di Francesca Maria Corrao
La guerra, da sempre tutte le guerre, pongono i termini della contesa su opposizioni binarie: i buoni contro i cattivi. Eppure, nessun essere umano è soltanto buono; ognuno è ugualmente pervaso dal bene e dal male e ha la possibilità di ragionare e gestire il controllo delle pulsioni negative. Sempre di più capiamo che anche gli animali hanno quest’ultima capacità; a volte i cani non reagiscono con violenza al bambino che li tormenta o li provoca, mentre invece le piante emanano acidi per allontanare i “cattivi” parassiti che le aggrediscono.
La natura può innescare un meccanismo di autodifesa pur non avendo, a nostra conoscenza, un’etica a cui affidarsi nelle scelte. Noi umani invece possiamo elaborare una riflessione pratica, filosofica, o religiosa. Le sfide che ci pone lo scenario internazionale ci offrono l’occasione per provare ad immaginare una reazione non violenta ma dialogica; ad esempio potremmo dialogare come fecero nel Medioevo il filosofo ebreo Maimonide e il musulmano Averroè. In tal modo riusciremmo ad evitare il ripetersi di un destino conflittuale che allora portò l’Europa a rompere i rapporti con ebrei e musulmani.
Un antico saggio orientale, nell’interpretare un passaggio del Sutra del Loto del Buddha Shakyamuni, scriveva: «se riconosco la dignità dell’altro simultaneamente riconosco la mia» e poi più chiaramente spiegava con una metafora: «se mi inchino davanti allo specchio, anche l’immagine che mi sta davanti si inchina». Il riconoscere la dignità dell’altro valorizza la mia dignità e induce l’altro a considerarla.
Nella narrativa occidentale troviamo meravigliose metafore che ci aiutano a capire il complesso rapporto con l’Altro, come ad esempio quella di Eco che ama e rincorre Narciso. Qui vale la pena ricordare che, secondo la leggenda, Narciso si suicida (involontariamente) perché troppo innamorato dell’immagine di sé, del suo riflesso. La sua storia sarà trasmessa solo in parte dall’innamoratissima Eco che lo insegue ma non lo raggiunge.
Per continuare con le metafore di incontri infelici, ritorno sul tema dell’inganno ricordando le sirene di Ulisse. Per resistere a una sorte crudele l’eroe si fa legare; spostando a noi il suo coraggioso esempio viene da chiedersi se potremo resistere alla tentazione delle facili “illusioni” che ci trascinano verso un incerto destino costruendo barriere acustiche per difenderci dagli inganni delle sirene mediatiche.
Qui mi propongo di accennare brevemente al rapporto tra fede e potere nell’Islam per poi sviluppare una riflessione sulla difficoltà che ha l’Occidente laico a dialogare con l’Islam che, a mio parere, è anche dovuto al fatto che all’interno dell’Occidente non è facile il dialogo tra uomini di fede e laici.
Cercherò di rispondere a tre domande: quale rapporto ha il potere con la fede nella società odierna? Dalla storia sappiamo che la religione, i rappresentanti della religione, nel corso dei secoli si sono alleati quasi sempre con il potere puntellandosi a vicenda; ma altre volte hanno avuto anche rapporti conflittuali. Lo stesso si può osservare nella storia del mondo islamico. Oggi molte delle tradizionali alleanze tra fede e potere sono entrate in una fase di transizione.
In Medio Oriente e in Nord Africa spesso queste crisi sono la conseguenza delle risposte inadeguate date dai governi alle difficoltà economiche nonché sociali. L’opposizione si è coagulata dietro i partiti religiosi, anche a causa del fallimento delle ideologie secolari; ma abbiamo visto che ancora oggi l’uso politico della religione non dà garanzie di libertà e di rispetto dei diritti civili, come mostrano le guerre civili esplose dopo le rivolte arabe.
L’Islam ha risposte chiare al bisogno di equità e giustizia dei poveri. È possibile che religiosi e intellettuali liberali (secolari) si accordino nei Paesi islamici su valori condivisi di equità e giustizia? Il crescente fenomeno migratorio in Occidente apre poi un’ulteriore problematica: sarà possibile trovare un accordo tra le diverse fedi che possa aiutare a trovare risposte utili a superare la crisi attuale delle nostre società? A queste due domande se ne aggiunge una terza, che riguarda chi non ha fede: quali valori propone un laico di fronte alla crisi delle istituzioni che ci paiono consolidate, quali i diritti umani, la democrazia, la giustizia, la libertà (quella che non lede i diritti degli altri)?
Tali questioni si pongono in una fase storica in cui prevale un nichilismo che da una parte – come afferma il filosofo Galimberti [1] – è l’effetto della perdita di prospettive, di speranza e quindi di senso che si volge in un declino della tensione umana verso la ricerca di risposte a quesiti universali quali: perché vivere e perché morire, perché soffrire, perché invecchiare?
Prima di provare ad elaborare una risposta riassumo brevemente quello che potrebbe essere un excursus dei pensieri che partono da una prospettiva occidentale “tradizionale”. Paolo Prodi in un suo studio scrive [2]: «L’Occidente nella sua storia ha imparato a tenere a bada il sacro senza scacciarlo e questa è la nostra conquista della laicità». Sino a qualche decennio fa avremmo potuto dire la stessa cosa per la cultura nell’altra sponda del Mediterraneo. La laicizzazione forzata della nazione promossa da Ataturk sembrava ben avviata in Turchia, come pure in altri Paesi del Medio Oriente quali l’Irak, e nel Nord Africa l’Egitto e la Tunisia. Per questi Paesi proporrei una parafrasi dell’affermazione di Prodi adattandola come segue: come e quando si è arrivati in Medio Oriente a questa separazione o “recinzione” del sacro e, dunque, alla conquista della laicità, che oggi è al centro dell’attacco da parte del fondamentalismo o meglio dei partiti che usano il linguaggio religioso per fare politica?
Il rispetto dei principi della fede nell’amministrare la comunità è un presupposto che risale all’origine dell’Islam, con il patto siglato dal profeta Muhammad con la comunità islamica fondato sul dettato coranico. Alla morte il profeta non lascia indicazioni sulla gestione del potere, e così la comunità si organizza sulla falsariga delle modalità preislamiche sostituendo la fedeltà al capo clan con la fedeltà al migliore tra i musulmani. Nel giro di pochi anni l’aspro confronto tra chi sosteneva l’eleggibilità a guida della comunità dei soli eredi del profeta (noti in seguito come sciiti) e chi privilegiava la nomina sulla base del consenso (sunniti), prevalsero questi ultimi. La dinastia omayyade adottò molti strumenti amministrativi di impronta bizantina, tra cui l’ereditarietà del califfato, e perseguitò i discendenti del profeta.
La frattura all’interno della comunità crebbe sino a portare alla rivoluzione abbaside e alla nascita di un nuovo califfato guidato da parenti del profeta. Questi, per gestire il vasto impero, adottarono molti strumenti della cultura sasanide, approfondendo la separazione tra il ruolo sacro del califfo da una parte e dall’altra l’amministrazione militare (i capi degli eserciti), quella politica (il wazìr, ministro) e quella religiosa (gli esperti di legge coranica e i giudici). Nel tempo, la gestione delle regioni dell’impero richiese la delega del potere politico ai capi militari, e tutto ciò portò alla lenta frantumazione in emirati e sultanati militari, sino al sopravvento dei turchi ottomani.
Nel corso dei secoli i musulmani per lo più hanno adattato, con sapienza e saggezza, i sacri princìpi etici del Corano al mutare dei luoghi e dei tempi. A queste scelte si sono opposti sparuti gruppi di radicali, a volte ribellandosi anche in modo violento [3]. A partire dal XIX secolo, l’iter di formazione dello Stato moderno è stato compiuto per tappe forzate per rispondere alle esigenze di riforma indotte dal colonialismo; queste sono state anche accelerate a causa della crisi strutturale che attraversava l’Impero ottomano. Il superamento dell’esercito tradizionale per introdurne uno sul modello prussiano, ha distrutto i legami di lealtà tra il sovrano e i sudditi; l’introduzione del concetto di cittadinanza ha dissolto i rapporti all’interno della comunità creando frizioni nelle relazioni tra fedi diverse che sino ad allora avevano convissuto in modo relativamente pacifico.
Mentre in Occidente il monoteismo schiacciava tutte le minoranze religiose, nell’area ottomana queste venivano protette dal principio del millet: i non musulmani potevano applicare il proprio diritto di famiglia in modo conforme alla fede di appartenenza a condizione di riconoscere l’autorità del capo musulmano, e di pagare una tassa specifica, e in cambio usufruivano dell’amministrazione, della giustizia e della protezione militare da parte del califfo o del sultano. Questo è l’evoluzione del concetto di dhimma, introdotto dal Profeta.
Gli ottomani per modernizzare il sistema, e fare fronte alla crisi economica, avevano costretto le periferie ad applicare le regole occidentali; ma imporre concezioni nuove su di un antico sistema, impreparato ad evolversi in tempi brevi, causò nuove forme di discriminazione tra i sudditi. Ad esempio, l’imposizione del servizio militare unificato ed esteso alle minoranze religiose (che in precedenza ne erano state esonerate), provocò reazioni simili alla ribellione dei fasci siciliani contro il servizio militare obbligatorio dopo l’Unità d’Italia.
Nella fase post-coloniale, con la fine del Califfato ottomano e la nascita degli Stati moderni, furono adottate carte costituzionali basate sui modelli occidentali. Da allora le istituzioni religiose islamiche sono passate sotto il controllo dello Stato; questo ha portato all’unificazione delle scuole di diritto, tradizionalmente differenziate, e alla nomina, su indicazione governativa, dei responsabili delle moschee principali. In pratica, in Algeria il governo francese sceglieva i capi religiosi, e in Libano i rappresentanti delle comunità religiose diventavano i leader dei partiti politici. Questa bizzarra trasformazione verso un sistema secolare alterava il rapporto tra potere politico e le organizzazioni religiose. Comunque, il diritto di famiglia restava di pertinenza delle istituzioni religiose, lasciando inalterato il sistema patriarcale e accantonando la questione dei diritti delle donne.
Il succedersi delle crisi economiche – a partire dagli anni ’70 – dal declino del modello arabo socialista alla mancata ripresa economica dopo l’apertura al libero mercato, insieme al persistere delle tensioni tra Israele e i Palestinesi, hanno favorito l’ascesa dei partiti religiosi. Le rivolte del 2011, chiamate sovente “primavere”, hanno aperto una fase di transizione mediterranea che ha visto esplodere guerre civili in Siria, Libia, Yemen e Sudan tra gruppi aderenti ai movimenti religiosi e i militari, e ha visto fallire i governi dei Fratelli musulmani in Egitto e in Tunisia.
In questa situazione già di per sé instabile si è incuneata la meteora jihadista. L’abile propaganda di gruppi di estremisti islamici ha catalizzato le speranze di giovani disperati, affascinati dal modello ideale dei primi califfi. La chiamata a combattere per un governo “perfetto”, ispirato ad una fede ideale, per di più guadagnando denaro facile, li ha convinti di potere abbattere in tempi brevi i governi corrotti, assicurandosi anche un posto in paradiso. Si tratta di un’ideologia malefica che manipola il linguaggio religioso per conquistare l’appoggio di persone bisognose di aiuto e poco informate.
I media occidentali hanno semplificato queste dinamiche, utilizzandole sovente per finalità politiche, contribuendo a criminalizzare l’Islam nel suo complesso, senza distinguere tra le minoranze fondamentaliste violente e la comunità islamica tollerante e pacifica. Le tre grandi fedi monoteiste – di fronte all’emergere dei fondamentalismi religiosi e all’uso deviato della fede – hanno risposto organizzando incontri di dialogo interreligioso, a partire dalle marce per la pace ad Assisi fino agli incontri del Papa Francesco negli Emirati arabi e in Marocco con rappresentati musulmani ed ebrei.
Per contrastare il diffondersi dell’aberrante manipolazione radicale e intollerante, in Marocco è stata creata una scuola di formazione per gli Imam. Sono infatti necessari predicatori esperti per contrastare il proselitismo fondamentalista e aiutare le persone che hanno bisogno di aiuto. Il bisogno è vivo anche nelle aree periferiche delle metropoli europee, e soprattutto nei campi di accoglienza dei rifugiati intorno all’Europa nell’area MENA (Medio Oriente e Nord Africa). Nei vasti campi profughi vivono migliaia di giovani poco scolarizzati, alcuni dei quali sono pronti a credere a qualsiasi utopia che dia senso e scopo alla loro esistenza, senza distinguere un progetto buono da uno fallace.
Nella sponda Nord del Mediterraneo la crisi esistenziale è diametralmente opposta: gli squilibri sul mercato del lavoro si stagliano in un orizzonte per lo più di cinico individualismo. La spinta solidaristica emersa agli inizi della crisi pandemica e con la guerra in Ucraina, non ha incluso gli immigrati africani e asiatici e non apre a una politica di dialogo e di collaborazione con i Paesi extra-europei.
Gli appelli del Papa alla solidarietà hanno visto rispondere con entusiasmo molte organizzazioni non governative sia laiche sia religiose. Gli aiuti sono arrivati anche dai Paesi Musulmani, ma i nostri media non ne hanno parlato. La Polonia in particolare ha respinto i profughi musulmani e africani che scappavano dall’Ucraina dove studiavano o lavoravano. La piaga del razzismo persiste. L’UNHCR loda l’Italia per la pronta risposta alle loro richieste di aiuto, ma non può non rilevare la politica di due pesi e due misure nei confronti degli immigrati che provengono dal Medio ed Estremo Oriente e dall’Africa. Diventa sempre più urgente per credenti e non credenti trovare un terreno di riflessione e di azione condiviso, a partire da una base etica comune per realizzare insieme un percorso che dia speranza e prospettive.
I problemi del dialogo interreligioso e interculturale sono numerosi, a cominciare dalla diffidenza dei laici verso chi vive la fede in modo formale e viceversa dalla difficoltà che le persone di fede mostrano nei confronti di chi si mostra senza fede. Questi pregiudizi crescono esponenzialmente se il dialogo si svolge tra persone di fede e cultura diverse; in tal caso il “religioso” islamico è subito associato ad un potenziale terrorista e il laico occidentale è sospettato di avere una visione eurocentrica e colonialista. Occorre pertanto creare un terreno di incontro a partire dal riconoscimento della dignità dell’altro.
Ad esempio, un amico laico di recente mi confessava di non capire le persone che pregano, e gli ho risposto che hanno bisogno di dare un senso al dolore, accettare la morte di una persona cara, e trovare la forza per affrontare le sofferenze del vivere. Anche il laico si pone tali quesiti esistenziali. Ricordo di aver chiesto a Norberto Bobbio come affrontava questi dilemmi esistenziali; mi rispose che si considerava un agnostico e non riusciva a credere, ma era sempre colpito dal mistero della vita, a cui non sapeva dare risposte. Tuttavia, a me è sembrato che il suo pensiero fosse da lui vissuto, in un certo senso, come una fede, e i suoi valori laici fossero solide rocce per arginare il cinismo e l’indifferenza, che oggi invece dilagano. Quindi non è il laicismo a portare verso questa deriva di cinismo.
Hannah Arendt riteneva che fosse necessario contrastare la superficialità, che a suo avviso è l’elemento che allontana dalla ricerca del vero [4]. Se non si è consapevoli di sé, delle proprie potenzialità e del proprio ruolo, la nostra capacità di pensare e trovare soluzioni si riduce, e quando ci sentiamo impotenti ci difendiamo rifuggendo i problemi e immaginando che i sentimenti di empatia verso gli altri non ci riguardino. Tali superficialità e indifferenza oggi hanno reso possibile il diffondersi dell’ignoranza e la tolleranza dinanzi al riemergere del razzismo.
Come il singolo tende ad essere superficiale, lo è anche la nostra società, che è fatta di individui per lo più ripiegati su sé stessi e isolati, incapaci di guardare in faccia la realtà: si nega l’invecchiamento, si trasfigura la morte fino a farla diventare finzione, si usa ogni tipo di droga per fuggire e non soffrire, e ci si illude che il consumismo sia il perfetto surrogato della felicità. Si sprofonda così in pericolose illusioni, continuando ad anestetizzare il dolore dell’insoddisfazione e delle frustrazioni derivate dal senso di inadeguatezza; ci rinchiudiamo in un senso di vuoto, che ci rende sempre più deboli e incapaci di rispondere alle sfide che ci pone la fase di transizione in cui viviamo.
Bobbio, nel cercare le cause della diffusione del fascismo, individuava nell’indifferenza il muro che ci separa dagli altri, un muro di silenzio dietro cui ci nascondiamo «per proteggere il tesoro delle nostre certezze personali». A suo avviso la borghesia italiana non avrebbe reagito al fascismo, per non mettere in discussione le proprie idee. La storia poi ci avrebbe insegnato che queste certezze facevano parte del mondo dei fenomeni rapidamente transitori, lasciandoci inquieti di fronte alle domande esistenziali sul senso della vita e sul significato della vera felicità.
Oggi il susseguirsi di guerre e pandemie ci pongono di nuovo il dilemma su cosa fare e, a mio avviso, torna con urgenza il bisogno di un dialogo tra intellettuali laici e persone di fede per trovare insieme delle risposte che rilancino un nuovo umanesimo, per colmare il vuoto di senso. Secondo Adam Smith «la preoccupazione per la nostra felicità dovrebbe raccomandarci la virtù del discernimento e farci capire, attraverso di questo, che essa dipende dalla nostra preoccupazione per quella degli altri». Così scrive nella Teoria dei sentimenti morali (1759).
Tra le parole chiave emerse in risposta all’attuale crisi quella che pare più vicina al linguaggio dei diversi schieramenti è la solidarietà, termine che accomuna le fedi e il pensiero laico e che è stato ampiamente sviluppato nell’Enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti” [5]. In tutte le grandi religioni la felicità si trova nell’aiutare gli altri. Tra le parole chiave della rivoluzione illuminista che ha spinto milioni di essere umani verso la liberazione dalle pastoie feudali, spiccava la fraternità, ma il tempo ne ha offuscato le tracce; è poi tornata in auge con l’utopia comunista, risorta con il welfare socialista per scomparire sotto i colpi della crisi economica causata dai dissesti finanziari generati da un neoliberismo sfrenato.
Sulla sponda Sud del Mediterraneo le parole chiavi della rivoluzione francese hanno animato le lotte di liberazione nazionale, prima dal giogo ottomano e poi dal colonialismo. L’idea di fraternità aveva riunito i nazionalisti musulmani, cristiani ed ebrei, consolidando un’unione che li ha aiutati a vincere contro nemici più forti. L’idea di uguaglianza dei cittadini, che si era profilata con le riforme dell’Impero ottomano, per un fenomeno di eterogenesi dei fini è svanita con l’abolizione del Millet. Tale istituto garantiva la coesione della comunità e una certa protezione alle minoranze cancellata dai nazionalismi. L’illusione dell’uguaglianza garantita dalla condizione di libero cittadino si è dissolta nel turbinìo di guerre, rivolte e colpi di stato, che hanno travolto una regione popolata a grandissima maggioranza da musulmani. La stessa illusione era svanita in Occidente in seguito ai pogrom contro gli ebrei, all’affare Dreyfus e all’Olocausto.
Il ritorno delle religioni oggi in gran parte è dovuto proprio al crescente bisogno di solidarietà. L’urgenza di fraternità e solidarietà ci richiama alla memoria i grandi personaggi che nei secoli si sono battuti per orientare la società verso un nuovo umanesimo, dalla profezia di uguaglianza del Buddha Shakyamuni al messaggio di pace di Gesù, dalla carità compassionevole del profeta Muhammad, sino ai pensieri e alle azioni più recenti del Mahatma Gandhi, di Martin Buber, di Martin Luther King, di Daisaku Ikeda e di papa Francesco.
Parole chiave come l’uguaglianza e la fraternità sono parte di un linguaggio comune, umano e pertanto condivisibile da religiosi e laici. Costituiscono i tasselli di un grande mosaico che genera spazi di dialogo tra credenti di fede diverse e non credenti, per rispondere alle richieste degli esseri umani e in particolare dei giovani. Vi sono giovani disperati che, non vedendo prospettive, si rifugiano nell’illusoria promessa di felicità delle droghe o nell’eterno presente dei new media, o si immolano per guadagnare un paradiso di pace e benessere che non trovano in terra. Un antico testo orientale elabora una metafora per invitare ogni persona a fare un dialogo di pace; due persone si incontrano e, dopo aver a lungo disquisito sulle calamità dell’epoca, convergono sulla necessità di arginare il diffondersi di idee malvagie. I due, pur partendo da idee ed esperienze distanti, concordano di ripartire dall’assunto che la dignità della vita è sacra e va difesa.
La metafora è un invito a cercare terreni comuni su cui lavorare insieme per sviluppare una sinfonia di discorsi da diffondere tra i giovani per rispondere in modo adeguato al loro bisogno di dare senso alla loro esistenza. Non è peregrino il rilancio dell’utopia di un nuovo umanesimo che si fondi sul dialogo, e che abbia come base parole chiave come uguaglianza, dignità delle persone e fratellanza con le persone e con la terra. Dai testi sacri monoteisti ai discorsi di pensatori e filosofi quali Socrate e Kant emergono le parole per elaborare una prospettiva di cittadinanza globale che affondi le radici nella visione di un essere umano, non diviso in razze o etnie. Una nuova concezione della cittadinanza ispirata da una filosofia basata sul rispetto della dignità intrinseca della vita, di ogni vita, affinché nessuno, indipendentemente dal luogo di nascita e di appartenenza, sia soggetto a discriminazione, a sfruttamento o veda i suoi interessi sacrificati a beneficio di altri.
Non possiamo guardare al presente usando risposte che nascono da antiche paure, perché così facendo affrontiamo le questioni attuali ripetendo vecchi schemi superati. Dobbiamo rinnegare l’eredità discriminante delle Crociate e dell’Inquisizione, che si rispecchia in quel pensiero aggressivo che oggi anima i dibattiti (ed è l’anticamera delle guerre) in cui chi ha un’opinione contraria viene stigmatizzato e offeso e le sue idee derise. È necessario dare valore alla pacatezza del dialogo e all’accoglienza di idee diverse.
La rivoluzione francese ha fatto fare all’umanità un enorme passo avanti, ma noi eredi abbiamo tradito due dei tre principi proclamati: eguaglianza e fraternità. Da questo oblìo si è giunti al “rogo dei libri” in Germania fino alla folle degenerazione dell’Olocausto. Oggi la crisi ambientale denuncia i limiti di un certo modo di intendere la modernità. Questa crisi nasce dal succedersi di errate scelte economiche che sovente evitano il cambiamento provocando una guerra. Una guerra ha bisogno di un nemico esterno da accusare di essere la causa all’origine della crisi. Il cambiamento diventa oggi necessario per non mettere a rischio la vita umana. Come già indicava la riflessione di Bertrand Russell ed Albert Einstein nel Manifesto del 1955, la crisi economica porta a mettere l’interesse economico prima dell’interesse umano, mentre l’essere umano, e non il profitto, deve essere al centro della società e dello sviluppo.
Troviamo una risposta poetica in un’opera del siriano Adonis dedicata a Napoli nel 2008, che recita:
Napoli, si desta il mar Mediterraneo che di te s’inebria.
A Marinetti chiedo:
Cos’è il tempo? E la modernità?
Grattacieli su cui sputano nuvole migranti?
È la balbuzie che domina la lingua della politica?
È l’oppio di macchine gracidanti come rane nel lago del cuore?
È la violenza che striscia come cancro nel corpo umano?
È la barbarie che domina andando per le vie del mondo?
Marinetti – la modernità è nell’amore non nella guerra,
nello spazio non nei calzari [6].
Il poeta vuole ricordare come la modernità ha pregi, ma anche limiti se si perde di vista il valore della vita umana. Credenti e non credenti oggi possono contribuire a rinnovare la consapevolezza dell’unicità dell’essere umano e di ogni forma di vita sulla terra, in una parola della sacralità della vita. È possibile farlo con ogni mezzo a disposizione. Ad esempio, Gandhi era consapevole di quanto fosse difficile convincere un gran numero di persone della giustezza del suo insegnamento, ma affermava che è importante iniziare, e che basta convincere una persona della dignità della vita di ciascuno di noi. Pertanto la comunicazione profonda, anche personale, come l’educazione alla qualità delle relazioni può fare la differenza. A questo proposito Bruno Forte qualche anno fa affermava che la sfida per il futuro è nel dialogo e nell’educazione, costruire insieme “una casa comune” che porti ad un coinvolgimento più ampio delle coscienze per uscire dalla logica di chiusura e di interessi egoistici.
Forte lancia un appello a fare scelte che siano ispirate dalla volontà lucida e coraggiosa di servire il bene comune. Da Occidente ad Oriente esiste la consapevolezza della necessità di risvegliare la responsabilità individuale, e ad esempio il pedagogo giapponese Tsunesaburo Makiguchi ritiene necessario mettere le persone in grado di valutare l’impatto del loro comportamento, consapevoli del loro potere di incidere nell’ambiente [7]. Tutti parlano della responsabilità di commettere il male, ma non si pone abbastanza enfasi sulla responsabilità di non commettere il bene.
Serve parlare chiaro, urge divulgare i diritti umani, e per farlo bisogna sfoderare la passione per contrastare l’indifferenza di fronte allo sgretolarsi dei valori costruiti dai nostri padri con sacrifici immensi. Sta a noi promuovere lo sviluppo dell’individuo come membro responsabile di una società libera, pacifica, pluralista e inclusiva. Ciascuno di noi ha il dovere di contribuire alla prevenzione delle violazioni dei diritti umani e degli abusi per sradicare ogni forma di discriminazione, razzismo, giudizio stereotipato e incitamento all’odio, compresi tutti gli atteggiamenti nocivi e tutti i pregiudizi.
È nell’interesse di ognuno di noi difendere i diritti essenziali della persona e promuovere la dignità della vita, e ne sono convinti tanto i laici che i religiosi. Non esistono esseri umani di fascia A, a cui noi apparteniamo, che devono essere protetti dalla minaccia di esseri umani “inferiori” di fascia B. La dignità della vita è patrimonio di tutti, l’educazione e il dialogo tra le persone servono a promuovere la conoscenza dell’altro e ci permettono di manifestare la nostra dignità, riconoscendo nel contempo quella dell’altro.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Note
[1] Galimberti U., L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2008.
[2] Prodi P., Cristianesimo e potere, Il Mulino, Bologna 2012: 7.
[3] Corrao F. M., Islam, religione e politica, Luiss University Press, Roma 2015; Corrao F. M. e Violante L., L’Islam non è terrorismo, Il Mulino, Bologna 2017.
[4] Arendt H., Men in Dark Times, Houghton Mifflin Harcourt, New York 1970: 73-4; Arendt H., Essays in Understanding: 1930-1954. Formation, Exile and Totalitarism, Ed. By Jerome Kohn, New York, Harcourt Brace and Co., 1994: 23.
[5] Su “Fratelli tutti” e sul viaggio di Sua Santità Papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti (3-5 Febbraio 2019), si veda https://www.vatican.va/content/francesco/it/travels/2019/outside/documents/papa-francesco_20190204_documento-fratellanza-umana.html
[6] Adonis, Alberi adagiati sulla luce, a cura di Francesca Maria Corrao, Feltrinelli, Milano 2008.
[7] Ikeda D., Peace Proposal 2015. A shared pledge for a more human future: To Eliminate Misery from the Earth: 8. https://sgi-ouna.org/wp-content/uploads/2020/02/PeaceProposal2015.pdf; Ikeda D., Peace Proposal 2017. The Global Solidarity of Youth:Ushering in a New Era of Hope: 10, see https://www.daisakuikeda.org/assets/files/peaceproposal2017.pdf.
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Francesca Maria Corrao, ordinario di Lingua e Letteratura Araba, alla Luiss Guido Carli Roma, ha studiato in Italia e al Cairo la cultura del mondo arabo e islamico. Tra le sue pubblicazioni numerosi articoli in sedi internazionali e nazionali e gli approfondimenti su: La rinascita islamica (ed. Laboratorio antropologico, Università di Palermo 1985); Poeti arabi di Sicilia (Mondadori 1987, Mesogea 2001) Le storie di Giufà (Mondadori 1989, Sellerio 2002), Adonis. Ecco il mio nome (Donzelli 2010), Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea (Mondadori università 2011). Assieme a Luciano Violante ha recentemente curato il volume edito per i tipi de Il Mulino L’Islam non è terrorismo.
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