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Sul fidanzamento, il matrimonio e l’amore a Lama dei Peligni

Lama del Pelino, anni 40

Lama dei Peligni, anni 40

di Amelio Pezzetta [*]

Introduzione 

Lama dei Peligni e un Comune della provincia di Chieti a ridosso del massiccio della Majella. La popolazione attuale è di circa 1100 abitanti e si è ridotta in modo consistente a causa dell’emigrazione che iniziò negli ultimi decenni del XIX secolo. Nel Comune come altrove sono avvenute trasformazioni economiche e socio-culturali che hanno determinato l’abbandono di tradizioni secolari anche riguardo il matrimonio e il modo di rapportarsi tra giovani di sesso opposto. Per conoscere gli usi dei secoli passati si sono consultate le relazioni delle visite pastorali e gli atti notarili citati in bibliografia, mentre per quelli più recenti si sono intervistate alcune persone del luogo e ci si è affidati alle conoscenze dirette dello scrivente. 

Lama dei Peligni, anni 30

Lama dei Peligni, anni 30

Per un excursus storico locale 

Nel 1512 nella diocesi teatina e, probabilmente anche nella comunità lamese dell’epoca, non tutti i matrimoni si celebravano nel rispetto delle norme ecclesiastiche (Carusi 1940). Questa ipotesi si basa sul fatto che il sinodo convocato in quell’anno dal vescovo Gian Pietro Carafa ammetteva l’esistenza di matrimoni “clandestini” celebrati in assenza di testimoni, che, basati solo sul mutuo consenso degli sposi non seguivano le procedure ecclesiastiche in vigore. Per regolarizzarli il sinodo ordinò che dovevano pubblicizzarsi davanti ai fedeli che assistevano alla messa domenicale.

Dalle relazioni delle visite pastorali della seconda metà del XVI secolo è emerso che a Lama, escluse pochissime eccezioni, le norme della Chiesa sul regime matrimoniale erano profondamente osservate e rispettate, salvo una certa tendenza al dialogo più o meno libero e incontrollato che avevano le giovani coppie e che non incontrava l’approvazione delle autorità ecclesiastiche.

Durante la visita pastorale del 1578 si concesse la dispensa matrimoniale a varie coppie poiché parenti di IV grado. Inoltre una coppia incorsa nella scomunica poiché aveva avuto vari figli senza essere sposata, non ottenne la sua revoca (Carpineto 1961). La concessione di dette dispense era finalizzata a evitare matrimoni considerati incestuosi, fenomeno da non escludere in comunità molto ristrette in cui le reti delle parentele erano molto estese.

Dopo il sinodo diocesano teatino del 1581, anche a Lama, i matrimoni dovevano seguire queste regole: 1) non si potevano contrarre se non si erano fatte tre “monitioni” (pubblicazioni) nella chiesa parrocchiale della futura sposa in tre giorni festivi non consecutivi; 2) le giovani coppie non dovevano avere rapporti prematrimoniali e pertanto si esortarono i loro parenti a controllarle; 3) durante la cerimonia religiosa, lo sposo doveva prendere la mano della sposa, mentre il sacerdote officiante poneva la sua mano sopra di esse, si faceva il segno di croce e affermava: “Conjungo vos in matrimoni in nomine Patri, Filii et Spiritus Sancti”.

Al termine della visita pastorale fatta a Lama nel 1589, l’Arcivescovo di Chieti emise un decreto in cui ordinava di ammonire i fidanzati a cui erano concesse le licenze matrimoniali a non coabitare sino al giorno del rito in chiesa, sotto pena della scomunica. Durante la visita del 1591 il vicario vescovile firmò un’altra autorizzazione al matrimonio tra una coppia di giovani legati da una parentela di IV grado.

Lama dei Peligni, anni 20

Lama dei Peligni, anni 30

Nel 1635 a Chieti fu convocato un nuovo sinodo diocesano che riguardo ai matrimoni decretò quanto segue: 1) i fidanzati non dovevano avere rapporti sessuali prematrimoniali; 2) ogni parroco doveva impedire alle giovani coppie di coabitare prima della celebrazione religiosa e non ammettere al rito sacramentale chi ignorava le più elementari norme di fede cristiana, tra cui l’orazione domenicale, il saluto evangelico e i precetti. La trattazione di questi argomenti dimostra che all’epoca nei Comuni della diocesi, la convivenza e i rapporti prematrimoniali tra i giovani non erano fenomeni rari.

Le consultazioni di vari rogiti notarili del XVII e XVIII secolo confermano che a Lama le unioni coniugali si celebravano seguendo le norme del Concilio di Trento e le tradizioni locali. In vari casi è emerso che erano preceduti da trattative interfamiliari, erano combinati con il concorso di amici e parenti e non rappresentavano sempre la libera volontà dei giovani che decidevano di sposarsi.

Un altro aspetto era costituito dall’assegnazione della dote alla sposa, al fine di facilitare la vita iniziale della futura coppia, indennizzare la sposa stessa dell’eredità dei genitori in occasione del suo distacco dalla famiglia d’origine e favorire la tutela della moglie grazie alla cessione al marito dell’usufrutto sui beni dotali. All’epoca la dote era giustificata dal fatto che nel regime economico di agricoltura di sussistenza, le coppie che si accingevano a formare una famiglia, non potendo contare su propri beni e capacità di lavoro, si affidavano al patrimonio assegnato dai genitori. Inoltre essa rinforzava la posizione sociale della donna poiché portatrice di beni e riduceva i rischi di essere abbandonata dal suo pretendente.

Quando i matrimoni avvenivano tra giovani di famiglie benestanti, le assegnazioni di dote si ufficializzavano in accordi scritti e atti notarili noti col nome di “capitoli matrimoniali”. Negli atti consultati, sono state osservate formule comuni riguardanti: la promessa di matrimonio nel rispetto della normativa ecclesiastica; la dote assegnata con i modi e tempi di consegna; la promessa di restituzione dei beni ricevuti e gli impegni da rispettare nell’eventualità che uno dei due sposi morisse prima della celebrazione del rito religioso di unione coniugale. In alcuni rogiti, la donna da maritare fu chiamata “vergine in capillis”, a ricordo della consuetudine longobarda di acconciarsi i capelli in modo diverso in base allo stato civile. Essa si può dire che persiste ancora poiché generalmente le giovani ragazze in genere hanno acconciature con capelli lunghi e sciolti, mentre le donne sposate li hanno più corti e/o raccolti dietro la testa.

Lama dei Peligni, anni 20

Lama dei Peligni, anni 30

Due rogiti del XVIII secolo riportano casi di relazioni illecite ed episodi definiti “scandalosi” che dimostrano alcuni aspetti della morale che all’epoca era dominante a Lama dei Peligni. Nel primo che risale al 1739, alcune persone dichiararono al notaio che lo scandalo fu provocato da due donne che entrarono nella cucina del monastero celestino di Santa Maria della Misericordia, mangiarono al refettorio, cantarono canzoni d’amore e di notte restarono nei suoi locali insieme a un laico. Nel secondo rogito che risale al 1758, l’arciprete accusò un benestante del luogo di avere una relazione illecita con una governante che teneva in casa.

In un rogito del 1763 sono trascritte le consuetudini seguite da due fidanzati che decisero di non sposarsi. Nell’atto si afferma che due giovani, nonostante il fidanzamento e lo scambio degli anelli, resero nulle le promesse e il giuramento di futura unione poiché i genitori del ragazzo non erano consenzienti. Di conseguenza, ognuno restituì all’altro l’anello di fidanzamento.

I registri matrimoniali lamesi del periodo compreso tra gli ultimi anni del XVIII secolo e il decennio napoleonico, documentano che il parroco fissava la data del matrimonio tra due giovani dopo aver comunicato la dichiarazione della loro volontà di sposarsi durante la messa solenne, esaminato i testimoni, presentato lo “stato libero” ossia l’attestazione di celibato e ottenuta l’autorizzazione della curia arcivescovile.

Dalla seguente lettera che nel 1815 l’arciprete Pietro Cianfarra scrisse al vescovo di Chieti, emergono un caso di concubinaggio e altri particolari aspetti riguardanti la morale e le consuetudini matrimoniali dell’epoca: 

«In tale occasione debbo rappresentare a V.E. come da circa 7-8 anni capitò in questo Circondario e poi in questo paese un uomo di Popoli con una donna che seco ha tenuto da circa 15 anni ed è di Macerata. Ora se la vuole sposare, e mi dice di non poter fare le spese per essere povero, e non trovare fatica attesa l’annata cattiva io, gli ho promesso fargli gratis quanto a me mi appartiene e per togliere lo scandalo. S’incontra però la difficoltà che mancano i documenti, essa è di Macerata, nò ha modo di farsi venire la fede del battesimo, nò il suo stato libero, attesa la distanza dalla sua patria, mi dice di aver quarant’anni ed è libera. Prego intanto V. Eminenza se si può abilitarla in qualche maniera e come debbo comportarmi. Lama 22 marzo 1815. Pietro Cianfarra» [1]. 

A Lama altri casi simili sono riportati nelle relazioni delle visite pastorali e in vari rapporti di polizia. Nel complesso nel periodo 1815-1860, nel luogo sono attestati circa venticinque casi ufficiali di concubinaggio e relazioni considerate illecite, a dimostrazione che esistevano limitati casi di devianza dai valori comunitari.

Nel 1834, da una lettera che il sindaco di Lama scrisse al vescovo di Chieti, emergono altri particolari sulla moralità sessuale dell’epoca e i modi di possibili approcci tra uomini e donne. In essa si chiese al vescovo di intervenire per far chiudere una porta d’accesso aperta nella chiesa di parrocchiale di San Nicola posta sotto il campanile poiché «porta delle conseguenze e scandali ove sono andate e possono andare anche delle donne che commettono delle bricconate come si sente per il paese, pregasi almeno di farci la chiusura acciò non possono entrare e uscire le donne e resta per comodo degli soli uomini» [2].

Dalla relazione della visita pastorale del 1849 risulta che il parroco durante le omelie domenicali condannava i vizi domestici e gli amoreggiamenti prematrimoniali che a suo dire erano abbastanza frequenti.

Lama dei Peligni, anni 30

Lama dei Peligni, anni 30

La morale sessuale, i primi approcci amorosi, le serenate e i canti 

In quest’arco di oltre 120 anni, nel luogo sono avvenuti notevoli e importanti cambiamenti economici e culturali che hanno portato a modifiche di valori, atteggiamenti e comportamenti riguardanti i rapporti tra uomo e donna, le aspettative comunitarie nei loro confronti e i matrimoni.

Sino a circa sessanta anni fa, nel luogo esistevano particolari norme di condotte con radici plurisecolari che la comunità locale aveva elaborato in considerazione della grande importanza attribuita alla famiglia e a cui i celibi, le nubili e le coppie sposate dovevano attenersi per non incorrere nella disapprovazione sociale.

La principale norma comunitaria in questo senso fa presente che sia all’uomo che alla donna si chiedeva di costruire una famiglia ed avere molti figli. In particolare si diceva che una persona si doveva sposare “per sistemarsi”, il che significava per l’uomo trovare una donna che lo accudisse e per la donna l’uomo che la mantenesse per tutta la vita. In questo modo migliorava l’immagine sociale di chi sceglieva la vita coniugale, mentre le nubili e i celibi avevano una scarsa considerazione comunitaria. Tuttavia, nonostante il valore attribuito alla famiglia e la scarsa considerazione sociale per le persone non sposate, esistevano ostacoli di diversa natura ai liberi rapporti tra uomo e donna che iniziavano con la tenera infanzia e proseguivano durante la frequenza scolastica con ragazze e ragazzi seduti in banchi separati. Durante l’età adulta si ponevano altri ostacoli alle possibilità d’incontro: alcuni locali e ambiti pubblici del paese erano riservati ai soli uomini e, anche durante le processioni e le funzioni religiose in chiesa avveniva la separazione tra maschi e femmine.

In base alla cultura locale, la cosiddetta “donna da marito” doveva essere riservata, aspettare di essere prescelta e non poteva manifestare pubblicamente i propri interessi amorosi. Doveva essere “seria e onorata”, il che significava rispettare le prescrizioni ecclesiastiche, non frequentare uomini, non avere rapporti sessuali prematrimoniali e conservare la verginità sino alla data del matrimonio. L’onore femminile” assicurava alla donna un’ottima considerazione comunitaria e, di conseguenza i genitori e i parenti delle giovani ragazze si preoccupavano che non fosse messo in discussione. Una donna sessualmente disinibita, libera, spontanea e aperta nei propri sentimenti era definita sfacciata o con altri attributi ancora più pesanti e andava incontro al pettegolezzo e alla condanna sociale com’è espresso anche dal seguente proverbio locale: «Chi ne tè rusciore / mazzate cà ne sente dulore» (Chi non prova il rossore / botte perché non avverte il dolore).

I motivi che impedivano a una ragazza nubile, (nell’antico gergo locale “la giuvenette”), di parlare e incontrarsi con l’uomo desiderato (“lu giovene”) sono diversi. La donna era la principale responsabile dell’educazione dei figli e della trasmissione dei modelli sociali comunitari. Pertanto essa era molto vigilata dalla famiglia e dalla comunità al fine di evitare la devianza dai valori fondamentali utili per la sopravvivenza della comunità stessa. In tale ottica l’incontro diretto tra i giovani di sesso opposto si doveva evitare per non rovinare l’immaginario sociale della donna e le attese comunitarie nei suoi confronti. Tuttavia, nonostante l’esistenza di questi modelli culturali e il forte controllo sociale, c’era sempre qualche ragazza che seguiva i propri istinti e desideri e in modo più o meno furtivo partecipava agli incontri amorosi con l’uomo di cui era innamorata.

Lama dei Peligni, anni 30

Lama dei Peligni, anni 30

Nell’intimo di se stessa la donna lamese sognava l’amore e ambiva al matrimonio che considerava un evento importantissimo per la sua vita poiché le consentiva di affrancarsi dalla soggezione paterna, realizzare gli istinti materni, soddisfare i propri interessi sessuali e, come scritto, trovare l’uomo che la mantenesse. Un proverbio locale dice: “Chi arrive a la porte dell’acqua sante / trova le ciucce che le campe” (chi arriva alla porta dell’acqua santa, entra in chiesa per sposarsi, trova l’asino cioè il marito che la mantiene). Un altro detto che invogliava le donne a sposarsi, afferma: “È meije nu marite triste nghe ciende buone frete” (È meglio avere un marito triste che cento buoni fratelli).

La massima ambizione di una donna locale era quella di sposarsi con il primo amore poiché oltre a non incorrere nella disapprovazione sociale per la rottura di un rapporto, in base al seguente detto, non si dimentica mai: “Lu prime amore è come na catene chi ce se n’dricce ne n’ze pò striccià” [3].

In occasione della festa di San Giovanni Battista, le ragazze nubili, con vari riti mantici cercavano di prevedere il proprio futuro matrimoniale, mentre con la seguente invocazione si rivolgevano a San Pasquale Baylon affinché le aiutasse a trovare un buon marito: “San Pasquale Bajlonne / prutettore delle donne / famme tojje nu marite / bielle, buone e culurite” [4]. Con l’espressione “bielle, buone e culurite”, nel gergo locale s’indica una persona in buona salute e di bell’aspetto.

L’uomo, invece era considerato un cacciatore che poteva mostrarsi ardimentoso, esuberante e fare le sue avances. Quando arrivava all’età del matrimonio, i parenti e gli amici gli suggerivano che era il momento di “accasarsi” e proponevano qualche ragazza. Molto spesso, erano i genitori a combinare i matrimoni per i figli e la scelta del coniuge era il frutto di accordi interfamiliari basati sul possesso o meno di una buona dote da parte della donna e di abitazioni e terreni agricoli da parte dell’uomo. Ciò rappresentava una regola che era seguita con poche eccezioni dalle figlie femmine, mentre ai maschi era consentita una maggiore autonomia.

Nel paese si arrivava frequentemente a matrimoni endogamici di convenienza in cui si proponeva lo sposalizio a due giovani appartenenti a famiglie che avevano case e terreni confinanti o più o meno vicini in modo da rinforzare le amicizie con i legami di parentela e accrescere le proprietà. Tuttavia anche le scelte libere basate sull’amore reciproco erano frequenti. Ora la necessità di aumentare i terreni coltivabili è completamente abbandonata, i giovani hanno maggiori libertà, l’amore è la principale fonte d’ispirazione del matrimonio e i genitori lasciano ai figli la completa autonomia di scelta poiché pensano di non essere ascoltati e, in caso di fallimenti, non desiderano che a loro sia addebitata la colpa di aver suggerito la persona sbagliata.

Due proverbi locali evidenziano alcuni atteggiamenti e valori che un tempo si dovevano tenere in considerazione nella scelta del partner. Il primo conferma la preferenza per i matrimoni endogamici poiché invita a scegliere il partner nella propria comunità e afferma: “Moje e buoje de le paese tuoje” (moglie e buoi dei paesi tuoi). Il secondo che invita a riflettere prima di scegliere il compagno di vita sentenzia: “Apre buone l’uocchie / pecchè l’arche ne s’arcagne” (Apri bene gli occhi poiché l’arca, un mobile da cucina, non si cambia).

Lama dei Peligni, anni 30

Lama dei Peligni, anni 50

Due giovani di sesso opposto, secondo la morale vigente sino a circa 60-70 anni fa, non dovevano fermarsi per strada a parlare tra loro. Di conseguenza se un uomo voleva far capire a qualche graziosa ragazza che le piaceva, cercava di incontrarla in luoghi insoliti, al riparo da occhi indiscreti e/o con lo sguardo quando usciva dalla messa domenicale, andava nei campi o al mercato, si recava alla fontana pubblica per prendere l’acqua, partecipava a qualche processione per le vie del paese e durante alcuni lavori agricoli (la mietitura, trebbiatura, vendemmia, raccolta dell’ulivo). Anche durante le funzioni religiose in chiesa in qualche modo si cercava di far capire alla donna desiderata il proprio interesse amoroso con ripetuti sguardi. Altre possibili occasioni d’incontro tra uomini e donne erano le serate danzanti e Lama dei Peligni nell’anteguerra era uno dei pochi Comuni del circondario in cui si organizzavano balli promiscui che tuttavia non incontravano l’approvazione delle autorità ecclesiastiche.

Infatti, nel 1938 la Curia teatina pubblicò sul Bollettino diocesano la seguente opinione sul ballo diffusa dal Patriarcato di Venezia: 

«1) il ballo, specie se promiscuo è condannato dalla morale cattolica; 2) tale condanna è motivata dal pericolo grave che il ballo ordinariamente reca, di offesa alla moralità pubblica per lo scandalo dei presenti, e della popolazione che ne viene a conoscenza; 3) durante il ballo non possono essere impediti i peccati interni, che pure sono vietati dai Comandamenti di Dio; 4) ognuno sa che le peggiori conseguenze del ballo non sono immediate sul posto e al momento, ma succedono in seguito, in luoghi e circostanze a cui il ballo ha dato occasione» [5]. 

In seguito il parroco durante le omelie domenicali diffuse le disposizioni sul ballo ma non era seguito. Spesso ai balli tra giovani assistevano le madri delle ragazze che evitavano contatti troppo ravvicinati e possibili momenti di trasporto delle loro figlie. Se nelle fugaci occasioni d’incontro, a uno sguardo, una strizzatina d’occhio e a un sorrisetto la ragazza non restava indifferente, non manifestava sgradevolezza e rispondeva con un apparente irrilevante sorrisetto o altro segno, allora significava che anche a lei quel ragazzo era simpatico. In questo caso il pretendente parlava con i suoi genitori e se erano consenzienti, s’incaricava qualcuno definito nel gergo locale “l’ambasciatore”, di portarsi nell’abitazione della donna desiderata e chiedere ai suoi genitori se erano favorevoli al fidanzamento. Per tale delicato incarico si sceglieva un soggetto che era in ottimi rapporti con la famiglia della ragazza e aveva la loro fiducia.

Lama dei Peligni, anni 50

Lama dei Peligni, anni 50

Spesso il luogo prescelto per combinare i matrimoni era la stalla in cui l’ambasciatore, lontano da occhi e orecchie della ragazza, tastava il polso ai suoi genitori e riceveva la dichiarazione di accettazione o rifiuto del pretendente. Quest’atteggiamento rientrava nell’ottica di preferire la comunicazione indiretta a quella diretta per non rovinare l’immaginario sociale della donna che doveva dimostrare sempre riservatezza e pudore. Molto spesso si assegnava l’incarico all’ambasciatore anche per il timore di non essere corrisposti e rimanere delusi. Quando l’amore è sincero vive anche di ansie e timori; l’innamorato non sa se sarà corrisposto, affida le sue emozioni a un messaggero capace di toccare il cuore della persona amata e in caso negativo non vive direttamente l’esperienza del rifiuto.

Talvolta capitava che per manifestare i propri sentimenti amorosi, il pretendente, in compagnia di alcuni suonatori, la sera si recava sotto l’abitazione della donna desiderata e intonava una romantica serenata che nell’ambito dei rapporti uomo-donna assolveva alla stessa funzione dell’ambasciatore: comunicare in via indiretta gli interessi amorosi alla donna desiderata.

I testi delle serenate d’amore che sono stati raccolti, sono accomunati dai seguenti contenuti: l’evasione fantastica, l’esaltazione della bellezza della donna desiderata, l’invocazione di un fiore, bacio o altro segno d’amore, l’espressione di desideri irreali e la passione più o meno struggente. In un contesto semplice e popolare quale quello agro-pastorale del passato l’uomo innamorato riusciva a ingentilire i suoi messaggi d’amore con frasi e pensieri teneri e sensibili servendosi di parole e immagini capaci di dar vita ai suoi sentimenti genuini.

Una serenata che il lamese innamorato intonava, accompagnato talvolta da suonatori improvvisati con chitarra, fisarmonica, mandolino e dubbotte (un tipico organetto abruzzese), è la seguente: 

 Mentre tu amore miè stiè a lu prime suonne / tra ‘sse lenzole bianche e prufumate /nghe, sta chitarre m’accumbagne e cande / pe’ darte gioie e felicità. / Uojje mmiezze a la piazze nghi s’ucchiune / e nu surrise me si ditte scinemassere nghe la lune a testemonie / te giure amore pe’ l’eternità [6]. 

Un’altra tipica e appassionata serenata d’amore locale è costituita dalle seguenti strofe: 

Balcone chiuse verande d’amore / Rosetta belle tu famme affaccià nghe sta chitarre massere stu core / la serenade sò menute a cantà. / Rosetta mè Rosetta mè / pe tè stu core se sente ‘mbazzì / Rosetta mè Rosetta mè pe tè d’amore me sente murì / Da ssu balcone me piere na fate / Rosette amate me pare sunnàTu d’ogne fiore si cchiù prufumate / affamme sajje cà te vuoje addurà [7]. 

Nel testo succitato il nome Rosetta poteva essere sostituito con qualsiasi altro appellativo femminile in modo da adattarlo alle circostanze senza modificare il senso di tutto il canto. Di un’altra serenata d’amore sono state raccolte le seguenti uniche e appassionate strofe: Sotta a sta lune placede e n’gandade / vuoje vascià sta vocca roscie e belle [8].

Le serenate oltre che per amore s’intonavano anche per amicizia, dispetto, gelosia e rabbia da parte dei pretendenti delusi. In quest’ultimo caso l’esibizione canora poteva trasformarsi anche in una lite furibonda a cui poteva seguire l’intervento dei carabinieri che per prima cosa sequestravano gli strumenti musicali destinati ad essere restituiti a seguito del pagamento di una multa e in caso di resistenze procedevano anche a eventuali fermi. Una serenata di dispetto e gelosia è la seguente: 

Jesce dafore brutta faccia toste / ca t’aspette Pasquale a la piazzette tu si na pullastrelle già spennate / e a la ferzore ognune te vo’ mette jesce dafore se tiè lu curagge / famme vedè ‘ssa faccie ngrinzinite
È nntile che te piette la mascelle / cà ne t’ariesce de truvuà marite
[9].
 

Alla comunicazione indiretta dei sentimenti e desideri d’amore contribuivano anche i canti che potevano essere intonati sia dagli uomini che dalle donne e rivelavano le varie espressioni dell’amore stesso: dolcezza, tenerezza, attrazione, desiderio, malinconia, passione, rimpianto, scherno, gioia, gelosia e rabbia. Di un tipico canto d’amore lamese appassionato che era intonato dalle donne sono state raccolte le seguenti strofe: 

Jje tienghe na piande de rose a cappucce / e tienghe n’amante che se chiame Peppucce/ prime le cojje e dope l’addore / coma me piace a chiamarle amore [10]. 

Un appassionato canto d’amore locale d’intonazione maschile è il seguente: 

Vulesse devendà nu vendecelle. / Nu vendecelle frische e profumate
P’accarezzà tutta la ijurnate / Se trecce nere e folte Carmenè.
Nu sfizijje e nu capricce m’ levesse / Se tra miezze a se trecce te passesse
 vulesse devendà l’acque che passe / l’acque che passe sotte a lu vuallone.
Cuscì, quande tu strusce lu sapone / ijje sa manuccia belle te tuccuesse.
Nu sfizijje e nu capricce m’ levesse / Se tra miezze a se dite te passesse.
Vulesse devendà come le lenzole / come le lenzole che tu tuorce e sbiette.
Cuscì, quande la sere tu t’adduorme / ijje ssu pettucce bielle te tuccuesse.
Nu sfizzijje e nu capricce me levesse / Se tra miezze a ste vracce te stregnesse.
Nu sfizijje e nu capricce m’ levesse / se sa vuccuccia belle vascesse  [11]. 

Le strofe di un altro canto d’amore carico di passione e di desiderio sono le seguenti: 

Quande tu chiente nghe sa vocca belle / E te treme se labbre de curalle
Me sende stregne mbiette Carmenelle / ca pe tè stu core se vò fermà.
Sa vocia de suspire da stu munne me fa sta. / RIT: Saijje chiane chiane m’paradise /
Sopra a le stelle me vò traspurtà  / Sa vocia tè.! Sa vocia tè.
Sta mente me traspuorte lundane / Canteme Carmenelle na’ canzone
Te vuojje sta a sentì fine a dumane / Me vuoijje lente lente cunsuma’ /
RIT. / Cante lu mare e cante lu terrene / lu viende ncime a la mundagne cante
Cante le cielle ei jj so ndifferende / Sole sa vocia te me fa tremà. / Rit. [12]. 

Spesso tali canti s’intonavano durante le fasi di alcuni lavori agricoli quando si infrangevano le barriere del linguaggio e si creavano momenti di licenza e libertà in cui si dava libero sfogo a sentimenti che talvolta contrastavano con i modelli comportamentali comunitari stereotipati. Un diffuso canto d’amore che a Lama dei Peligni era intonato dalle donne durante la mietitura del grano, è il seguente:

Arrete a la muntagne ce sta Rome / e cchiù dell’à ce stà l’amore miè amore amore e che sci Sant’amore / tu stiè a le frische jje ‘mbacce a lu sole l’amore me l’ha ditte ocche cante / a la malincunie n’ocche ce penze l’amore mè se misse derempiette / se ne me pò parlà me tene a mmente tienghe nu fazzulette recamate / e le capille de ssà bionda trecce la mamme de l’amore me porte ‘mbette / come na scatulette de cunfiette l’amore miè se chiame Necole / le tienghe artrattate mmiezze a lu core mamme maldiche e tate pure / l’amore nghe lu frastiere poche dure l’amore nghe lu frastiere dure nu mese / e dopo se ne torne al suo paese l’amore miè se chiame com’a se chiame / sacce lu nome e ne sacce la case na volte che ce vajje me ‘mbrare l’use / ammete ammete e la falcijje mete [13].

Oltre ai canti d’amore appassionati, languidi e sentimentali, erano diffusi anche quelli di rabbia, risentimento e dispetto per una delusione amorosa. Di solito erano cantati dagli uomini: 

Peppine sopre a lu liette / lu cancelliere sopra a lu piette / n’antre poche n’antre poche/ n’antre poche e niente cchiù. / Se va a vevre a lu maniere / c’armane prigioniere/ n’antre poche n’antre poche / n’antre poche e niente cchiu [14]. 

Un altro canto di risentimento e rabbia raccolto a Lama dei Peligni è il seguente: 

Ne t’avesse majje ingundrate / ne t’avesse cunusciute / ajje perse la salute / che sciccise Catari./  Jije ne sacce c’aja fa / nunne posse proprie cchiù / tu ca scii jje ca no / tiè raggione sempre tu. / Me parive na Madonne / zitta zitta, calma calma / te putive fa sci l’aneme / che sciccise Catari. / Cacche jjuorne o cacche notte / facce l’uldema pensate / te sgherrine de palate / e dapuò ride jje [15]. 
Lama dei Peligni, anni 50

Lama dei Peligni, anni 40

A conclusione di questa rassegna canora si evidenzia quanto segue. Nelle serenate e nei canti di rancore riportati, chi esterna i sentimenti è sempre l’uomo. Ciò è in linea con il modello culturale indicativo che a lui competevano le “avances”, mentre la donna doveva dare conferme della propria riservatezza. Fanno eccezione a questa regola i canti d’amore in cui anche l’elemento femminile esprimeva apertamente i propri desideri e passioni senza incorrere nella disapprovazione comunitaria. Nei canti d’amore si raggiungeva la parità dei sessi e il riscatto simbolico delle donne dalla loro condizione sociale subalterna. Essi le accompagnavano oltre che nei lavori agricoli, anche durante le attività domestiche, gli spostamenti dal paese alle campagne, il lavaggio dei panni alle fontane pubbliche, le serate invernali nelle stalle ed estive all’aperto in compagnia delle amiche.

Negli ultimi trent’anni quasi tutti gli atteggiamenti, comportamenti e modelli culturali elencati nel presente paragrafo sono notevolmente cambiati. Nel luogo l’agricoltura come principale fonte di sussistenza è completamente abbandonata e con essa tutti i riti e tradizioni del ciclo agrario annuale; le famiglie conducono un’esistenza più individualizzata; il controllo sociale comunitario si è ridotto; le abitudini collettive e i modelli culturali locali si sono adeguati a quelli nazionali e sovranazionali diffusi dai mezzi di comunicazione di massa; c’è più indifferenza e minor disapprovazione sociale verso le donne che lavorano, sono autonome e seguendo i dettagli della moda si vestono o truccano in modo più o meno provocante e vistoso; la verginità femminile non è considerato un valore importante; i giovani di sesso opposto con la scolarizzazione prolungata hanno più occasioni per stare insieme, conoscersi e trovano minori impedimenti ai loro rapporti; non esiste più il modello dell’uomo che se ama una donna non deve toccarla sino al matrimonio e neanche quello della donna a cui sono esclusi i rapporti sessuali prematrimoniali; secondo la mentalità corrente la donna seria è colei che ha normali relazioni sociali e di lavoro, non dimostra estremizzazioni trasgressive, frequenta solo l’uomo di cui è innamorata, la notte non va in giro da sola, è stabile nei propri sentimenti, è fedele, conduce una vita attiva, non rinuncia a se stessa, ha rispetto per i propri famigliari e sa gestire la casa; i giovani dichiarano in modo diretto i propri interessi amorosi, non ricorrono all’ambasciatore o seguono altri metodi indiretti.

Secondo qualche soggetto intervistato, non esiste più il concetto di serietà e i giovani che seguono i vecchi modelli culturali locali sono considerati degli sfigati dai loro coetanei, sono emarginati e sono quelli che di solito non si sposano e neanche convivono. Le ragazze della contemporaneità sono autonome, aperte, libere di manifestare i propri interessi affettivi e, se interessate a qualche coetaneo, lo dichiarano in modo esplicito con un semplice “mi piaci”, apprezzamenti vari, inviano SMS, fanno telefonate e li invitano alle loro feste di compleanno e/o altre manifestazioni. Colei che un tempo si definiva sfacciata, oggi si dice che è spontanea e aperta. A tale termine ora sono attribuiti altri connotati negativi: l’utilizzo di un linguaggio volgare, la mancanza di sensibilità nei rapporti sociali e l’eccesso nelle manifestazioni pubbliche dei propri desideri e sentimenti.

Nella situazione attuale la comunicazione tra i giovani non è ostacolata da barriere culturali e avviene utilizzando un gergo specifico e i mezzi tecnologici che consentono di scambiare foto e messaggi. Molto spesso, alcuni giovani restano in casa seduti davanti al computer per comunicare ad amici e conoscenti le proprie sensazioni tramite i social-network. In generale è cambiato il modo di conoscersi, incontrarsi e fare gli approcci. Mario Amorosi in una sua poesia riguardante alcune trasformazioni avvenute nelle relazioni di coppia ha scritto: 

L’amore de uoije ne è ‘gne quille de jere. / Ca se petuesse parlà le paijere… / Sole ca uoije se fa a la luce / chelle ch’apprime se faceve de nascusce. / Mò appene fatte le sveluppe / se ngumenze a fa l’amore senza trucche / e so’ vocche melate a forme de fiore / che ogne frase fenisce nghe: amore. / A l’età de la rraggione s’hanne stufate / e se fenisce… a curtellate [16]. 

Una superficiale percezione di alcuni cambiamenti nei rapporti tra le coppie innamorate iniziò ad aversi nell’immediato dopoguerra, come documenta il seguente canto dialettale che fu utilizzato durante una mascherata carnevalesca organizzata in paese nel 1946: 

Mammarosse m’accunteve / Ca l’amore a sessante / Se faceve nche le spose / Se smicceve a destante. / Se faceve e se passeve / serenate cante e suone. / Ma le vasce gioia care / se vedeve nche l’uocchialone. / Ma mò tutte se cagnate / Mò l’amore ne è chiu chelle. / Mò l’amore è chiu belle / Mò ce stà la libertà./ Nche le vasce se cumenze / gna finisce chi lo sa. / E la sere cacche volte / jeve a fa na scappatelle / s’assetteve nche lu spose /e faceve l’untruvuarielle. / Ma tatone juste mmiezze / ogne tante arcunteve / ca na volte n’tiempe antiche / se scuntrentte nche le brigante. /Ma mò tutte se cagnate / Mò l’amore ne è chiu chelle. / Mò l’amore è chiu belle / Mò ce stà la libertà. / Nche le vasce se cumenze / gna finisce chi lo sa. / Mò la mamme l’ha capite / ca pe maretè la fijje /a da cagnà sisteme. / Ja dà allentà la brijje / Va lu spose: permettete. / E si tu si presente / duorme e fa lu pedaline. / Ma mò tutte se cagnate /Mò l’amore ne è chiu chelle. / Mò l’amore è chiu belle /Mò ce stà la libertà. / Nche le vasce se cumenze / gna finisce chi lo sa [17]. 
Dubbotte

Dubbotte

Il fidanzamento 

Il fidanzamento è l’accordo preventivo che stabiliscono una donna e un uomo intenzionati a sposarsi. Segue l’accettazione del pretendente e pone i due innamorati in una prospettiva a cui è connesso l’obbligo di assumere doveri reciproci. Nel dialetto locale per esprimere questa condizione sociale si dice ancora: “Chi le due se sò misse a fa l’amore” (Quei due si sono messi insieme) e i due fidanzati sono chiamati “lu spose e la sposa”.

Sino ad alcuni decenni fa, con il rito di fidanzamento, le relazioni tra gli aspiranti sposi e le loro famiglie s’istituzionalizzavano ufficialmente e si regolavano con un insieme di consuetudini che prevedevano: la promessa del matrimonio, la concessione al giovane dell’autorizzazione a frequentare l’abitazione della ragazza, lo scambio degli anelli e un pranzo tra i due innamorati, i loro genitori e parenti più prossimi (soprattutto fratelli e sorelle). Il periodo di fidanzamento aveva una durata variabile da pochi mesi a qualche anno, costituiva l’occasione per le famiglie dei due giovani di socializzare, rafforzare i vincoli solidaristici e accordarsi sugli oggetti da assegnare in dote arrivando in certi casi a stipulare veri e propri atti notarili.

L’accumulo degli oggetti dotali da assegnare alla futura moglie, avveniva in una cassapanca di legno opportunamente predisposta e iniziava sin dalla sua tenera infanzia. Questo prezioso mobile con il suo contenuto, dopo la fissazione della data del matrimonio e gli inviti a nozze, si esponeva nell’abitazione della donna, insieme a tutti i regali di nozze. Il successivo trasporto nella casa ove la futura coppia avrebbe vissuto, invece, si eseguiva pochi giorni prima della celebrazione del rito matrimoniale.

In passato, le scelte dei fidanzamenti cadevano sui giovani di pari condizioni sociali e indiscussa moralità. Ciò significava: 1) per l’uomo essere onesto, non violento e un buon lavoratore; 2) per la donna non dimostrare atteggiamenti vanitosi, essere un’ottima casalinga e attaccata alla famiglia; 3) per entrambi, ottime qualità morali, assenza di vizi, buona reputazione propria e delle famiglie d’origine. Questi fatti dimostrano che esistevano delle semplici regole morali che due aspiranti coniugi dovevano seguire poiché la comunità richiedeva ai propri membri una regolare condotta di vita coincidente con il rispetto dei modelli culturali locali.

Sino a circa 60-70 anni fa, due giovani innamorati non potevano frequentarsi prima del fidanzamento ufficiale, ma anche dopo non erano consentite molte libertà. A tal proposito spesso la madre della giovane le raccomandava di: non recarsi da sola in casa del fidanzato, non fermarsi a chiacchierare con lui in strada o in piazza, non sedersi vicino a lui quando veniva a trovarla in casa, non scambiarsi effusioni e baci, non dimostrare di essere molto innamorata e far finta di non interessarsi alle sue richieste d’amore. Il divieto per la ragazza di frequentare la casa del fidanzato risaliva a proibizioni antiche e a una forma di prudenza morale riconducibile al modello socialmente condiviso che la donna prima di sposarsi doveva conservare la verginità, dimostrare di saper controllare i desideri sessuali nella convinzione che con la ritrosia aumentavano la considerazione e l’interesse del pretendente. A sua volta il fidanzato poteva mostrarsi baldanzoso (l’uomo è cacciatore) ma nello stesso tempo non doveva dormire nell’abitazione della ragazza, essere impulsivo, tentare di avvicinarsi troppo a lei, baciarla e tentare di abbracciarla, poiché secondo la mentalità lamese di un tempo chi era innamorato di una donna e le voleva bene “la rispettava e cercava di non peccare” toccandola, avendo rapporti prematrimoniali e scambi di effusioni. In base a questo principio il fidanzato diceva alla propria donna che le voleva bene ma non che l’amava. Spesso nella casa della ragazza, i due giovani, seduti su due lati diversi di un tavolo e controllati da qualche parente, s’incontravano con lo sguardo e si scambiavano languidi sorrisi appassionati che secondo il seguente motto locali “appiccene l’aneme e lu core”, accendono l’anima e il cuore, aumentando il desiderio e l’attrazione reciproca.

Durante tale periodo, in occasione delle feste religiose e dei compleanni i due giovani si scambiavano regali. Anche i loro genitori si scambiavano doni che sino a circa 60-70 anni fa consistevano in canestri di vimini con frutta, cibi tradizionali locali e qualche capo di biancheria. Era anche consuetudine che durante i lavori agricoli le due famiglie si prestassero aiuto.

Lama dei Peligni, anni 50

Lama dei Peligni, corteo nuziale, anni 30

Poteva accadere che un lungo periodo di fidanzamento non fosse seguito dal matrimonio a causa di litigi e incomprensioni. Queste rotture, tranne quelle dovute a cause di forza maggiore, erano socialmente disapprovate poiché vi si associavano insicurezza e instabilità di sentimenti. In questi casi i membri della famiglia della ragazza abbandonata imprecavano contro l’ex fidanzato poiché era diffusa la credenza che essa in seguito difficilmente avrebbe trovato il marito. Inoltre si restituivano al mittente i regali reciproci e in genere le due famiglie non si rivolgevano la parola per lungo tempo.

Nella situazione attuale due giovani innamorati in genere sentono la necessità di stare insieme per conoscersi meglio, si frequentano senza essere controllati da nessuno, sono liberi di partecipare a gite anche di più giorni e si scambiano pubblicamente baci e tenere effusioni senza incorrere nella disapprovazione comunitaria. Quando decidono di fidanzarsi ufficialmente, si recano insieme nelle abitazioni delle rispettive famiglie e dichiarano semplicemente di volersi sposare.

Ora a causa della maggiore instabilità della vita di coppia, nei periodi di fidanzamento le famiglie dei due aspiranti coniugi si frequentano di meno rispetto al passato al fine di evitare i forti dissapori conseguenti alle frequenti rotture dei rapporti. Inoltre non si fanno più accordi sulla dote che di solito non si assegna alla donna seguendo le formalità di un tempo. Infatti, in occasione di matrimoni recenti, alcuni genitori hanno regalato ai loro figli, sia maschi che femmine, oggetti e capi di biancheria utili per iniziare più facilmente la vita di coppia. 

Lama dei Peligni, anni 50

Lama dei Peligni, anni 50

La celebrazione del rito matrimoniale e l’inizio della vita comune

La celebrazione del rito matrimoniale è la legittimazione giuridico-istituzionale, sociale e religiosa del legame d’amore tra due persone che, sino a un recente passato, iniziava a condurre una vita in comune solo dopo la sua conclusione. Analizzando i fatti locali, si osserva che nel tempo alcuni aspetti di tale rituale hanno conservato diverse caratteristiche formali mentre altri sono cambiati, armonizzandosi alle attuali tendenze culturali.

A partire dagli inizi del XX secolo, a Lama dei Peligni, a causa dell’emigrazione si diffusero due nuove consuetudini matrimoniali. La prima di esse consisteva nel matrimonio per procura”, un atto in cui uno o entrambi gli individui che si sposavano non erano fisicamente presenti durante la cerimonia e si facevano rappresentare da altre persone. Talvolta i due coniugi si conoscevano solo attraverso le foto e accettavano di sposarsi senza essersi mai visti. Questi matrimoni furono accettati dalla comunità, senza essere motivi di scandalo, pettegolezzi e disapprovazioni per i seguenti motivi: 1) avevano l’approvazione delle famiglie dei due aspiranti sposi; 2) non c’erano rapporti sessuali prematrimoniali; 3) documentano la continuità con il rispetto della norma che invitava a sposare propri compaesani; 4) normalmente al rito civile in paese seguiva quello religioso che si celebrava quando i due coniugi si riunivano nel luogo d’emigrazione. I parroci locali, ubbidendo alle prescrizioni diocesane, si occuparono degli emigranti e in questi casi curarono le pratiche matrimoniali. Non è dato sapere in totale quanti soggetti vi hanno fatto ricorso.

La seconda consuetudine era costituita dalle cosiddette “vedove bianche”, ossia delle mogli che restavano sole mentre i mariti lavoravano nei luoghi d’accoglienza. Questo fenomeno ha avuto una larga diffusione che dagli inizi del XX secolo si è protratta sino alla fine degli anni 60 e in alcuni casi più limitati è persistita anche alcuni decenni dopo. In queste situazioni, i mariti inviavano alle mogli le rimesse frutto dei risparmi, mentre le stesse provvedevano all’educazione dei figli e alla gestione dei beni famigliari. Inoltre esse mantenevano un comportamento molto riservato che le allontanavano dai pettegolezzi. In alcuni casi alla fedeltà coniugale femminile non corrispose quella maschile.

Dalla relazione della visita pastorale del 1920, risulta che le coppie locali rispettavano la morale cristiana, il 5% dei giovani si sposava avendo avuto rapporti prematrimoniali e 5-6 famiglie erano sposate solo con il rito civile. Di conseguenza, si deduce che esisteva una limitata tendenza ai liberi rapporti prematrimoniali e tranne pochissimi casi tutti celebravano il matrimonio in chiesa. All’epoca, il matrimonio civile non seguito da quello religioso, aveva una forte disapprovazione sociale e chi ne faceva uso andava incontro a pesanti critiche e pettegolezzi.

Nel 1929 aumentarono le coppie conviventi e le celebrazioni matrimoniali post fugam che nel complesso rappresentarono il 15% dei matrimoni locali. Le fughe d’amore in dialetto sono dette “le scappatelle” e confermano l’esistenza di scelte libere che si compivano quando i rapporti tra due giovani erano ostacolati dalle famiglie d’origine. Questi matrimoni erano anche un modo per riabilitare “l’onore” delle donne che avevano avuto rapporti prematrimoniali e si celebravano di buon mattino dietro l’altare maggiore della chiesa parrocchiale, senza pompa magna né l’abito bianco della sposa. All’epoca, in base alla mentalità corrente del luogo: 1) l’abito bianco era un simbolo della verginità femminile; 2) una coppia che aveva avuto rapporti sessuali non poteva sposarsi davanti l’altare maggiore in cui era collocato il Santissimo Sacramento; 3) la chiesa non poteva lasciare nel peccato due giovani e quindi, come gesto simbolico di riparazione, il rito matrimoniale si celebrava in sacrestia. Di solito vi ricorrevano oltre alle coppie che volevano sposarsi senza il consenso delle rispettive famiglie, anche quelle che non avevano le possibilità economiche per organizzare una sontuosa cerimonia. In questi casi i due innamorati annunciavano l’avvenuta (o presunta) consumazione del rapporto sessuale e quindi obbligavano le famiglie ad autorizzare il matrimonio, poiché in base alla morale dominante, nessuno avrebbe sposato una donna non illibata. All’epoca le donne che seguivano tale morale dicevano “Io mi sposo come mi ha fatto mia madre”.

Lama dei Peligni, anni 50

Lama dei Peligni, anni 50

L’uomo, invece doveva rispettare la propria compagna prima del matrimonio e nell’osservanza di tale regola, talvolta anche durante la fuga, non l’obbligava ad avere i rapporti sessuali. Queste fughe d’amore in voga sino alla prima metà del XX secolo, dai suoi ultimi decenni all’attualità, sono state sostituite da gite e viaggi romantici approvati socialmente che gli innamorati, i semplici fidanzati e/o i futuri sposi fanno, anticipando la luna di miele e prima di pronunciare il fatidico “si”.  

Nella relazione della successiva visita pastorale del 1932 il parroco non accennò a matrimoni post-fugam; dichiarò che solo tre coppie convivevano senza la celebrazione del rito religioso e annualmente nascevano 1-2 bambini da coppie non sposate. Agli inizi degli anni 40 una donna del luogo sposò un ex internato politico che con un provvedimento di polizia era stato inviato in isolamento a Lama dei Peligni (Pezzetta 2024). Inoltre alcune donne si recavano a passeggio presso l’edificio in cui erano alloggiati questi personaggi considerati pericolosi dal regime fascista, nella speranza di vedere e ammirare quelli fisicamente più attraenti (Cinque 2016). Questi dati confermano che era diffuso il matrimonio romantico d’amore e che le donne locali non nascondevano sempre le loro passioni.

Negli anni 50-60 alcuni emigranti si sposarono con donne delle nazioni d’accoglienza e inaugurarono la tradizione dei matrimoni con cittadine straniere. In qualche caso la famiglia d’origine manifestò un’opposizione iniziale e si rifiutò d’inviare i documenti necessari. In seguito, tali matrimoni sono aumentati, hanno interessato oltre che gli emigranti anche gli uomini che risiedono in paese e nella loro generalità sono accettati dalle famiglie dei lamesi coinvolti. A questi matrimoni si sono aggiunti anche quelli tra gli emigranti lamesi e le donne delle regioni italiane di accoglienza.

Sino agli anni 70 del secolo scorso, nell’ambito in esame era dominante la famiglia patriarcale tradizionale, fedele alla morale cattolica, con la figura dominante del padre padrone a cui si assegnava il ruolo di capofamiglia, e fondata sull’indissolubilità del matrimonio, la divisione dei ruoli tra i coniugi e la procreazione di numerosi figli. Ora anche a Lama questo modello famigliare non esiste più poiché non è sorretto da motivazioni economiche e culturali.

Un cambiamento riscontrato riguarda anche l’età in cui gli aspiranti coniugi si sposano. In un passato non molto lontano i cui limiti approssimativi possono essere fissati sino alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, i giovani si sposavano molto presto: per una donna poteva avvenire attorno a 18-20 anni, mentre per un uomo attorno a 20-25. Ora, invece, il matrimonio si celebra in età più avanzata, quando la coppia ha completato gli studi e raggiunta una certa stabilità economica.

Un altro cambiamento consiste nell’introduzione dell’addio al celibato e nubilato, un rito che si tiene qualche giorno prima delle nozze e durante il quale, con spirito goliardico, si celebra l’abbandono della condizione di single insieme alle amiche e agli amici più intimi. Essendo d’introduzione recente il modo con cui le varie coppie lo festeggiano, cambia in continuazione.

Il terzo aspetto riguarda il rito matrimoniale vero e proprio che ora non tutti celebrano: c’è chi si sposa solo in Comune, chi sceglie la libera convivenza e chi prima della sua celebrazione ha coabitato e avuto dei figli. I suoi caratteri tipici e tradizionali che si sono conservati sono i seguenti: la scelta del giorno per la cerimonia religiosa, gli inviti, il ricevimento, le pubblicazioni in chiesa, il pranzo con le danze e le fotografie rituali. Dopo gli anni 90, con il maggior benessere, il matrimonio ha accentuato la spettacolarizzazione e si celebra all’insegna dello sfarzo e del lusso utilizzando grosse limousine, vestiti sontuosi, pranzi in ristoranti, orchestre e viaggi di nozze in Paesi esotici. I suoi eventi più importanti sono ricordati negli album di nozze, in videocassette e più recentemente in CD-ROM che diventano reliquie da conservare per tutta la vita (Gallini 1988).

La fase iniziale del rito matrimoniale anche recente, nel suo complesso è rispettosa delle tradizioni locali del passato, consiste nella scelta della data della cerimonia religiosa e dà la preferenza alle giornate di giovedì, sabato e domenica. Le giornate cadenti di martedì o venerdì sono considerate infauste e non adatte alla celebrazione, come afferma il seguente proverbio: “Di Venere e di Marte, non si dà principio all’arte, non ci si sposa e né si parte”. Anche a Lama dei Peligni è diffusa la credenza che è da considerarsi un evento fausto, il matrimonio celebrato durante una giornata piovosa, come ammette il seguente proverbio: “Sposa bagnata, sposa fortunata” che deriva dall’assimilazione tra la fecondità femminile e la fertilità della terra.

Lama dei Peligni, anni 50

Lama dei Peligni, anni 50

Per quanto riguarda il periodo dell’anno, non esistono vere e proprie preclusioni o tabù. Tuttavia, in base ad antiche consuetudini non ci si sposa nel mese di maggio, in quello di novembre e durante l’Avvento. Non ci si sposa a maggio poiché dedicato alla Madonna e ai suoi attributi di verginità. In epoca romana non ci si sposava in tale mese per evitare il contagio degli spiriti dei morti. Di conseguenza è possibile che tale credenza pagana si sia conservata e con l’avvento del cristianesimo sia stata trasferita a novembre, concorrendo alla tradizione di non celebrare i matrimoni nel corso di questo mese.

Dopo la scelta della data di celebrazione del rito si fanno le pubblicazioni in chiesa e in Comune e, s’inviano gli inviti a nozze. Al rito religioso e al pranzo nuziale, s’invitano i testimoni di nozze, i padrini e madrine dei due giovani, i parenti e gli amici più intimi. Gli inviti, in passato erano fatti o dai due fidanzati insieme o da ognuno di essi che accompagnati dalle rispettive madri, si recavano nelle abitazioni dei parenti e amici. Ora gli inviti, chiamati più comunemente “partecipazioni a nozze”, si fanno per posta tranne i casi di parenti anziani e persone più care a cui si continua a rivolgere personalmente. Ai matrimoni oggi s’invitano molti amici dei due sposi che ci tengono a fare una festa tra giovani.

Ogni soggetto invitato fa un regalo e anche questa consuetudine è cambiata. Infatti, sino a circa 40 anni fa, gli oggetti da regalare si portavano nell’abitazione della futura sposa ed erano scelti dagli invitati e da chi semplicemente voleva partecipare all’evento nella più completa libertà. In seguito si è diffusa la consuetudine di compilare una lista di nozze in cui la futura coppia riportava gli oggetti che voleva ricevere dagli invitati. Invece, in questi ultimi anni, alcuni promessi sposi hanno rinunciato alla lista ed hanno allegato alle lettere d’invito, un biglietto di bonifico bancario in cui versare una quota di denaro da utilizzare per il viaggio di nozze.

Sino a pochi decenni fa, circa 8-10 giorni prima della cerimonia religiosa, nell’abitazione della fidanzata o in un locale capiente, si organizzava una specie di rinfresco detto “il ricevimento” al quale partecipavano gli amici, i parenti e i conoscenti non invitati alle nozze. La sua funzione era di rinnovare la solidarietà sociale e i buoni rapporti comunitari. Tale cerimoniale ora è sostituito da una cena in ristorante o da inviti personali in casa dei genitori degli aspiranti coniugi.

In passato, il giorno precedente il rito religioso, i fidanzati, accompagnati da qualche parente incaricato di sorvegliarli, andavano a confessarsi. Recentemente a questi aspetti di fede si sono aggiunti altri profani generalmente riguardanti la volontà degli aspiranti coniugi ad aver maggior cura del proprio aspetto fisico recandosi dal barbiere, estetista o parrucchiere, qualche ora prima del rito.

Per la cerimonia in chiesa, generalmente da oltre settant’anni la sposa si veste di bianco, mentre in precedenza indossava un abito multicolore confezionato artigianalmente. Gli sposi e gli invitati si recano in chiesa formando un corteo nuziale che nella sua articolazione segue usanze che in parte sono cambiate. Sino ad alcuni anni fa, prima dell’ingresso in chiesa si formava un unico corteo che partiva a piedi dall’abitazione della sposa ed era composto da tutti gli invitati alle nozze. Alla sua testa si poneva la futura moglie tenuta a braccetto del padre, e in sua assenza da uno zio o fratello maggiore ed era seguito da tutti i suoi parenti e amici. Dietro questo gruppo si poneva quello dello sposo con i rispettivi e amici e parenti. Durante il percorso, diversi curiosi lo seguivano per ammirarlo, osservare l’abito della sposa, il numero di invitati, etc. Ora si formano due cortei diversi. Il primo è costituito dagli amici e parenti dello sposo che deve precedere l’arrivo in chiesa del secondo corteo, formato dagli amici e parenti della sposa.

In base alle consuetudini locali, ora lo sposo non deve vedere la futura consorte con l’abito della cerimonia prima che essa raggiunga la chiesa o il municipio. Negli ultimi anni, accogliendo una moda nordamericana, in alcuni casi le amiche della sposa si sono vestite con abiti dello stesso colore e modello e, nel corteo, si sono poste immediatamente dietro di essa e i loro genitori. Inoltre alcune ragazze vestite di bianco, dette le damigelle, hanno portato un piccolo cuscino ricamato sul quale erano appoggiate le fedi matrimoniali.

Lama dei Peligni, anni 50

Lama dei Peligni, anni 60

Durante il rito religioso lo sposo siede inizialmente alla sinistra della sposa e, dopo che il sacerdote li dichiara marito e moglie, passa alla sua destra, a voler simboleggiare il cambiamento di status e l’assunzione del nuovo ruolo dell’uomo verso la donna. Durante la funzione religiosa la coppia si scambia gli anelli matrimoniali, un rito che simboleggia il reciproco impegno d’amore dei due coniugi. Al termine parenti e amici presenti si congratulano con gli sposi scambiandosi abbracci e baci sulle guance. In base alle consuetudini locali, al parroco che officia la funzione religiosa, i genitori della coppia regalano una busta contenente denaro.

All’uscita della chiesa, si forma un unico corteo con in testa la nuova coppia seguita prima dai parenti e amici dello sposo e poi da quelli della sposa. In un passato non molto lontano, la madre dello sposo aspettava l’uscita del corteo dalla chiesa e, per augurare buona salute, ricchezza, fertilità, lunga vita e felicità alla coppia, lanciava su di essa i confetti che teneva su un piatto. Ora si regala alla sposa un simbolico mazzo di fiori, mentre gli altri invitati lanciano petali di fiori, riso, confetti e in qualche caso anche colombi. Inoltre in passato, dopo la cerimonia religiosa, il corteo nuziale, attraversando a piedi le strade principali del paese in modo da divulgare l’evento e dare dimostrazione di felicità, si recava nell’abitazione ove si consumava il pranzo nuziale e la coppia si mostrava da qualche poggiolo o finestra al pubblico a cui lanciava confetti.

Giulio D’Eramo ha scritto che negli anni 30-40 del secolo scorso, quando la donna entrava nell’abitazione in cui avrebbe condotta la vita di coppia, la sua madrina di battesimo si affacciava a un balcone per lanciare confetti, piccole monete e caramelle sul pubblico che osservava la scena. Qualcuno in questi casi poteva aprire un ombrello per raccoglierli in maggiore quantità [18].

Ora, la neo-coppia sale su un’imponente berlina, apre un nuovo corteo ed è seguita da tutti gli invitati che, con lo sfrecciare delle auto infiocchettate e l’allegro baccano provocato dal frastuono dei clacson, lì accompagnano sino al ristorante in cui si consuma il pranzo nuziale. Questo andamento rumoroso ha anche una funzione propiziatoria di buoni auspici che deriva dalla credenza che con esso si mettono in fuga le influenze degli spiriti maligni.

Durante il pranzo si osservava e si osserva tuttora una particolare disposizione degli invitati: a fianco degli sposi siedono i testimoni reciproci, seguiti dai parenti dell’una e dell’altra parte, gli amici, i celibi, le nubili, ecc. Esso è abbastanza vario in portate ed è accompagnato da schiamazzi, risate e inni agli sposi, una serie di comportamenti propiziatori e beneauguranti per la nuova coppia. Nei pranzi di qualche anno fa si consumavano pietanze tradizionali abruzzesi fatte in casa mentre ora si prediligono i cibi sofisticati offerti dal ristorante.

Tra una portata e l’altra gli sposi danno inizio ai balli collettivi. Ogni uomo presente può ballare con la sposa o altra donna rafforzando la coesione e solidarietà sociale tra gli invitati e la nuova coppia. Sia durante il pranzo che al suo termine (in data odierna con maggior frequenza rispetto al passato), i novelli sposi devono sopportare vari tipi di scherzi interpretabili come prove da superare che accompagnano i riti di passaggio; secondo Lia Giancristofaro (2005) sono atteggiamenti di difesa del gruppo d’appartenenza per evitare che si dimentichino i legami comunitari.

Gli sposi al termine del pranzo regalano agli invitati una bomboniera, un particolare oggetto contenente confetti. Questa consuetudine, in Italia sembra si sia diffusa dopo la celebrazione delle nozze del futuro re Vittorio Emanuele III con Elena del Montenegro avvenuta nel 1896. In questo caso gli invitati portarono delle bomboniere come regalo di nozze e in seguito questa particolarità si è generalizzata e trasformata nel regalo che gli sposi fanno ai propri ospiti.

Dopo il pranzo, gli sposi si recano nell’abitazione in cui vivranno il resto della loro vita e “consumano” il matrimonio nel letto che per motivi scaramantici, ancora oggi, è preparato dalla madre della sposa o da altri parenti. Alcuni decenni fa il mattino dopo, la madre della sposa o la suocera si recava in casa della coppia, portava la colazione e constatava se il matrimonio era stato consumato. Ora questi ultimi aspetti del rituale matrimoniale sono abbandonati, ogni coppia normalmente ha rapporti sessuali prematrimoniali e a nessuno viene in mento di controllare se il matrimonio si è consumato durante la prima notte di nozze. Su tali aspetti, Mario Amorosi, ha scritto in poesia: 

Anticamente ‘na giovene spose / steve ‘ncartucciate ‘gne ‘na rose / purtueve ‘na gonne a sette tele / che pe’ smantarle ce vuleve ‘na sere. / S’armureve la lume, ce vuleve lu scure / la giovene, inesperte, teneve paure / Se chiudeve l’uocchie, ma s’aveva fa / l’avè ditte lu prejete: sa da’ cunzemà. / Passate la notte, passate la paure / dope nove misce piagneve ‘na criature. / Mò, invece, nze chenosce cchiù paure / tra gonne leggere e grosse scullature / ce se va a spusà mezza cacanute / s’è già trescate e assaije s’è metute. / Dice lu prejete: Nella bone e nella cattiva sorte. / Peccate ca dure… fine a la porte. / Passe nove misce, lu citele n’è nate / e libere e franche già s’hanne separate [19]. 

Un altro aspetto dei matrimoni recenti è la più larga diffusione dei viaggi di nozze che un tempo erano un’esclusiva delle coppie appartenenti a famiglie benestanti. Essi normalmente hanno inizio qualche giorno successivo alla conclusione del pranzo nuziale.

In passato, nel luogo era diffuso un particolare rituale purificatorio e di passaggio riguardante la donna appena sposata. Esso prevedeva che la stessa restasse in casa senza uscire per otto giorni, dopodiché poteva reintegrarsi nella comunità. Tale usanza dimostra che la donna avendo assunto un nuovo status sociale e una nuova condizione fisica e psicologica, prima di essere riammessa nella vita comunitaria doveva osservare un breve periodo di quarantena. Era anche consuetudine che la prima domenica dopo le nozze, i genitori dello sposo, regolarmente invitati, si recassero a pranzare nell’abitazione della nuova coppia.

Lama dei Peligni, La chiesa parrocchiale di Gesù Bambino

Lama dei Peligni, La chiesa parrocchiale di Gesù Bambino

Un altro particolare momento solenne delle tradizioni del passato era costituito dall’addio della sposa alla casa in cui aveva vissuto insieme ai suoi genitori. In varie località dell’Abruzzo era consuetudine che quando la sposa lasciava la casa paterna, le fosse dedicato un “canto nuziale di partenza” celebrativo di tale distacco. Ora nessuno a Lama ricorda tale tradizione. Un’anziana signora qualche anno fa aveva riferito che in paese era diffuso il seguente canto che potrebbe rientrare in tale categoria ed è comunque rivelatore dell’atteggiamento delle madri locali verso le figlie che lasciavano l’abitazione materna per andare a vivere con il marito: “La mamme piagne ca’ la fijje spose / mo’ se ne và la rose de la case / aresponne la cummare a la fenestre / falle jje ‘s’arrobba fine” [20].

Tra gli ultimi decenni del XX secolo e i primi del XXI, anche a Lama dei Peligni, il numero di matrimoni, che annualmente si celebrano, si è notevolmente ridotto. Diverse coppie convivono senza la sua celebrazione, sono regolarmente accettate dalla comunità e non sono oggetto di pettegolezzi. Anche alcuni ferventi praticanti cattolici hanno iniziato il proprio rapporto famigliare con una libera convivenza. Altri giovani si sono sposati solo civilmente, sono separati o divorziati. In vari casi le esperienze negative dei matrimoni falliti hanno portato diversi genitori a suggerire ai propri figli d’iniziare un rapporto con la convivenza e di arrivare al matrimonio solo dopo un lungo periodo di vita comune. I pochi matrimoni che si celebrano spesso sono una conseguenza delle pressioni dei genitori che, per motivi soprattutto di tipo burocratico, pretendono dai loro figli di arrivare almeno alla celebrazione del rito civile, specie dopo la nascita di qualche figlio. I modelli culturali e valori a cui ora s’ispirano i giovani che scelgono di convivere sono i seguenti: la convinzione che l’amore non è legato a formule giuridiche poiché la sacralità dell’unione coniugale nasce all’interno dell’uomo e della donna; la volontà di affermare l’autenticità e la completa parità tra i due sessi nella vita di coppia condividendo diritti, doveri reciproci e rinunciando o eliminando i formalismi di qualsiasi natura.

Anche la Chiesa ha preso atto delle trasformazioni culturali avvenute. Infatti, le deliberazioni sinodali recenti tengono conto che i giovani non sono soggetti al controllo sociale del passato, si rapportano tra di loro in modo più libero e al fine di mantenerli nella comunità ecclesiale, senza minacciare scomuniche o altre sanzioni, propongono un’attività pastorale di preparazione al matrimonio, talvolta in collaborazione con coppie sposate e prevedono diverse tipologie di riti religiosi. A tal proposito, il Sinodo diocesano teatino promosso nel 2007 dall’Arcivescovo Bruno Forte ha invitato a preparare le giovani coppie alla celebrazione del rito matrimoniale facendo presente quanto segue: 

«Il matrimonio avvenga normalmente in celebrazione eucaristica: la celebrazione sia tenuta di domenica o in giorno festivo solo se si prevede ragionevolmente la partecipazione della comunità locale. Diversamente si preferisca il sabato o un giorno feriale. Il nuovo rito del matrimonio preveda diversi tipi di celebrazione, da utilizzare a seconda delle circostanze: uno con la sola liturgia della Parola per gli sposi che “non hanno maturato un chiaro orientamento cristiano e non vivono una piena appartenenza alla Chiesa”; uno per i matrimoni misti; uno quello ordinario, celebrato nel contesto dell’Eucaristia, per i cristiani che vivono e s’impegnano a vivere con fedeltà la vita di fede» [21]. 
Lama dei Peligni, anni 70

Lama dei Peligni, anni 70

Conclusioni

I fatti analizzati dimostrano che anche a Lama dei Peligni il matrimonio è segnato da elementi di continuità con il passato e da cambiamenti dovuti all’introduzione locale di modelli culturali e tradizioni diffuse dai mezzi di comunicazione di massa. La sua ritualità è costellata ancora da molti momenti formali e non, a cui la comunità partecipa direttamente o indirettamente dimostrando che esso è un importante avvenimento sociale non limitato solo alla neo-coppia e ai loro famigliari.

Durante i vari momenti dei riti matrimoniali, dal corteo prima dell’ingresso in chiesa, al pranzo e al viaggio di nozze, si continua a mantenere un atteggiamento ostensorio il cui scopo è di divulgare l’evento, dimostrare felicità e suggerire il rispetto dei valori e modelli culturali locali. A loro volta i cambiamenti riscontrati, rispecchiano comportamenti e atteggiamenti di ampia diffusione geografica e sono fenomeni che testimoniano la tendenza a uniformare i costumi seguendo modelli comportamentali più o meno globalizzati.

La maggioranza dei giovani continua a sposarsi ma contemporaneamente aumentano le coppie conviventi e l’instabilità coniugale che porta a separazioni e divorzi. Il calo dei matrimoni e l’aumento delle convivenze, invece, sono legati in parte alla nuova condizione sociale della donna che all’interno della vita coniugale pretende un rapporto più paritario, rispetto al passato ha meno bisogno di sposarsi per realizzarsi e avverte le difficoltà di conciliare la vita di lavoro con quella famigliare. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
[*] Le foto sono tratte dall’Archivio Lamamarcord
Note
[1] Archivio della Curia Arcivescovile di Chieti, Fondi Parrocchiali di Lama dei Peligni Busta n. 797: 35.
[2] Archivio della Curia Arcivescovile di Chieti, ivi, Informazioni su un matrimonio:57.
[3] Traduzione: Il primo amore è come una catena, quando ci si lega, non è possibile slegarsi.
[4] Traduzione: San Pasquale Baylon/ protettore delle donne/ fammi trovare un marito / bello buono e colorito.
[5] Pezzetta A., “Vita sociale e religiosa a Lama dei Peligni dal 1922 al 1945”, in Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024.
[6] Traduzione: Mentre tu amore mio stai per addormentarti/ con questa chitarra mi accompagno e canto/per darti gioia e felicità/oggi in mezzo alla piazza/ con i tuoi occhi / e un sorriso mi hai detto sì / stasera testimone la luna / ti giuro amore per l’eternità.
[7] Traduzione: Balcone chiuso veranda d’amore/ Rosetta bella affacciati/con questa chitarra stasera questo cuore/ la serenata è venuto a cantare/ Rosetta mia Rosetta mia/ per te questo cuore si sente impazzire/ Rosetta mia Rosetta mia/ per te d’amore mi sento morire/ Da quel balcone mi sembri una fata/ Rosetta amata mi sembra di sognare/ tu tra i fiori sei la più profumata/ Fammi salire che ti voglio annusare.
[8] Traduzione: Sotto una luna placida e incantata / vorrei baciare questa bocca rossa e bella.
[9] Traduzione: Esci fuori brutta faccia tosta/poiché Pasquale ti aspetta sulla piazzetta/ tu sei una pollastrella già spennata/ e nel tegame ognuno ti vuol mettere/ esci fuori se hai coraggio/ fai vedere il tuo viso con le rughe/ è inutile che ti trucchi il viso / tanto non riesci a trovar marito.
[10] Traduzione: Io possiedo una pianta di rose a cappuccio / e possiedo un amante che si chiama Peppuccio/ prima lo colgo e poi lo odoro/ come mi piace a chiamarlo amore.
[11] Traduzione: Vorrei diventare un venticello / Un venticello fresco e profumato /per accarezzarti tutta la giornata / Queste trecce nere e folte Carmela / Uno sfizio e un capriccio mi toglierei / Se in mezzo alle trecce potessi passare / Vorrei diventare l’acqua che passa / l’acqua che passa sotto al vallone / Cosi quando strofini il sapone / la tua piccola mano toccherei / Uno sfizio e un capriccio mi toglierei / se i tra le tue dita potrei passare / Vorrei diventare come le lenzuola / Come le lenzuola che tu strofini e sbatti / Cosi quando la sera ti addormenti / Io il tuo bellissimo seno potrei toccare / Uno sfizio e un capriccio mi toglierei / Se potessi stringerti tra queste braccia / Uno sfizio e un capriccio mi toglierei / Se la tua
[12] Traduzione: Quando tu canti con questa bocca bella / e ti tremano le labbra di corallo / Mi sento stringere il petto Carmela / Poiché per te il cuore si vuole fermare / Salgo piano piano in paradiso / Sopra le stelle mi vuole trasportare / Questa voce tua… Questa voce tua Questa voce tua / Questo pensiero mi porta lontano / Cantami Carmela una canzone / Ti voglio sentire sino a domani / Mi voglio consumare piano piano / Canta il mare e canta la terra / Il vento sulla vetta della montagna canta / Cantano gli uccelli e io sono indifferente / Solo la tua voce mi fa tremare.
[13] Traduzione: Dietro la montagna c’è Roma/ un po’ più in là c’è l’amore mio / amore amore tu sei sant’amore/ tu sei al fresco ed io vicino al sole/ l’amore mio mi ha detto canta/ alla malinconia non ci pensare/l’amore mio si è messo di fronte/ se non mi può parlare mi tiene in mente/ ho un fazzoletto ricamato/ sui capelli di questa bionda treccia /la madre dell’amore mi tiene nel seno / come una scatoletta di confetti / l’amore mio si chiama Nicola / l’ho considerato in mezzo al cuore / mamma maledico e papa pure / l’amore con uno straniero poco dura / l’amore con uno straniero dura un mese / dopo ritorna al suo paese/ l’amore mio si chiama come si chiama / so il nome, ma non so la casa / una volta che ci vado apprendo l’uso / miete miete e la piccola falce miete.
[14] Traduzione: Peppino sopra il letto / il cancelliere in mezzo al petto / ancora un po’ ancora un po’ / ancora un po’ e poi niente più / Se vai a bere al maniero / Ci rimani prigioniero / ancora un po’ ancora un po’ / ancora un po’ e poi niente più.
[15] Traduzione: Non ti avessi incontrata / non ti avessi conosciuta / Ho perso la salute /che tu possa essere uccisa Catari /io non so cosa fare / Non ne posso proprio più / Tu di si io di no / hai ragione sempre tu / Mi sembravi una Madonna / zitta zitta calma calma / Mi potevi far uscire l’anima / Che tu possa essere uccisa Catari / Qualche giorno qualche notte / faccio l’ultima pensata / ti rovino la schiena di botte / e dopo rido io.
[16] Traduzione: L’amore di oggi è come quello di ieri. / Poiché se potesse parlare il pagliaio…/ Solo che oggi si fa alla luce del sole / quello che prima si faceva di nascosto. / Ora dopo l’età dello sviluppo / inizia l’amore senza trucchi / e sono bocche melate a forma di fiore / che ogni frase finisce con: amore. / All’età della ragione si sono stufati / e finisce a coltellate.
[17] Traduzione: Mia nonna raccontava / che l’amore sessant’anni fa / si faceva con i fidanzati / si comunicava a distanza / si faceva e si passava / a serenate canti e suoni. / Ma i baci gioia cara / si vedevano con il cannocchiale. / Ora tutto è cambiato / ora l’amore non è più quello / ora l’amore è più bello / ora c’è la libertà / s’inizia con i baci / come finisce chi lo sa. / E la sera qualche volta / si faceva una scappatella / si sedeva con il fidanzato / e si scambiavano effusioni. / Mio nonno che stava in mezzo / ogni tanto raccontava / che una volta in tempi passati / si scontrò con i briganti. / Ora tutto è cambiato / ora l’amore non è più quello / ora l’amore è più bello / ora c’è la libertà / s’inizia con i baci / come finisce chi lo sa. / Ora la madre l’ha capito / che per sposar la figlia / deve cambiare metodo / deve allentare la briglia. / Arriva il fidanzato: permettete / e se tu sei presente / dormi e fai la calza. / Ora tutto è cambiato / ora l’amore non è più quello / ora l’amore è più bello / ora c’è la libertà / s’inizia con i baci / come finisce chi lo sa.
[18] D’Eramo G., Mentre la Majella resta a guardare. Storia della Valle dell’Aventino, Grafiche Odorisio, Pescara, 2022: 50.
[19] Traduzione: Anticamente una giovane sposa / stava incartocciata come una rosa / portava una gonna a sette tele / che per toglierla ci voleva una sera. / Si spegneva il lume, ci voleva il buio / la giovane inesperta aveva paura / Chiudeva gli occhi ma si doveva fare / L’aveva detto il prete: si deve consumare. / Passata la notte, passata la paura / dopo nove mesi nasceva una creatura / Ora, invece non si conoscono paure / tra gonne leggere e grosse scollature / si va a sposarsi seminudi / si è già trebbiato e molto si è mietuto / Dice il prete: nella buona e cattiva sorte / Peccato che dura sino alla porta. / Passano nove mesi e il bimbo non è nato / e liberi e franchi si son già separati.
[20] Traduzione: La mamma piange che la figlia si sposa / ora se ne va la regina della casa / risponde la comare alla finestra / lasciala andare questa roba fine.
[21] Arcidiocesi di Chieti – Vasto, Libro del XIII Sinodo promulgato dall’Arcivescovo Metropolita Bruno Forte, Chieti, 2007: 58. 
Riferimenti bibliografici 
Fondi manoscritti: 
1.1 Archivio della Curia Arcivescovile di Chieti:
- Atti Sinodali del 1635, busta n. 425.
- Relazioni delle visite pastorali dal 1568 al 1932. Buste n. 518-555.
I.2: Archivio di Stato di Chieti. Sottosezione di Lanciano:
- Protocolli rogati dal notaio Mascetta Falco di Palena dal 1737 al 1764, volume 1.
- Protocolli rogati dal notaio Verna Pietro senior di Fara S. Martino dal 1749 al 1785, volume 35. 
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Amelio Pezzetta, laureato in filosofia all’Università di Trieste, è insegnante di Scuola Media in quiescenza. I suoi interessi principali sono la storia locale e le tradizioni popolari dei Comuni della Valle dell’Aventino (Prov. di Chieti, Abruzzo). Ha collaborato e collabora tuttora con varie riviste del settore tra cui: Aequa, Dada, L’Universo, Palaver, Rivista di Etnografia, Rivista Abruzzese e Utriculus e Valle del Sagittario.

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