aderito poi anche il Sudan (7 gennaio 2021). Questi accordi, così chiamati dal nome del mitico ascendente comune di arabi ed ebrei, prevedono una completa normalizzazione dei loro rapporti: la prima, dopo gli accordi ormai lontani nel tempo, tra Israele ed Egitto (1979) e tra Israele e Giordania (1994). Oltre al riconoscimento reciproco e all’istituzione di rapporti diplomatici, gli Accordi di Abramo prevedono lo sviluppo della collaborazione economica e culturale e la l’implementazione della pace nel Medio Oriente. Va ricordata anche la ripresa, l’anno precedente (2019), dei rapporti diplomatici fra Israele e Ciad, un importante Paese musulmano nell’Africa a sud del Sahara.
2022. 24 febbraio. Invasione russa dell’Ucraina. Il 24 febbraio la Russia invade l’Ucraina, iniziando una cruentissima guerra, ancora in corso, che distoglie l’attenzione degli osservatori dal Medio Oriente. Il contrario sarebbe avvenuto il 7 ottobre 2023, con l’attacco di Hamas a Israele.
2023. Sviluppo delle relazioni fra Israele e Arabia Saudita. Il 22 settembre Benjamin Netanyahu, incontrando alle Nazioni Unite il presidente Joe Biden esprime la propria fiducia nella possibilità di raggiungere un accordo “storico”, mediato dagli Stati Uniti, per l’allacciamento di relazioni diplomatiche, economiche e culturali ufficiali con l’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman. Sottolinea che il raggiungimento di una pace formale con quel Paese potrebbe contribuire alla conclusione del conflitto arabo-israeliano, con una riconciliazione tra il mondo islamico e lo Stato di Israele. Poi conferma queste parole nel suo intervento all’Assemblea delle Nazioni Unite. Il 26 settembre il ministro israeliano del turismo si reca in Arabia, nel primo viaggio ufficiale di un membro del governo israeliano in quel Paese. Il giorno stesso Riad invia la sua prima delegazione dopo trent’anni nella Cisgiordania occupata, per rassicurare l’Autorità palestinese che i nuovi rapporti con Israele non avrebbero impedito all’Arabia di continuare a sostenere la causa palestinese. L’Iran, sostenitore e finanziatore di Hamas, mette però in guardia l’Arabia Saudita (con la quale peraltro è in forte contrasto) dal concludere qualsiasi accordo con Israele.
Ciò nondimeno, l’accordo triangolare tra Washington, Gerusalemme e Riad, che poggia su solide basi economiche, procede e sembra destinato a essere firmato entro la fine dell’anno e a costituire una significativa integrazione dei già citati Accordi di Abramo, sottoscritti tra Israele e gli altri paesi arabi citati. Si profila così un chiaro miglioramento della situazione in tutta l’area medio-orientale, con benefici per tutte le parti, palestinesi compresi. Ma quella distensione non è accettata dai soggetti più integralisticalmente anti-israeliani, fra cui l’Iran e i due movimenti che questo Paese arma, addestra, finanzia e sostiene: gli Hezbollah, ancora presenti nel Libano meridionale, e Hamas, al potere nella Striscia di Gaza. Lo stesso presidente iraniano Ebrahim Raisi, in una conferenza stampa a margine della già citata Assemblea delle Nazioni Unite, aveva detto che quell’accordo avrebbe costituito una «pugnalata alle spalle del popolo palestinese», reiterando che «la liberazione della città santa di Gerusalemme» era e restava «l’obiettivo centrale di tutti i musulmani». L’attacco del 7 ottobre blocca la firma di quell’accordo fra Arabia e Israele.
2023. L’operazione Al-Aqsa e la guerra di Gaza
7 ottobre. Alla vigilia del cinquantenario dell’attacco arabo dello Yom Kippur, mentre in Israele si festeggia il Sukkot (la “festa delle capanne”), Hamas lancia dalla Striscia di Gaza un attacco che coglie di sorpresa Israele. Migliaia di razzi colpiscono la parte centrale e meridionale del Paese, causando molti morti e molti feriti. Frattanto un suo gruppo armato sconfina in Israele, entra in alcuni kibbutzim vicini a Gaza, uccide anche donne, bambini e persino lattanti in culla, compie stupri e altre efferatezze mentre dei civili palestinesi che lo seguono si abbandonano a razzie e altre violenze. Un altro gruppo aggredisce i giovani (circa duemila, fra cui alcuni stranieri), arrivati la sera prima da diverse parti del Paese per partecipare al SuperNova Music Festival (impropriamente definito a volte un rave party) nei pressi del kibbutz Re’im, poco lontano da Gaza. Sparano sui giovani che stanno ballando come a dei bersagli mobili, causando centinaia di morti e feriti (sono stati recuperati 260 cadaveri). Poi se ne vanno, portando con sé nella Striscia di Gaza circa 250 “ostaggi”, fra cui 33 bambini, per frenare la prevedibile reazione di Israele o per chiedere scambi o riscatti (una ventina vengono però uccisi subito a Gaza, forse per nascondere stupri o altre violenze). Nell’operazione, non improvvisata ma pianificata da tempo, che Hamas ha chiamato Al-Aqsa (“alluvione”) e ha svolto in collaborazione con altri gruppi palestinesi, sono uccisi complessivamente circa 1.400 persone. È un’operazione di grande impatto politico e mediatico, che ricorda agli ebrei i grandi progrom del passato e a tutti l’attacco alle Torri Gemelle di New York da parte di altri estremisti islamici.
Israele dichiara subito la ripresa dello stato di guerra e annuncia una forte risposta, intesa non solo a punire quegli atti, ma a eliminare definitivamente Hamas, le sue minacce e i suoi reiterati attacchi. La sua risposta, assai articolata, prevede prima dei bombardamenti aerei e degli interventi a terra per distruggere le postazioni missilistiche, gli arsenali e le infrastrutture da cui Hamas riceve armi e altre forniture; poi degli interventi contro le sacche di resistenza eventualmente presenti nel territorio; e infine la creazione di un nuovo sistema di sicurezza nella Striscia di Gaza e dintorni, data la dimostrata insufficienza del precedente.
8-9 ottobre. Israele bombarda più di 400 obiettivi nella Striscia di Gaza, tra cui complessi militari e residenziali, abitazioni di funzionari di Hamas, tunnel sotterranei, moschee e la Torre Watan, struttura centrale delle telecomunicazioni. Hamas continua intanto il suo lancio di razzi: un centinaio su Sderot, dove colpisce case e altri edifici, fra cui una scuola, e altri su Ashkelon, dove colpisce un ospedale. L’esercito israeliano riesce a liberare alcuni ostaggi a Beeri e riprende tutte le località occupate dai guerriglieri palestinesi dentro il territorio israeliano. Si sposta poi sul confine della Striscia di Gaza, che inizia ad assediare, bloccando le forniture di carburante, elettricità, cibo e acqua.
10-12 ottobre. Le azioni militari continuano nel territorio di Gaza. L’aviazione e l’esercito israeliani colpiscono gli obiettivi militari di Hamas, anche in zone densamente popolate. Il 12 ottobre l’esercito israeliano invita gli abitanti della parte settentrionale della Striscia (più di un milione di persone) ad abbandonarla entro 24 ore, poiché quell’area sarebbe diventata zona di guerra. Hamas li invita invece a restare, asserendo che quell’avviso israeliano sarebbe stata solo un’iniziativa propagandistica. L’Onu chiede a Israele di desistere da quell’attacco, per l’oggettiva impossibilità di evacuare tante persone in così poco tempo.
17 ottobre. Il nord della Striscia di Gaza viene colpito da pesanti bombardamenti, in cui perde la vita uno dei principali esponenti di Hamas, Ayman Nofal.
26-30 ottobre. Iniziano le operazioni terrestri nella Striscia, che mirano a isolare la città di Gaza dalla parte meridionale del suo territorio. Le forze israeliane riescono a prendere il controllo delle arterie stradali centrali, tagliando in due la Striscia di Gaza, e procedono a una difficile avanzata nelle periferie della città. Il loro obiettivo è costituito dalle strutture di comando di Hamas, situate nel sottosuolo, in zone densamente abitate, con notevole commistione di edifici militari e civili. Gli scontri, così come i bombardamenti, coinvolgono la popolazione civile, causando un alto numero di vittime, e mettono in fuga un gran numero di abitanti, sprovvisti di acqua e di cibo. È una vera e propria crisi umanitaria, che suscita l’attenzione delle organizzazioni umanitarie e di molti governi. Quello del Sud Africa (un Paese fondatore del gruppo dei Brics) giunge a denunciare Israele per “genocidio” alla Corte Internazionale di giustizia dell’Aia. Israele presenta ricorso contro una denuncia che definisce «un’accusa assurda e una sanguinosa diffamazione». Ma la difesa, meramente tecnica (imperniata sul concetto di “genocidio”), non scalfisce le evidenze relative a possibili “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”.
8-16 novembre. Hamas perde il controllo dei territori a nord di Gaza, mentre le forze israeliane avanzano da sud, conquistando, dopo aspri combattimenti, una roccaforte di Hamas situata dentro l’ospedale Al-Shifa. Il 16 viene annunciata la conquista anche delle periferie occidentali di Gaza e della sua fascia litoranea.
24 novembre. Le due parti in conflitto concordano una tregua di quattro giorni per consentire l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia e lo scambio di 50 “ostaggi” rapiti da Hamas con 150 tra donne e minori detenuti in Israele.
1-31 dicembre. Dopo due proroghe, la tregua finisce. Hamas riprende il suo lancio di missili sui territori israeliani, senza però grandi effetti. Gli israeliani ricominciano i loro raid aerei e l’avanzata via terra, penetrando nella parte meridionale della Striscia, dopo aver invitato residenti e sfollati ad andare in aree definite sicure, cui a volte li accompagnano, mentre Hamas spara loro per impedirlo. Nella città di Gaza prosegue intanto la guerra urbana, con una lenta avanzata israeliana verso il centro della città. Il 15 dicembre viene lanciato anche il primo imponente attacco alla città di Rafah, vicina al confine egiziano. Il 17 viene scoperto uno dei più grandi tunnel sotterranei di Hamas. Il 21 l’esercito israeliano annuncia di aver completato la conquista dei quartieri governativi nel centro di Gaza e di stare procedendo alla distruzione di bunker, tunnel ed edifici di Hamas.
La situazione di Gaza è ormai catastrofica. Mancano da tempo carburante, cibo, acqua, farmaci e prodotti igienici e sanitari. Manca anche l’elettricità, persino nei pochi ospedali ancora in funzione e per gli impianti di depurazione e di desalinizzazione (in parte già guasti prima della guerra) che dovrebbero fornire l’acqua potabile.
1-2 gennaio 2024. Il 1° gennaio l’esercito israeliano dichiara l’inizio di una nuova fase della guerra, destinata a durare almeno sei mesi, con rastrellamenti nelle aree occupate per identificare e catturare tutti i militanti di Hamas e degli altri gruppi terroristici, che in parte si arrendono.
2 gennaio. Un raid israeliano colpisce un edificio in Libano, nella periferia di Beirut, dove si erano rifugiati alcuni capi di Hamas, tra cui Saleh al-Arouri, di cui viene confermata l’uccisione. Hamas reagisce, congelando i negoziati per una nuova tregua e per il rilascio di altri ostaggi, in parte in mano ad altri gruppi terroristici. Lo stesso giorno l’esercito israeliano annuncia di aver occupato dopo strenui combattimenti anche i quartieri orientali di Gaza e di essere impegnato in una nuova offensiva per espugnare i tunnel di Hamas anche nel sud della Striscia, presso la città di Khan Yunis.
25 gennaio. La Corte internazionale dell’Aia emette la sua “sentenza preliminare” nel processo intentato a Israele dopo la denuncia per “genocidio” presentata dal Sud Africa. Respinge il ricorso di Israele contro quella denuncia e decide di procedere a controllare nel merito l’accusa, ma non intima il “cessate il fuoco”. Rilevando che dal 7 ottobre nella Striscia di Gaza sarebbero state uccise 25.000 persone e 1,7 milioni sarebbero state costrette a sfollare (secondo dati che definisce “non controllabili”) e che quel territorio sarebbe diventato “inabitabile”, ordina a Israele di adottare misure idonee a scongiurare il rischio di genocidio (riconoscendo espressamente che i palestinesi costituiscono un’etnia specifica cui è applicabile la normativa specifica). Ad Hamas ordina invece di liberare immediatamente e incondizionatamente tutti gli ostaggi (cosa che invece non fa). Rimanda poi la continuazione del processo al mese successivo. A evitare una reazione “eccessiva” pressoché negli stessi termini, Israele era già stata invitata da diverse organizzazioni internazionali e da diversi Paesi, fra cui gli Stati Uniti, spesisi molto in tal senso, ma con scarso esito.
15 febbraio. Mentre continua l’impegno delle organizzazioni internazionali per porre fine al conflitto, Israele fa circolare una frase detta da Netanyahu qualche giorno prima al segretario di stato americano Antony Blinken, che gli aveva proposto un “cessate il fuoco” sulla base della soluzione dei due Stati: «Non è il tempo di fare dei regali ai palestinesi».
20 febbraio. La guerra non solo continua, ma si è ormai estesa in altre aree. Gli Hezbollah hanno colto l’occasione per riprendere gli attacchi a Israele dal sud del Libano, suscitando la sua reazione anche lì (fra l’altro, Israele ha fatto esplodere un loro grande deposito di armi). Gli Houthi (i “partigiani di Dio”, in prevalenza sciiti, finanziati e armati dall’Iran), che controllano da tempo la parte occidentale dello Yemen, da cui avevano sparato missili sull’Arabia Saudita, intervengono nel conflitto, “per sostenere Hamas e i palestinesi”. Lanciano missili (sinora tutti intercettati) su Eilat e colpiscono con missili e droni le navi mercantili di Israele o di Paesi considerati suoi amici, per impedire loro di raggiungere il Canale di Suez. Tante navi (anche di altri Paesi, fra cui India e Cina), per evitare il pericolo, sono così costrette a effettuare il periplo dell’Africa, con un grave aumento dei tempi e dei costi. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri Paesi, compresa l’Italia, inviano delle navi militari a pattugliare il Golfo di Oman e lo Stretto di Hormuz, per abbattere i missili e i droni lanciati dagli Houthi. D’altra parte gli Stati Uniti continuano a tenere sotto controllo le unità speciali iraniane e le milizie locali filo-iraniane, che avevano già colpito con missili e bombe in Siria e in Iraq.
La guerra ha sinora causato, oltre alla distruzione di gran parte di Gaza e delle altre città della Striscia, una grande quantità di vittime: tra gli arabi, circa 30 mila morti e 70 mila feriti, fra cui molte donne e molti bambini; tra gli ebrei, un numero imprecisato, ma molto alto, di morti e feriti, inizialmente anche donne e bambini, poi soprattutto militari. È una guerra terribile, con crimini orrendi commessi da entrambe le parti, di cui, nonostante il notevole impegno delle organizzazioni internazionali e di non pochi Paesi (fra cui gli Stati Uniti e alcuni Paesi arabi, fra cui l’Egitto e il Qatar), non s’intravede ancora la fine. Anzi, Israele ha affermato che, senza la liberazione degli ostaggi, avrebbe esteso la sua distruzione anche Rafah, la città araba sul confine egiziano, dal cui “varco” entra la maggior parte degli aiuti per gli abitanti della Striscia.
Gli Stati Uniti presentano al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite un progetto di risoluzione che prevede la sospensione almeno temporanea della guerra, ma intanto gli scontri proseguono e la loro continuazione aumenta la paura e l’odio reciproco, rendendo più difficile quella convivenza pacifica che gioverebbe agli uni e agli altri, con o senza la costituzione di uno Stato palestinese.
Le cause della guerra. L’inizio o, meglio, la ripresa, della guerra si deve senz’altro allo sconsiderato attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, effettuato (probabilmente d’accordo con l’Iran e forse la Russia) per impedire la normalizzazione dei rapporti fra Israele e molti Paesi arabi, dopo la firma degli Accordi di Abramo e la definizione di quello, non ancora firmato, fra Israele e l’Arabia Saudita. Accordi che, secondo Hamas e l’Iran, avrebbero cristallizzato la situazione esistente, in contrasto con le aspettative da loro attribuite ai palestinesi.
Responsabilità precedenti. Non si possono però tacere le cause remote, fra cui il prolungato “rifiuto” arabo di riconoscere lo Stato d’Israele, costituito nel 1948, e seguito, subito dopo la sua proclamazione, dal tentativo di distruggerlo con lo sciagurato attacco collettivo dei cinque Paesi della Lega Araba sopra citati. A tale persistente “rifiuto” (che ha portato anche alle guerre successive) si deve anche la mancata costituzione di uno Stato palestinese, contestualmente previsto dalle Nazioni Unite, cui gli arabi non hanno voluto dar vita nel territorio da queste assegnatogli per evitare un riconoscimento anche soltanto implicito dello Stato ebraico e, più in generale, della situazione che lo prevedeva.
Corresponsabilità di Israele. Pur essendo un Paese almeno tendenzialmente democratico e laico (l’unico dell’area, come spesso si sottolinea), Israele, costituita secondo il progetto sionista come uno “Stato ebraico”, non poteva e non può essere percepita come il proprio Paese dagli arabi presenti nel suo territorio. Per di più, prevede normative diverse per ebrei e per arabi ed è innegabilmente caratterizzata da una certa influenza della religione ebraica nella sfera civile.
Inoltre Israele non ha mai posto termine, in contrasto con le sue stesse reiterate promesse, all’espansione di insediamenti ebraici nei territori occupati, persistendo in una “politica del fatto compiuto” intesa ad allargare il suo territorio, secondo il dichiarato obiettivo di alcuni suoi partiti di minoranza, presenti in diversi governi già prima dell’attuale coalizione di unità nazionale, dettata dalla guerra in corso. Tale obiettivo, del resto, pur non essendo apertamente dichiarato, fa parte della politica dello stesso partito di Netanyahu, che guida l’attuale coalizione, per non ricordare le aspirazioni alla ricostituzione della “Grande Israele” del tempo biblico, di alcuni partiti e movimenti della destra religiosa. Contro tale politica si è espressa in Israele un’opposizione sempre più aperta e diffusa, scesa in piazza contro Netanyahu già prima del 7 ottobre, per altri motivi, e ora anche per la sua conduzione della guerra e i relativi obiettivi.
Strategia di Israele. Israele, dal 7 ottobre, persegue l’annientamento di Hamas, peraltro rivelatosi assai più difficile di quanto previsto. È l’obiettivo della debellatio, secondo l’antico principio del parcere subiectis et debellare superbos. Questo obiettivo, caparbiamente perseguito (com’è comprensibile, dati i precedenti), nonostante tutti gli inviti alla moderazione, rischia però di condurre, in nome della ricerca di una “pace sicura”, a un’inaccettabile distruzione totale non già di quell’organizzazione, ma dell’intera area di Gaza: desertum faciunt, pacem appellant.
Che fare. Per contrastare quella strategia, la prima cosa che Hamas dovrebbe fare, volente o nolente, e che i mediatori dovrebbero cercare d’imporle, è la liberazione immediata e senza condizioni di tutti i cosiddetti “ostaggi” (cioè gli innocenti rapiti e tenuti prigionieri a Gaza da oltre quattro mesi), chiedere scusa per l’ingiustificabile attacco del 7 ottobre e impegnarsi a punire severamente i responsabili degli stupri e delle uccisioni a sangue freddo di civili disarmati, donne e bambini compresi. Un suo comportamento diverso legittimerebbe infatti la strategia del debellare superbos. Naturalmente gioverebbe anche il cambiamento dell’attuale governo israeliano di unità nazionale, dominato da Netanyahu e da altri elementi che ritengono la vittoria militare e la ri-occupazione di Gaza l’unica risposta possibile alla situazione, improvvisamente reincancrenitasi dopo le notevoli aperture precedenti al 7 ottobre. Successivamente gioverebbe una significativa apertura in senso multi-etnico e multi-culturale di Israele, che potrebbe anche costituire un esempio per gli altri Stati dell’area, ripiegatisi (anche per reazione) in obsolete forme di arabismo e islamismo. Sarebbe, del resto, questa anche una forma di sionismo più rispondente all’attuale società “liquida” e “postmoderna”, analizzata da un noto sociologo di origine ebraica, Zygmunt Bauman.
Una nota personale. Ciò premesso, termino con una breve nota personale, che però non è solo un’impressione soggettiva, ma il frutto delle mie visite e delle mie ricerche in Israele e negli altri Paesi dell’area. Di là dei limiti sopra citati e del suo più che discutibile governo attuale, Israele è un Paese straordinario, che è un delitto anche solo pensare di distruggere o di lasciar distruggere da chicchessia. In Israele sono ancora presenti (come gli eventi del 7 ottobre ci ricordano) i kibbutzim, anche se molto meno numerosi che nei primi decenni del secondo dopoguerra e non più dominanti. Una realtà che ha rappresentato e ancora rappresenta un’esperienza straordinaria di socialismo comunitario, che unisce impegno sociale e civile, lavoro manuale e cultura. Sono i kibbutzim ad aver ricuperato molti terreni ritenuti incoltivabili, perché siccitosi o semi-desertici, e ora ambiti dagli arabi. In Israele vi sono anche molte altre istituzioni eccellenti: musei straordinari, come lo Yad Vashem, un simbolo della Shoah, che mantiene viva la memoria dei sei milioni di ebrei uccisi durante la Seconda Guerra mondiale; un’università unica al mondo, l’Università ebraica di Gerusalemme, ove si studia, si insegna, si ricerca e si pubblica ad altissimo livello; biblioteche con un patrimonio particolare, per i documenti ebraici che conservano; ospedali di grande qualità, che curano senza discriminazioni arabi ed ebrei; centri di ricerca avanzatissimi in molte discipline, che concorrono a spiegare il grande numero di premi Nobel assegnati a studiosi di un Paese con una popolazione così piccola (ancor oggi inferiore a quella della Lombardia). Soprattutto, però, la popolazione ebraica (il 75% di quella del Paese) vi respira un’aria di uguaglianza e di libertà che ancora non troverebbe altrove. Naturalmente non tutto è perfetto, in particolare, come si è detto, per quanto concerne la situazione degli arabi (che pure è di gran lunga migliore di quella che la maggior parte di loro incontrerebbe nei Paesi vicini). La pace potrebbe migliorare anche questo aspetto, soprattutto sul medio e sul lungo periodo.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Marxiano Melotti, Il ruolo emergente dell’edutainment nella fruizione del patrimonio culturale, in Formazione & Insegnamento – European Journal of Research on Education and Teaching”, 12, 2013: 129-143.
[2] Si veda Angelo Panebianco, Il passato ignorato. La storia usata come clava, in “Corriere della Sera”, 6 febbraio 2024: 1 e 30. L’articolo si apre riportando, con il punto interrogativo, un’affermazione che si sente circolare nelle manifestazioni e anche nei media: “Israele uguale nazismo?”.
[3] Proprio su tale ignoranza si basa l’uso fattone “come una clava” per colpire Israele, per dirla nei termini di Panebianco, sopra citato. Ricordo che, quando ero in Libia, invitato (come direttore della rivista “Terzo Mondo”) a cenare con Gheddafi seduto per terra, come lui, sui tappeti nel giardino del Palazzo del Governo (l’ex palazzo del governatore italiano ai tempi della colonia), il leader libico insistette molto perché firmassi una sua dichiarazione che equiparava il sionismo al razzismo. Cosa che ovviamente non ho fatto, nonostante la situazione per lo meno imbarazzante.
[4] Si veda Umberto Melotti, Premesse del sionismo nella storia delle dottrine politiche, Quaderni di Scienze Sociali, n. 2, Centro Studi Terzo Mondo, Milano, 1962.
[5] Sion era il nome della collina su cui era sorta, a partire da una fortezza, la città di Gerusalemme, che Davide fece capitale del suo regno. Più tardi il termine fu usato anche in senso figurato, per designare il “popolo di Dio”. Il primo, dei numerosi riferimenti biblici che si integrano l’un l’altro, è in Samuele, 2, 5-7.
[6] In particolare Marx (che era nipote di un rabbino e figlio di un ebreo non credente, convertitosi al protestantesimo per opportunità pratica) scrisse un’aspra critica dell’ebraismo, da taluni considerata persino razzista. In realtà Marx riteneva che gli ebrei non potessero “emanciparsi” fuori dell’emancipazione generale dell’umanità e che non dovessero perdersi dietro una “nazionalità chimerica”. Si veda Karl Marx, Zur Judenfrage (“La questione ebraica”), scritta e pubblicata a Parigi nel 1843, come risposta a due saggi di Bruno Bauer (La questione ebraica e La capacità degli ebrei e dei cristiani di oggi di diventare liberi). Bauer era uno dei principali esponenti della “sinistra hegeliana”, che Marx avrebbe ampiamente criticato in due testi scritti assieme ad Engels: Die Deutsche Ideologie, 1845-46, abbandonata alla “rodente critica dei topi” e pubblicata solo postuma nel 1932, e La sacra famiglia, 1845. Una comoda e utile edizione tascabile in italiano del suo scritto su La questione ebraica è quella degli Editori Riuniti, Roma, 1987, che include anche altri suoi brani in argomento. Nella sua bella introduzione Graziella Pisanò ne richiama anche le improprie utilizzazioni antisemite da parte sia della destra sia della sinistra, fra cui, negli anni ’30, il Partito comunista tedesco.
[7] Si autodefinirono “restaurazionisti” i cristiani che cominciarono a proporre il ritorno degli ebrei nella terra dei loro avi e delle loro memorie nella prima metà dell’Ottocento, dopo la temporanea cacciata degli ottomani dalla Grande Siria (comprendente la Palestina) da parte degli egiziani (1831). Anche nel governo britannico si affacciò in quel momento l’idea di favorire un ritorno degli ebrei in Palestina per contrastare l’espansionismo egiziano. La frase cominciò a circolare negli ambienti ebraici sul finire del secolo e fu poi diffusa agli inizi del Novecento da Israel Zangwill, il commediografo britannico di origine ebraica che in una sua famosa pièce teatrale avrebbe definito gli Stati Uniti come il “crogiuolo di Dio” (The Melting Pot, rappresentata per la prima volta a Washington nel 1908 e poi pubblicata con una dedica al presidente Theodore Roosvelt). Si veda Umberto Melotti, Migrazioni internazionali. Globalizzazione e culture politiche, Bruno Mondadori, Milano, 2004.
[8] Weizman riteneva che il lavoro delle comunità ebraiche in Palestina fosse il miglior mezzo per conseguire il riconoscimento del diritto a costituirvi uno Stato nazionale indipendente. La loro presenza aveva anche contribuito alla rinascita della lingua ebraica, che, grazie a Eliezer Ben Yehuda, era diventata la loro lingua ufficiale, anche se fu inizialmente contrastata e restò poi a lungo la “lingua figlia”, così chiamata perché insegnata dai figli nati lì ai genitori immigrati. Intanto gli ebrei in Palestina erano più che raddoppiati, passando dai 50 mila del 1897 a 110 mila alla vigilia della prima guerra mondiale e poi cresciuti ancora, arrivando a 550.000 alla vigilia della seconda, quando gli arabi erano 1.250.000.
[9] Si veda Umberto Melotti, Stato e Torah in Israele, pubblicato nel 1962 nel quaderno Premesse del sionismo, sopra citato).
[10] Si veda Anouar Abdel-Malek, Égypte, société militaire, Seuil, Paris, 1962, e Hassan Riad [ps. di Samir Amin], L’Égypte nassérienne, Minuit, Paris, 1964.
[11] Sul “rifiuto arabo” e sui suoi precedenti si veda Maxime Rodinson, Israel et le refus arabe. Soixante-quinze ans d’histoire, Seuil, Paris, 1968.
[12] Sulla Jihad si veda Luciano Pellicani, Jihad, le radici, Luiss University Press, Roma, 2004.
[13] Vedi Umberto Melotti, Marx: presente, passato, futuro, Meltemi, Milano, 2018.
______________________________________________________________
Umberto Melotti, ha insegnato Sociologia e Antropologia culturale all’Accademia di Brera, all’Università di Pavia e, come ordinario, per ventisei anni, alla “Sapienza”. Ha fondato e diretto la rivista “Terzo Mondo” ed è stato a lungo membro della direzione dell’“International Review of Education”, pubblicata in tre lingue dall’Unesco. Fra le sue numerose pubblicazioni: Marx e il Terzo Mondo (Il Saggiatore, 1972), tradotto in inglese, spagnolo e cinese; L’immigrazione: una sfida per l’Europa (Edizioni Associate, 1992); Etnicità, nazionalità e cittadinanza (Seam, 1999); Migrazioni internazionali, globalizzazione e culture politiche (Bruno Mondadori, 2004), parzialmente tradotto in molte lingue; Marx: passato, presente, futuro (Meltemi, 2019).
______________________________________________________________