il centro in periferia
di Diego Mondo
La presente riflessione prende spunto dall’attuale emergenza sanitaria e intende porre l’attenzione su alcune questioni riguardanti i musei etnografici e le infrastrutture rurali per lo più uscite dal circuito produttivo e d’uso sociale ed oggi enucleate nel perimetro delle politiche di recupero e di valorizzazione. Tali questioni possono trovare interessanti connessioni con alcuni articoli della legge sulla cultura promulgata in Piemonte nell’agosto del 2018 [1]. Per entrambe le tipologie indicate, l’area considerata riguarda prevalentemente la montagna interna piemontese. Utilizzo la definizione “montagna interna” sulla base della suddivisione proposta in una recente ricerca che analizza l’eterogenea realtà alpina, accostando ad essa i dati sui borghi alpini e appenninici pubblicati lo scorso gennaio dall’Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani (Uncem) [2].
I musei etnografici rappresentano una realtà piuttosto varia [3]. A strutture storiche organizzate e in parte collegate ai rispettivi Comuni tramite accordi o convenzioni per l’apertura e la gestione (ma pur sempre legate all’apporto del volontariato) corrispondono realtà con vincoli meno formali, visitabili su richiesta e in base alla disponibilità di animatori locali. Si tratta in molti casi di collezioni di piccole dimensioni, testimonianze materiali raccolte ed esposte senza un disegno museografico preciso; esposizioni spontanee che rientrerebbero con difficoltà nella griglia concettuale e organizzativa espressa dalla recente normativa in materia di musei [4].
La questione dei musei etnografici in area alpina trova una sua logica interpretativa non estranea a più articolate e complesse questioni riguardanti la montagna contemporanea. Ne rappresenta piuttosto un aspetto di particolare interesse per approfondire il rapporto imbastito tra animatori, comunità locali e patrimonio culturale. Un tema su cui orientare alcuni indirizzi di politica culturale che emergono dalla lettura delle recenti normative sulla cultura, sulla montagna, sui piccoli comuni e – per correlazione trasversale – sul paesaggio [5]. Le relazioni materiali e culturali tra strumenti del lavoro, manualità contadina e paesaggio sono evidenti, anche se – come ha sottolineato Adriano Prosperi – rischiano di rimanere sullo sfondo se non debitamente poste in luce dal punto di vista storico ed etnografico [6]. Strumenti e utensili prima di convertirsi in oggetti da museo, nella mani dell’uomo (del contadino) sono stati utilizzati per dare forma al paesaggio elaborandone ed accompagnandone le trasformazioni.
Non è l’obiettivo del presente lavoro proporre un quadro aggiornato dei musei etnografici. Il momento è complesso e le informazioni ancora scarse. Si ritiene piuttosto utile avviare una prima riflessione partendo da alcune impressioni colte nel corso di uno scambio di idee con alcune realtà associative e piccoli musei [7]. Si tratta di impressioni ambivalenti. È percepibile per esempio una certa attitudine alla resilienza. La storia della nascita di non poche di queste raccolte documenta la trasformazione novecentesca del territorio rurale e l’evaporazione di contesti sociali ed economici in gran parte diversi da quello attuale. Resilienza e sopravvivenza si collocano dunque in un percorso collettivo ed umano (di singole persone e di intere comunità) che ha permesso di elaborare in passato risposte culturali a situazioni traumatiche e di frattura. Le attuali e, auspichiamo, transitorie e difficili modalità di fruizione potrebbero dunque sollecitare una rivisitazione aggiornata sul significato che queste raccolte hanno espresso a partire dalla seconda metà del secolo scorso, innestandosi nel solco della dialettica tuttora attuale e asimmetrica tra mondo rurale, modelli di sviluppo (compreso quello turistico) e aree urbane. Una riflessione che dovrebbe riguardare più livelli interpretativi e istituzionali.
È noto che i paradigmi su cui si sono fondati i legami storici, sociali ed economici tra la città e la montagna sono da tempo oggetto di discussione da parte della letteratura specialistica [8]. La ricerca di un nuovo rapporto tra economia rurale, turismo, patrimonio culturale e naturale ne costituisce per esempio un aspetto non secondario. Con l’aprirsi delle Fasi 2 e 3 determinate dall’emergenza sanitaria, questi temi hanno trovato una particolare cassa di risonanza grazie allo spazio dedicatovi dalla stampa e dalla discussione tra gli operatori del settore [9]. La questione delle prospettive di rinascita della montagna coniugata alla sostenibilità, alla rigenerazione, all’attenzione ai diritti di cittadinanza, alle nuove forme di welfare riguarda temi centrali e non eludibili che costituiscono oggetto di quotidiano approfondimento da parte dell’Uncem [10]. Alla salubrità dei luoghi, alla salute, al turismo ed allo svago si associano pertanto tematiche di carattere etico, di coesione sociale, di attenzione al dato demografico, la questione ambientale e l’uso delle risorse, la salvaguardia del patrimonio culturale in una prospettiva di concertazione con programmi multifunzionali e di agriterziario [11].
A fronte di tale molteplicità e complessità di argomenti, l’approccio place-based elaborato in sede europea e sperimentato nell’ambito di strategie territoriali tuttora in corso offre interessanti indicazioni per l’elaborazione di risposte condivise in grado di proporre soluzioni innovative e percorribili [12]. La valorizzazione del patrimonio culturale e la promozione del turismo (sostenibile, lento e di prossimità) includono dunque numerose questioni non solo legate all’accessibilità materiale dei luoghi. I musei etnografici presenti in area alpina rientrano in questo ambito di discussione, orientando le questioni poste dalla salvaguardia delle espressioni culturali in direzione di una visione allargata e trasversale relativa ad altri problemi strutturali del territorio.
Correlati ad aspetti di carattere generale, dallo scambio di valutazioni intercorso con alcuni musei emergono tuttavia anche problemi di ordine pratico posti dall’epidemia: personale volontario non formato in modo specifico, assenza di dispositivi per la protezione, segnaletica insufficiente e da adeguare, spazi fisici non attrezzati e inadatti ad assicurare un efficiente ricambio d’aria. Si aggiunga l’ingresso generalmente gratuito che può far venir meno la motivazione economica finalizzata a reinvestire nel miglioramento delle condizioni di visita. A tali problematiche si affiancano nondimeno serie ed apprezzabili proposte operative, da cui affiorano idee e soluzioni creative non dissimili da quanto immaginato da istituzioni dotate di ben altre strutture organizzative. Ad esempio, proposte di fruizione che privilegino, dove disponibile, lo spazio esterno al museo, la messa a punto di app dedicate associate a più tradizionali totem illustrativi degli oggetti esposti e dei luoghi, visite delle borgate e del contesto urbanistico ed ambientale da cui le collezioni provengono [13]. Dunque segnali di resilienza non passiva. Risposte apprezzabili che dovrebbero riscuotere attenzione, perché nate in seno a riflessioni e iniziative locali meditate. Risposte tese a non interrompere in una fase di particolare complessità il filo di un lavoro più che decennale di raccolta, di sistemazione ed esposizione talora spontaneo e in molti casi non estraneo ad attente ricerche frutto di un lavoro di collaborazione tra saperi disciplinari e saperi locali. In molti casi una collaborazione di profilo etnografico per la metodologia adottata e con esiti e interpretazioni originali e di particolare interesse.
Alcune proposte tra didattica, narrazione e valorizzazione
Intorno ai musei etnografici si sono polarizzate in passato numerose esperienze. In Piemonte la riflessione scientifica e il diretto contatto con singole realtà locali hanno permesso di analizzarne il ruolo, le prospettive ed i limiti [14]. Raccolte, esposizioni, musei etnografici sono tuttora diffusi capillarmente sul territorio rurale. Dato che rimanda tuttavia ad alcune considerazioni. Un aspetto che l’attuale congiuntura consente infatti di porre in luce riguarda la condizione introversa di molti piccoli musei (compressi tra difficoltà economiche e di orientamento culturale) e la necessità, di converso, di rafforzare sistemi e reti di collaborazione (tematiche, d’area, di valle) che permettano di addensare attorno alle iniziative locali competenze disciplinari finalizzate a creare o consolidare rapporti con il mondo della formazione universitaria e degli istituti di ricerca [15]. Il rischio è infatti che la parcellizzazione non riesca a far emergere adeguatamente le potenzialità di queste realtà culturali da decenni radicate nel territorio montano; in ultima analisi di non disporre di sufficienti strumenti negoziali al fine di correlarsi proficuamente alle sedi istituzionali attraverso la formulazioni di proposte e progetti adeguati. Va aggiunto che, non limitandosi all’apertura o a semplici pur apprezzabili operazioni di comunicazione, il sistema a rete collaborativa potrebbe supportare la gestione e la cura ordinaria delle raccolte, la promozione della ricerca e della didattica, predisporre iniziative di maggior impegno organizzativo, economico e culturale: operazioni che potrebbero far lievitare le realtà etnografiche oltre la dimensione – pur significativa – di corollario agli itinerari turistici, collegarle a proposte multifunzionali del comparto artigianale e rurale e orientarne le azioni verso i contenuti espressi dal Decreto Ministeriale n. 113/2018 sugli standard museali [16]. La rete faciliterebbe inoltre la messa a punto di quella stabile cornice amministrativa a cui rinvia l’articolo 18 della legge regionale 11/2018, rendendo più fluida la possibilità di accedere a risorse e condividere progetti.
Questi alcuni degli aspetti organizzativi. Restano aperte questioni altrettanto rilevanti. Esse riguardano il ruolo che possono svolgere i musei etnografici e la sfuggente costellazione di iniziative che ruota intorno ad essi in un quadro di attenzione più specificatamente mirato alle comunità alpine e alla possibile correlazione tra le funzioni del museo e l’esplicazione dei diritti di cittadinanza. Si tratta di temi su cui da tempo sollecita una riflessione Pietro Clemente [17]. Le iniziative dei musei etnografici non sono esclusivamente riconducibili alla raccolta e all’esposizione di manufatti della cultura materiale; esistono significative iniziative collegate all’animazione ed all’arricchimento culturale dei luoghi, con una buona dose di coscienza civica e consapevolezza delle problematiche riguardanti il mondo contemporaneo. Ad esempio, nelle valli cuneesi, in Ossola e in numerose altre valli della montagna piemontese. Queste iniziative esprimono competenze cognitive e saperi sociali diffusi e si rivolgono a una cultura dell’accoglienza non immemore di passate storie di mobilità e lavoro. Ne sono esempio i musei dedicati ai mestieri itineranti e specifici progetti transfrontalieri [18]. Si tratta di esperienze che possono delineare traiettorie volte alla promozione della cultura e del turismo indirizzate alla crescita sociale ed economica; in taluni casi, esperienze a cui s’uniscono enclaves di “intimità culturale” dove le relazioni tra comunità, luoghi e patrimonio culturale si ricompongono attraverso spazi affettivi e di memoria [19].
Se dunque i musei/presidi etnografici possono integrarsi a più articolate iniziative di sostegno al welfare locale, contribuendo a creare le condizioni per la promozione dei diritti di cittadinanza, ci si può porre la domanda in che misura essi possano prendere parte a progetti rivolti alla sostenibilità e a promuovere nuove economie del territorio. In sostanza, a contribuire a salvaguardare i fragili ecosistemi montani e la biodiversità e ad inserirsi in quell’innovativo flusso di pensieri, azioni ed esperienze oggi presente nel mondo alpino. A mio parere, la didattica promossa in collaborazione con i musei può dischiudere opportunità interessanti.
L’articolo 3 della legge regionale 11/2018 rimarca, ad esempio, la funzione della cultura nello sviluppare «il raccordo strutturato con il mondo della scuola e della formazione». Si tratta di una propensione ad istituire legami virtuosi tra formazione e territorio ben presente anche nei documenti di strategia per le aree interne, in taluni progetti transfrontalieri e in alcune misure dei programmi di sviluppo rurale. Tali legami possono essere intesi come un viaggio tra oggetti perduti, ritrovati, conservati ed associati a nuove idee: un approfondimento dei contenuti e della funzione storica espressa dai manufatti attraverso cui analizzare e decifrare i processi di trasformazione dei luoghi. Scrive Michela Rota:
«La cultura e le attività culturali possono entrare nelle politiche del quotidiano generando effetti positivi per le persone, il pubblico e le comunità. Che ci si rivolga al pubblico tradizionale, ai nuovi pubblici, ai cittadini del territorio di riferimento si tratta di un bacino di utenti da allargare progressivamente anche in termini territoriali. Tale partecipazione è rilevante sia per i musei caratterizzati da grandi flussi di pubblico […] sia per i piccoli musei sul territorio, custodi di un grande valore culturale, sociale ed educativo, che dovrebbe essere mantenuto nel corso del tempo con il supporto anche delle comunità locali»[20].
Si tratta di considerazioni condivisibili, in particolare perché esposte nel contesto di un’analisi sui musei e sulla sostenibilità integrata a partire dai 17 Obiettivi dell’Agenda 2030. In questa prospettiva di vicinanza alle esigenze manifestate dalle comunità, per i musei etnografici risultano favorevoli e problematici al tempo stesso alcuni snodi: da un lato, la presenza diffusa e capillare sul territorio; dall’altro la necessità di esprimere, per quanto possibile in modo condiviso, prospettive e progetti (dunque fare sistema) e rimarcare fuori dai propri “confini locali” i contenuti culturali sottesi alla raccolta, allo studio e all’esposizione museale (spontanea o meno). Si tratta a ben vedere di temi e di criticità coniugabili con altri fronti di discussione sulle aree montane interne [21]. È dunque necessario osservare i piccoli musei come componenti del contesto territoriale a cui appartengono, includendoli nel quadro di strategie trasversali che puntino ad azioni partecipate e coordinate per l’emancipazione del territorio [22]. Di cambio di immaginario e di ruolo “terapeutico” dell’ambiente montano ha parlato recentemente Andrea Mambretti [23]. Per entrambi gli aspetti sottolineati dallo studioso concederei un piccolo spazio di sperimentazione ai musei etnografici.
Il raccordo con la scuola e la formazione postulato dalla legge regionale 11/2018 permette ad esempio di ricondurre il patrimonio culturale a quel quid di esperienze e di saperi enucleati nella cura dei luoghi, nelle conoscenze e abilità manuali documentabili osservando gli oggetti, le tecniche di messa in opera dei manufatti architettonici, la cura del paesaggio e le relazioni sociali e di contesto. Nelle aree rurali e montane l’incontro tra musei, scuola e saperi diffusi può pertanto stimolare interessanti esperienze didattiche, in particolare se integrate con l’utilizzo delle nuove tecnologie digitali [24].
Un contributo alla condivisione della conoscenza attraverso materiali non solo esposti, ma ricontestualizzati nello spazio esterno attraverso vere e proprie performance interpretative in cui l’oggetto e la sua carica simbolica escono (realmente o virtualmente) dal museo invertendo la tradizionale relazione con il visitatore. Gli spazi esterni a cui facevano riferimento alcuni referenti dei musei contattati possono dunque trasformarsi in parterre aperti in cui studenti e visitatori hanno modo di apprendere e costituire piccole ed esperienziali “comunità della conoscenza”. Quanto al ruolo documentale ed al significato storico degli oggetti, va ricordato che i saperi orali in essi enucleati, tramandati e condivisi (tra generazioni e nei rapporti quotidiani anche in modo conflittuale) costruivano implicitamente presidi di conoscenza a scopo pratico, per l’adattamento e la soluzione di problemi quotidiani. Circa l’attualità degli argomenti discussi nella prospettiva musei etnografici e didattica, puntuali sono a mio parere le osservazioni del sociologo Giovanni Carrosio:
«I saperi tecnici non-esperti sono quei sistemi di conoscenza localizzata che si incrementano e riproducono non per codifica e standardizzazione, ma per prossimità ed emulazione […] saperi marginalizzati nel corso del Novecento […]. Da una ventina d’anni, però, la crisi ambientale ha riportato in auge i saperi tecnici non-esperti, che sono stati rimessi in moto rientrando nei processi di innovazione di alcune nicchie emergenti interne alla filiere produttive […] in termini di conoscenza non sono altro che saperi tradizionali della cultura contadina globale […] il passaggio da una trasmissione del sapere di tipo analogico a una di tipo digitale rimette in moto i saperi tradizionali, i quali non più vincolati alla scala locale, riprendono il cammino della tradizione – tradizione è mutamento, tradimento e traduzione – confrontandosi in uno spazio di conoscenza globale»[25].
Si potrebbe aggiungere che taluni procedimenti produttivi (siano essi rurali o artigianali) re-interpretati in chiave museale manifestano un implicito valore didascalico ed esemplificativo. Per esempio, permettono di riproporre in modo aggiornato conoscenze tradizionali e abilità peculiari consonanti con un approccio sostenibile dell’uso delle risorse. A tali aspetti, si aggiunga la possibile rivisitazione dei concetti di tempo, di interazione e di rigenerazione associabili tanto alla circolarità dei sistemi ecologici quanto alle pratiche di lavoro: osservare un abile artigiano o un contadino permette di accompagnare alla specifica gestualità dell’uso degli strumenti di lavoro un diverso concetto di tempo rispetto al modello ripetitivo della produzione standardizzata [26].
Il principio della circolarità insito nelle pratiche di lavoro tradizionali rinvia non solo a particolari modalità tecniche e di gestione delle risorse prime, ma anche ad attuali espressioni di critica sociale ed economica: un quoziente comunicativo e simbolico inaspettatamente ispirato dagli “umili” oggetti esposti nei musei etnografici e da infrastrutture non più inserite nel ciclo produttivo rurale. L’elezione di un manufatto a simbolo del lavoro e delle sue capacità espressive come chiavi narrative per decodificarne la storia ed illustrarne le modalità d’uso:
«una tecnica – scrive Alessandro Perissinotto – è una sorta di esperienza codificata e riutilizzabile; che si tratti di tecnica casearia, di tecnica pittorica […] essa assume significato solo se, una volta appresa, io la posso utilizzare per fare un’altra forma di formaggio, per dipingere un altro quadro»[27].
Fuori dall’ambito produttivo, nel contesto del museo etnografico esperienza, tecnica e utilizzo possono utilmente essere ricondotti a formule didattiche. Un esempio tra gli altri può essere costituito dal fuso e dal battitoio entrambi conservati a Prazzo, in Val Maira, ed entrambi testimonianze materiali inserite nel percorso (interno ed esterno) della visita al Museo della Canapa e del Lavoro femminile [28]. Un oggetto e un’infrastruttura usciti dal circuito della vita rurale la cui storia è stata raccolta in più schede e alla cui conservazione e valorizzazione hanno contribuito risorse economiche, ma soprattutto un rinnovato senso di ri-appropriazione del patrimonio culturale inteso come bene comune. I due manufatti documentano la storia sociale, i luoghi, le donne e gli uomini che con fatica li utilizzavano e attorno a cui ruotava un regime di economia locale associato al mondo agrosilvopastorale. Esperienze di lavoro e fatica codificate dalle consuetudini e riproposte senza alcuna concessione a letture semplificate ed edulcorate. Nel caso dei manufatti segnalati, il confronto con l’economia circolare del passato rivisitata al presente può tratteggiarsi simbolicamente e materialmente tramite il ruotare del battitoio e del filo di canapa attorno al fuso. La rotazione, reale o evocata, riflette, attraverso il movimento, la tecnica, il contesto del lavoro, la funzione degli oggetti e la loro proiezione nello scenario presente: dall’uso al disuso, dall’approdo nel museo alla catalogazione, dalla conservazione allo studio, all’allestimento, all’esposizione. Alla componente narrativa aggiungerei la storia del progetto: la nascita, il consenso e le eventuali tensioni addensate intorno ad esso per la sua messa in opera, il restauro e la nuova vocazione del battitoio da infrastruttura preindustriale a bene culturale e gli attori in campo che hanno contribuito a condurlo a buon fine [29].
Altri manufatti possono delineare altrettanti percorsi didattici ed evidenziare il nesso tra saperi locali, saper fare e costruzione contemporanea del patrimonio culturale, annoverando esempi, modelli e iniziative di accreditamento culturale del patrimonio (patrimonializzazione) su cui, anche in modo critico, è stata posta recentemente l’attenzione[30]. In tale prospettiva, gli oggetti conservati nei piccoli musei etnografici possono essere valorizzati per il loro riconosciuto rilievo storico ed associati a percorsi innovativi solidali con tematiche culturali improntate alla sostenibilità e tese a suggerire modelli di sviluppo indirizzati a promuovere filiere locali e progetti eco-turistici [31].
Qualche riflessione su patrimonio culturale e alcuni dati pubblicati dall’Uncem
Una fotografia della consistenza del patrimonio culturale diffuso accostabile alla capillare presenza dei musei etnografici è stata recentemente pubblicata dall’Uncem. Si tratta di una mappatura messa a punto da tecnici e amministratori collegata a strumenti di intervento del Programma di Sviluppo Rurale [32]. Attraverso una svariata gamma di tipologie, i dati pubblicati rispecchiano quello che Antonio De Rossi e Laura Mascino hanno definito capitale fisso territoriale:
«un incredibile dispositivo dell’abitare, fatto di borghi e sistemazioni agricole e fluviali, di boschi e infrastrutture minori che attende di essere reinterpretato, riusato, mantenuto, rinnovato. Nell’ottica di una green economy tecnorurale»[33].
Ed in effetti dall’elenco Uncem, unitamente ad un buon numero di edifici religiosi, emergono ex scuole, mulini, fucine, fornaci, forni, lavatoi, ecc. a documentare una costellazione di manufatti e infrastrutture che permettono di ricomporre non solo aspetti materiali del patrimonio, ma di leggere in filigrana le traiettorie sociali ed economiche del territorio montano dal secondo dopoguerra ad oggi. Pur in assenza di puntuali indicazioni cronologiche relative al periodo di edificazione dei manufatti, i circa quaranta edifici scolastici non più utilizzati sparsi dalle valli dell’Ossola alle Alpi Marittime documentano, per esempio, in modo eloquente le tendenze demografiche dell’area alpina e il processo di spopolamento ed abbandono di ampie parti del territorio montano. Di converso, non sono infrequenti musei o ambienti che ricostruiscono materialmente piccole scuole e aule gremite di arredi, oggetti, libri, quaderni che riproducono l’universo scolastico del passato. Un ulteriore esempio in cui il museo etnografico surroga e reinterpreta i luoghi della vita rurale cari alla memoria sociale. Detto per inciso, il tema della scuola (intesa anche come edificio) e della formazione legata a vocazioni territoriali è ben presente e con diverse sfumature nell’ambito delle politiche di strategia imbastite per le aree interne e nei progetti transfrontalieri. Non si può escludere che questi manufatti oggi non più utilizzati e in attesa di essere recuperati a nuove funzioni non possano, quantomeno a breve termine, trasformarsi in una preziosa riserva di spazi fisici e sociali utili per arginare le criticità determinate dall’emergenza sanitaria.
Lo sguardo sui dati pubblicati dall’Uncem può dunque fornire più indicazioni. Da un lato, rivelare gli intrecci storici, sociali ed economici attraverso cui si scompongono e ricompongono le motivazioni che fanno da sfondo alla costruzione ed all’abbandono del patrimonio culturale, dall’altro, evidenziare le modalità attraverso le quali nascono e si producono politiche locali di patrimonializzazione, di tutela e di valorizzazione. A prescindere da quanto realmente potrà essere realizzato, l’elenco pubblicato dall’Uncem documenta la necessità di re-interpretare le numerose, inutilizzate o sotto utilizzate infrastrutture storiche del territorio, facendone emergere attraverso nuove funzioni, importanza e potenzialità latenti. Un “patto con il territorio” e le risorse ereditate dal passato non estranei ai principi contenuti nella Convenzione di Faro [34].
Ho fatto cenno nel corso di questo excursus tra i musei e il patrimonio locale alla didattica ed alla narrazione come possibili strumenti per connettere passato, presente e futuro. Un futuro sostenibile. Affiderei la conclusione ad una riflessione dell’antropologo e scrittore Amitav Ghosh. Una riflessione associata alla letteratura, ma che vorrei condividere con i musei etnografici che oggi volgono lo sguardo in avanti. Scrive lo studioso indiano:
«l’intento del narrare non è quello di riprodurre il mondo com’è; ciò che il narrare – e con questo termine non intendo solo il romanzo ma anche l’epica e il mito – rende possibile è affrontare il mondo al congiuntivo, figurarselo come se fosse altro da quello che è: insomma, il grande, insostituibile ruolo della finzione narrativa è far immaginare altre possibilità»[35].
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Legge regionale n. 11 del 1° agosto 2018 Disposizioni coordinate in materia di cultura. Circa la discussione sulle relazioni tra recupero, messa in valore e patrimonializzazione, si veda nota 29.
[2] IRES Istituto di Ricerche Economico-Sociali e Associazione Dislivelli (2019), Le montagne del Piemonte, Torino. Il documento è scaricabile in formato PDF dal sito www.ires.piemonte.it. Le altre aree considerate corrispondono alla montagna dei distretti turistici e alla montagna integrata. Per i dati pubblicati dall’Uncem, si veda nota 30.
[3] Si veda COLOMBATTO C. (2016), Il museo etnografico tra antropologia, storia e legislazione. Una ricerca di museologia nomade in Piemonte, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Culture, politica, società, Dottorato di ricerca in Scienze Psicologiche, Antropologiche e dell’Educazione, Ciclo XVII.
[4] Si veda il Decreto Ministeriale n. 113/2018 Adozione dei livelli minimi di qualità per i musei e i luoghi della cultura di appartenenza pubblica e attivazione del Sistema museale nazionale.
[5] Legge regionale n. 13/2018 Riconoscimento degli Ecomusei in Piemonte; legge regionale n. 14/2019 Disposizioni in materia di tutela, valorizzazione e sviluppo della montagna; legge n. 158/2017 Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni; Piano Paesaggistico Regionale Norme di Attuazione, D.C.R. n. 233-35836 del 3/10/2017.
[6] A. PROSPERI (2019), Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, Torino, Einaudi: IX-XVIII.
[7] Lo scambio di idee ha avuto luogo nel mese di maggio 2020. Non sempre è stato possibile contattare direttamente i musei. In tal caso, si è fatto riferimento ai Comuni e ad altri istituti collegati a musei ed esposizioni etnografiche. A tutti va un particolare ringraziamento per la disponibilità e l’attenzione. L’elenco, dall’alto al basso Piemonte: Associazione Musei d’Ossola, Ecomuseo Cusius del Lago d’Orta e Mottarone, Museo delle Genti delle Valli di Lanzo, Centro Culturale Diocesano di Susa, Centro Culturale Valdese, Comune di Ostana, Comune di Bellino, Museo del Costume e dell’Artigianato Tessile di Chianale (Pontechianale), Museo della Canapa e del Lavoro femminile di Prazzo, Comune di Celle di Macra, Comune di Stroppo, Comune di Elva, Ecomuseo del Castelmagno, Ecomuseo della Pastorizia, Parco Naturale Alpi Marittine, Museo Civico di Cuneo.
[8] Su questo tema la letteratura è molto ampia. Rinvio ai seguenti volumi e alla bibliografia citata: CORRADO F., DEMATTEIS G., DI GIOIA A. (2014), Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, Milano, FrancoAngeli; DE ROSSI A. (2016), La costruzione delle Alpi. Il Novecento e il modernismo alpino (1917-2017), Roma, Donzelli; BONATO L. (a cura di) (2017), Aree Marginali. Sostenibilità e saper fare nelle Alpi, Milano, FrancoAngeli; DE ROSSI A. (a cura di) (2018), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma, Donzelli; BARBERA F., DI MONACO R., PILUTTI S., SINIBALDI E. (2019), Dall’alto in basso. Imprenditorialità diffusa nelle Terre Alte piemontesi, Torino, Rosemberg & Sellier; VAROTTO M. (2020), Montagne di mezzo. Una nuova geografia, Torino, Einaudi; CERSOSIMO D., DONZELLI C. (2020), Manifesto per riabitare l’Italia, Roma, Donzelli.
[9] Mi riferisco agli articoli apparsi nel corso del mese di maggio sulle pagine locali dei quotidiani “La Stampa”, “La Repubblica” e “Corriere della Sera”.
[10] Si veda: www.uncem.net; www.uncem.piemonte.it.
[11] Sul turismo e le questioni etiche, si vedano DEL BÒ C. (2017), Etica del turismo. Responsabilità, sostenibilità, equità, Roma, Carocci e CHRISTIN R. (2019), Turismo di massa e usura del mondo, Milano, Eleuthera. Per l’area alpina, si veda CAMANNI E. (2019), 10 anni di trasformazione del turismo, in “Dislivelli”, n. 100, settembre-ottobre (www.dislivelli.it). Interessanti considerazioni anche in BOLTANSKI L., ESQUERRE A. (2019), Arricchimento. Una critica della merce, Bologna, il Mulino: 40 sgg. Multifunzionalità e agriterziario riguardano alcuni degli interventi contemplati dalle misure del Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020 gestite dai Gruppi di Azione Locale: vedi ANGELINI A., BRUNO A. (2016), Place-based. Sviluppo locale e programmazione 2014-2020, Milano, FrancoAngeli.
[12] Si vedano ANGELINI A., BRUNO A. (2016), Place-based cit., CARROSIO G. (2019), I margini al centro. L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione, Roma, Donzelli: 105 e nota 12, BARCA F., LUONGO P. (2020), Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale, Bologna, il Mulino: 173 sgg.
[13] Opzioni segnalate dall’Associazione Musei d’Ossola, dal Museo della Canapa e del Lavoro femminile di Prazzo, dal Museo del Costume e dell’Artigianato Tessile di Chianale e dal Centro Culturale Diocesano di Susa. La relazione tra oggetti etnografici, borgate e percorsi di conoscenza trova interessanti spunti di congiunzione con gli interventi di restauro e rivitalizzazione delle borgate montane attuati dalla misura 322 del Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013.
[14] Si vedano COLOMBATTO C. (2016), Il museo etnografico cit. e il saggio di GRIMALDI P., PORPORATO D., I musei etnografici. Forme e pratiche di resilienza alpina, Atti del convegno Didamatica, AICA, 2012, ripubblicato in “Dialoghi Mediterranei”, gennaio 2020 (www.istitutoeuroarabo.it/DM).
[15] Circa i beni etnoantropologici, si rinvia alle competenze disciplinari enumerate dal Decreto ministeriale n. 244/2019 e all’art. 9 bis del D.lgs 42/2004.
[16] Ringrazio Elisa Salvalaggio con cui ho avuto modo di discutere questi temi e le attività da lei svolte al Museo della scuola “L’escolo de Mountanho” di Stroppo (CN). Circa questi aspetti, si vedano anche le considerazioni in ROTA M. (2019), Musei per la sostenibilità integrata, Milano, Editrice Bibliografica: 125 e sgg.
[17] Si vedano i contributi pubblicati sui precedenti numeri di “Dialoghi Mediterranei”.
[18] Qui mi limito a segnalare il Museo di Pels (dei caviè, dei capelli) a Elva (CN), Seles Museo dei Mestieri itineranti e degli acciugai a Celle Macra (CN), l’esposizione sulla transumanza dell’Ecomuseo della Pastorizia (Pietraporzio, CN) e il progetto Interreg V-A Italia-Francia ALCOTRA 2014-2020, MigrACTION.
[19] Mutuo l’espressione “intimità culturale” da Herzfeld M. (2003), Intimità culturale antropologia e nazionalismo, Napoli, l’Ancora del Mediterraneo. Le relazioni tra luoghi e memoria sono state poste in luce per la Valle Anzasca da ZANINI R. C. (2015), Salutami il sasso. Dinamiche della popolazione e della memoria in una comunità alpina di confine, Milano, FrancoAngeli.
[20] ROTA M. (2019), Musei cit.: 22.
[21] Si veda BARBERA F., DI MONACO R., PILUTTI S., SIBALDI E. (2019), Dall’alto cit..
[22] Esemplare per questo aspetto è la Strategia Nazionale Aree Interne. Si vedano i contributi in DE ROSSI A., Riabitare cit. e VIAZZO P.P., Nuovi scenari per l’antropologia alpina: le terre alte tra ripopolamento e sostenibilità, in L. BONATO L. (a cura di) (2017), Aree cit.: 26-36.
[23] TABARINI S. (2020), Ripartiamo dai nuovi montanari. Intervista al sociologo Andrea Membretti, in “l’Extra Terrestre”, settimanale ecologista del manifesto, n. 26, anno III, 25 giugno.
[24] Si veda COLOMBO M.E. (2020), Musei e cultura digitale. Fra narrativa, pratiche e testimonianze, Milano, Editrice Bibliografica. Circa il rapporto di co-creazione e il contributo della comunità locale, interessante a riguardo l’esperienza segnalata da Nancy Proctor nel corso di un’intervista pubblicata nello stesso volume: 148-149.
[25] G. CARROSIO (2019), I margini cit.: 87-89. Si veda anche la voce “Luoghi” redatta da Domenico Cersosimo in CERSOSIMO D., Donzelli C. (2020), Manifesto cit.: 145.
[26] Si veda ROSA H. (2015), Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Torino 2015.
[27] PERISSINOTTO A. (2020), Strategie e tecniche di storytelling, Bari-Roma, Laterza: 46. Su patrimonio e narrazione, si veda LATTANZI V., DI LELLA R.A., Al museo con. Patrimoni narrati per musei accoglienti, in BODO S., S. MASCHERONI S., PANIGADA M.G. (2016), Un patrimonio di storie. La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale, Milano-Udine, Mimesis: 139-151.
[28] Ringrazio Luciana Berardi, già Assessore alla Cultura del Comune di Prazzo e animatrice dell’Associazione Chaliar, per la disponibilità e il mai interrotto dialogo con il Museo e le sue attività. Devo inoltre molte delle idee e delle informazioni ai materiali messi a disposizione dal Comune e dall’Associazione. In particolare, le schede redatte per la legge regionale 35/95, le schede di catalogazione BDI e i quaderni curati da Luciana Berardi nell’ambito del Piano Integrato Transfrontaliero “Monviso: l’uomo e le terroire”, 2012.
[29] Molte i soggetti coinvolti. Come semplice promemoria: il Comune, l’Associazione Chaliar, la Soprintendenza competente, la Regione Piemonte… Per le relazioni tra narrazione e territorio, cfr. PERISSINOTTO A. (2020), Raccontare cit: 127 sgg. Ripercorrendo la storia delle infrastrutture e dell’economia locale non bisogna dimenticare la funzione indispensabile dell’acqua, quella del torrente in località Rabiera nel nostro caso. Funzione indispensabile per il funzionamento del battitoio della canapa e centrale per i significati culturali di cui questa risorsa primaria è portatrice. Per la Val Maira, in chiave di sviluppo locale e utilizzo delle risorse idriche si veda G. CARROSIO, I margini cit.: 93-94. Per le infrastrutture architettoniche, si vedano BONARDI C. (2009), Atlante dell’edilizia montana nelle alte valli del cuneese. 5. La Valle Maira (Valloni di Elva, Marmora, Preit, Unerzio, Traversera), Politecnico di Torino – Sede di Mondovì, Torino; OLIVERO R. (2009), Macchine ad Acqua. Mulini in Valle Maira, Dronero, I Libri della Bussola: 40-41. Per gli aspetti antropologici relativi all’uso dell’acqua M. VAN AKEN (2013/2014), Irrigazione, in “Antropologia Museale”, 34/36: 92-94.
[30] Si vedano DE ROSSI A., MASCINO L., Progetto e pratiche di rigenerazione: l’altra Italia e la forma delle cose, in A. De ROSSI (2018), Riabitare cit.: 499-523 e, degli stessi autori, la voce “Patrimonio”, in CERSOSIMO D., DONZELLI C. (2020), Manifesto cit.: 177-181.
[31] Sull’elaborazione locale di alcune proposte di promozione turistico-culturale, si veda quanto segnalato in BARBERA F., DI MONACO, PILUTTI S., SINIBALDI E. (2019), Dall’alto cit.: 164-165.
[32] Borghi alpini e borghi appenninici del Piemonte. Dati-Numeri-Scenari-Sfide, a cura di Uncem Piemonte, Gennaio 2020 (www.uncem.piemonte.it). All’elenco delle infrastrutture architettoniche si aggiungono oltre ottanta ipotesi di completamento, riallestimento e creazione di musei, cellule ecomuseali e laboratori culturali.
[33] DE ROSSI A., MASCINO L., Riflessioni sull’importanza di spazio e territorio nel progetto delle aree interne, www.agcult.it/a/17940/2020.05.01/riflessioni-sull-importanza-di-spazio-e-territorio-nel-progetto-delle-aree-interne.
[34] Di un nuovo patto tra il territorio e i luoghi di cultura in conseguenza del coronavirus ha parlato Francesco Sirano, direttore del Parco archeologico di Ercolano. Si veda PORCHEDDU V., Ercolano, luogo di resilienza, “il Manifesto”, 9 maggio 2020. Per la Convenzione di Faro, Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, 2005, si veda VOLPE G. (2016), Un patrimonio italiano. Beni culturali, paesaggio e cittadini, Torino, UTET.
[35] GHOSH A. (2017), La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Vicenza, Neri Pozza: 158-159.
______________________________________________________________
Diego Mondo, lavora presso il Settore Valorizzazione del Patrimonio culturale Musei e Siti Unesco della Regione Piemonte. Ha partecipato ai tavoli tecnico-scientifici ICCD-Regioni per le schede DEA, a progetti Interreg e di catalogazione del patrimonio culturale piemontese. Negli anni 2010-2011 ha collaborato al Progetto di Cooperazione Sud Est Europa Sviluppo del turismo culturale Città di Mostar, Sarajevo e Skopje. Collabora con i Settori regionali che si occupano dei programmi Leader e delle borgate montane del Programma di Sviluppo Rurale, della Strategia Nazionale Aree Interne e dello Sviluppo Urbano Sostenibile. Nell’ambito della messa a punto del sistema regionale, cura il rapporto con i musei etnografici presenti nelle aree rurali e alpine.
_______________________________________________________________