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Sul vivere quotidiano. Variazioni epifaniche in chiave antropologica

ph.Montes.

Foto Stefano Montes

di Stefano Montes

Variazione I. Osservare, attraversare

Lo ricordo bene. Ero appoggiato a un palo, mi guardavo tutt’intorno come se qualcosa stesse per accadere, come se l’azione d’un tratto stesse per essere sospesa e io potessi chiarirmi le idee su tutto quello che da sempre mi chiedo, mi chiedo invano: mi guardavo intorno e aspettavo il miracolo compirsi sotto i miei occhi. Stavo in piedi, dall’altra parte del marciapiede, con una gamba allungata in avanti pronto a qualsiasi evenienza, lesto a fare qualcosa che non sapevo bene ancora cosa fosse. Che mi attendevo dal mondo, da me stesso? Osservavo i passanti, tutto qui! Li osservavo, li vedevo fluire come ombre inerti sulla strada, mentre i miei pensieri man mano si presentavano in punta di piedi, partecipavano del mio momento di calma protratta, di attenzione rivolta senza cedimento alcuno al mondo esterno: i miei pensieri davano, senza averne l’aria, il cambio ai sussulti delle mie gambe compunte in cammino fin dal mattino presto per le strade infinite di Toronto.

Certo, avrei potuto sedermi, avrei potuto prendere un caffè, avrei potuto allungarmi comodamente su una sedia e lasciare la mia osservazione scorrere in santa pace su tutti quei bei disegni. Certo, avrei potuto fare tutto questo, ma non l’ho fatto: non l’ho fatto perché non ne ho sentito il bisogno, perché non volevo interrompere la magia del momento presente, perché non volevo nemmeno essere me stesso, quel me stesso che dirige i pensieri e fa quel che gli pare a discapito di corpo, sensazioni ed emozioni. Il  corpo ritrovato prendeva, di suo, le distanze dal resto degli accadimenti della giornata, dal passato, dal futuro, persino dal mio presente inebetito, aereo, vacanziero, assorbito dai disegni sul muro. Che tramava il corpo? Ebbene, come per incanto, il corpo sembrava estrarsi dal fodero del mondo che solitamente lo avviluppa a casa, al lavoro o a passeggio. Ed era una sensazione inusuale, distensiva.

Eppure, ero solamente appoggiato a un palo, immobile in un qualsiasi sito della città di Toronto; osservavo dei bei disegni, ma pur sempre disegni, nient’altro che disegni, dall’altra parte del marciapiede, al di là della frontiera immaginaria. In piedi, rimanevo attonito, con l’apparecchio fotografico rivolto verso tutti quei disegni che mi inebriavano il corpo e la mente, confondevano piacevolmente la mia stessa partecipazione all’evento inatteso. In piedi, sono rimasto tutto il tempo attento, perché sapevo che qualcosa doveva, presto o tardi, interrompere l’affinità creatasi tra sensi e disegni sul muro e dare così un altro verso al mondo, al mio stesso interesse depositato sotto forma di colori e forme sul muro di fronte. Che sorprendente sospensione dell’essere! Sempre in piedi, senza muovermi di un passo, opponevo soltanto una minima resistenza a questa sorta di attesa infinita di un evento che mi situava al di là della sottile frontiera posta tra me e le altre persone al bar, tra me e i disegni colorati, tra ‘me stesso’ in attitudine contemplativa e quel ‘me stesso’ indispettito dalla pausa, dal palo su cui mi appoggiavo, dai passanti incuranti della mia finta attesa, da tutte quelle bocche aperte con i denti in bella mostra, da quella lingua arrotolata che attirava la mia attenzione persistente.

Osservavo (ph. Montes).

Osservavo (ph. Montes)

La frontiera? O forse no, non più? Nella concezione cinese della frontiera esiste «un’altra vocazione del tra, quando questo non è più ridotto allo statuto di intermediario o di grado, tra il più e il meno, ma si dispiega come l’attraverso che lascia passare» (Jullien 2016: 179). Stava forse per accadere? Stava, la mia frontiera, per diventare un lasciar passare, una fusione di intelletto ed emozioni, intelletto e percetto? So soltanto che io ero immobile, in attesa dell’evento. Con l’apparecchio fotografico tra le mani, ero in attesa che la frontiera si dissolvesse del tutto senza proferire parola, per timore di cadere preda del rituale, perché «pronunciare le parole è di per sé un rituale» (Leach 1964: 407). Che ho fatto, allora, in silenzio, per non cadere preda del rituale che mi avrebbe, altrimenti, trasportato verso un’altra direzione dell’essere? Ho inizialmente contratto gli addominali, leggermente, quel tanto che basta, giusto per vedere cosa succedeva. Ho quindi strizzato l’occhio sinistro per inquadrare meglio la scena. Poi, mi sono allungato, ho alzato le braccia in segno di sfida nei confronti dell’apparente passività; ricadute le braccia verso il basso, ho infine finto di recuperare la sanità di corpo e spirito, intenzione e fine, osservazione e partecipazione.

Inaspettatamente, proprio in quel dannato momento, è passato un ciclista e sono stupidamente tornato in me; come spinta dalla novità, in parallelo, in una sola onda immensa, si è rovesciata, nella mia mente, quella bella intuizione di Greimas: «Per evitare che l’iterazione delle attese degeneri in monotonia, è concepibile, ma rischioso, uno spostamento di accentuazione: una sincope tensiva, che realizza il tempo forte anticipandolo, e un’attenzione nei confronti dell’attesa dell’altro; oppure un sostenuto che prolunga l’attesa, accompagnato da inquietudine, ma che rinvigorisce il tempo forte ancora sperato. La turbolenza così creata rivalorizza il ritmo affannato» (Greimas 1988: 70). Allora, terminato il momento di sospensione sincopata, ho attraversato la strada e ho ripreso ad andare per le vie di Toronto, sollevato tuttavia da una decisione puntuale: ho ordinato un cappuccino, l’ho sorseggiato lentamente come faccio di solito quando sono contento e penso che tutto vada al meglio. Le gragnole di belle sensazioni gustative hanno preso il posto della sospensione di pocanzi. E non è stato, dopotutto, così male ridiventare me stesso, quello che vuole mantenere traccia di ciò che fa, che scatta tante foto, che prende appunti scheletrici di difficile decifrazione anche a se stesso.

Delimitavo (ph. Montes)

Delimitavo (ph. Montes)

Variazione II. Delimitare, intrecciare

Poggio un gomito, poi l’altro. Piego la schiena, poi le gambe. Le raddrizzo, poi le piego di nuovo, infine torno a raddrizzarle. Sfioro prima i capelli, poi mi accarezzo il mento. Mi sfioro e mi accarezzo il mento e la nuca e rifletto e osservo e non mi risparmio. Mi affaccio e provo a delimitare con puntiglio ciò che percepisco. Mi sporgo sul lago e provo a inquadrare il mondo a partire da una specifica, isolata prospettiva. Solo una prospettiva, singola, isolata e ritagliata dal contesto? Difficile, ma provar non nuoce. Provo a delimitare il vagare del mio sguardo rispetto a un mondo che mi invade, un mondo che al contempo evade quella che vorrei fosse invece un’unica, singola osservazione: approfondita e penetrante. Provo e riprovo e non ci riesco: il singolare cede di fronte alla complessità dell’insieme, cede al cospetto dell’attrazione deambulante esercitata del paesaggio. Non desisto, tuttavia. Non desisto, non mi do per vinto, non abbasso la guardia. Provo e riprovo ancora una volta. Provo e non ne vengo a capo. Non ne vengo a capo, fallisco.

La scena s’impone provocatoriamente, dispettosa, per sé, sulla mia osservazione: si sottrae e mi assedia, mi costringe all’esercizio dello sguardo e lo devia costantemente su altro, sul mondo, su un dettaglio, sulla ricomposizione dell’insieme, sulle mie stesse sensazioni procurate dalla situazione. Comunque sia, io non ho affatto fretta, i falliti tentativi non mi frenano con la dovuta, assillante forza. Non ho fretta, sono in vacanza, non ho scadenze forsennate da rispettare, sono padrone del mio tempo, padrone di me stesso, delle mie elucubrazioni scelte o casuali. Devo forse rendere conto a qualcuno del mio tempo, del brusìo di fondo che lo accompagna? Non devo, me ne rallegro, me lo chiedo ancora, giungo infine a una conclusione: continua, continua pure Stefano, o chiunque tu sia in questo momento, delimita! Io delimito con calma: osservo e mi osservo allo stesso tempo mentre osservo. Delimito in prima istanza con la mano destra: con l’indice e il medio. Delimito e prendo la mira senza però ricavarne granché. Ci riprovo con la sinistra: delimito orientando le dita verso l’alto, servendomi del pollice per creare un imperfetto, traballante angolo retto. Non è andata meglio. Perché?

Il riquadro è piacevole, appagante: situa lo sguardo, gli dà pace e certezza, stasi e distensione del cercare infine quietato: per il momento. E allora? Il suo esterno è – appena un momento dopo – più gratificante, benché poco rasserenante: richiede un continuo spostamento di accento, una nuova delimitazione, una riorganizzata flessione delle dita nervose, come me insoddisfatte del nuovo andazzo preso dall’osservazione della scena fin troppo dinamica per i miei intenti, lenti e alterni. Certo, i tre uccelli sono immobili, impassibili. È innegabile. Potrei assecondarli, potrei arrestare lo sguardo su di loro e accontentarmene: pago dell’assenza di movimento, pago del mio stato di esteriore stabilità. Pago, finalmente, tutto terminerebbe al momento opportuno e sarei soddisfatto per qualche tempo della mia osservazione. Ma non è così. Gli uccelli guardano, tutt’e tre, nella stessa direzione con insistenza eccessiva e non accennano a fare altro e così dovrei fare io e non cedo per questa stessa ragione: prendere un unico verso, un solo senso, mi sembra una resa facile, scontata, all’evidenza del vero. Mi assilla infatti una questione più delle altre: se non dessi per scontato che sono veri, penserei che gli uccelli sono impagliati. Non hai anche tu la stessa impressione lettore, narratore, o chiunque tu sia in questo momento? Nessuno però metterebbe uccelli impagliati su tre diversi pilastri conficcati su un lago svizzero. Anche questo è un punto fermo. Che idea balzana sarebbe! D’altra parte, per andare in senso inverso, è anche vero che io do – nel mio ingenuo procedere guidato dall’osservazione – molte cose per scontate e non è così e so bene che non dovrei comunque lasciarmi andare all’evidenza dell’ovvio.

Mi astraevo (ph. Montes).

Mi astraevo (ph. Montes)

E così continuo, continuo indefessamente, nel mio ragionamento a fasi alterne. Continuo perché ciò che appare ovvio, prima nasconde, poi rivela – a un’approfondita analisi – un senso ottuso in forma di valanghe di connotazioni che portano altrove. Sulla base di cosa, per esempio, dovrei pensare che gli uccelli sono veri? Non c’è nessuna ragione: loro sono immobili; io cerco spiegazioni. Potrei, in fondo, essere all’interno di uno dei miei sogni birichini: uno di quei sogni che si prende gioco di me e mi si rivolta contro per puro capriccio. Potrei stare vivendo al momento – è capitato in passato – nel fervido scatenarsi dell’immaginazione che non concede spazio alcuno a una parvenza di necessaria delimitazione del vero e del falso, reale o inventato. Non mi stupirei, nemmeno, di essere in un sogno – proprio ora, d’altronde, che lo dico – mentre penso di osservare il lago e i suoi vari elementi sparsi in un orizzonte il cui insieme è difficile da ricomporre a unità, a singola totalità. Immaginazione e sogno s’equivalgono, talvolta: quando meno te lo aspetti. E questo è il caso, questo il mio caso! Perché stupirsene allora? Io faccio spesso dei sogni in cui metto alla prova me stesso in un contesto ogni volta diverso: descrivendo al contempo il mondo esterno e le mie sensazioni; raccontando in egual misura le mie azioni e il mio contemporaneo situarmi nel mondo. Da dove verrà questa mania? Dalla mia infanzia solitaria, suppongo, alle prese con contesti a me familiari e noti: con il mondo di allora che sentivo tutto il tempo alle mie calcagna, incollato a pensieri e azioni fin troppo soffocanti. Non mi dava tregua un solo secondo: il mondo era sempre da qualche parte, intorno a me, in casa, all’aperto, persino nei miei sogni. Ma io non cedevo. Da piccolo, con la presunzione del bambino ignaro della sua complessità, passavo intere giornate a cercare di sottrarmi al mondo. Da piccolo, ce la mettevo tutta. Ce la farò, dicevo. C’è tempo, pensavo. C’è speranza, rimarcavo. Mi impegnavo, insomma. Ovviamente, senza riuscirci. Come potevo mai astrarmi dal mondo nella sua totalità? Come potevo mai sottrarmi alla sua presa nella sua interezza? Forse nemmeno in parte, forse nemmeno un po’.

L’immaginazione stessa, per quanto volatile e matta, richiede a ognuno di noi una qualche parvenza di mondo che la ancori culturalmente all’interno e all’esterno del suo vitale dinamismo. In ogni caso, per farla breve con i miei ricordi, di questi miei piccoli tentativi falliti qualcosa è rimasto: la voglia di cimentarsi in questi piccoli esercizi di presa in conto del rapportarsi reciproco tra l’Ego e il mondo. All’epoca, fallivo, non demordevo, me ne facevo una ragione: ogni volta diversa, ogni volta buona per un altro esercizio di osservazione e astrazione. Fallivo e riprovavo senza smentirmi, caparbiamente, senza ripensamenti o esitazioni. Non ci stavo male allora, non ci sto male adesso. In seguito, da antropologo, mi sono persuaso che non è del tutto inutile, nonostante gli insuccessi, provare a costringere me stesso e il mondo a una resa dei conti, magari a una conciliante sovrapposizione o una accettazione non sofferta, compartecipata, interattiva. Se non altro perché l’‘io’ non è mai avulso dal contesto che lo accoglie, non è mai privo di relazioni – sottili, affascinanti – con il mondo circostante. E ciò varia in funzione delle diverse culture: l’‘io’ non è mai tale, infatti, se non in rapporto alla cultura che ne consente un suo modello di partenza a cui rifarsi. Per i giapponesi, giusto per fare un esempio, l’io «è definito, in funzione della circostanza, dal suo rapporto con l’altro: la sua validità è occasionale, al contrario di quanto accade nelle lingue europee, dove l’identità si afferma indipendentemente dalla situazione» (Nakagawa 2006: 19-20). Insomma, esplorare le possibili delimitazioni del mondo, anche volendo rimanere all’interno di una sola cultura, significa comunque evadere da una possibile cristallizzazione dell’Ego che tende spesso, nel tempo, a radicarsi in una sola prospettiva. E questa disincrostazione persistente, antropologica, è efficace: non soltanto per potere uscire dal solco dell’Ego visto a volte – concettualmente, in teoria – in modo statico, ma anche dal solco della prospettiva unica e monolitica spesso adottata nei confronti del mondo da cogliere nel suo divenire.

Tornavo in me, tornavo al mondo (ph. Montes)

Tornavo in me, tornavo al mondo (ph. Montes)

Intanto, parlando parlando – rimuginando, dando libero corso ai miei pensieri, osservandomi mentre osservo – mi rendo pienamente conto che le nuvole continuano a spostarsi, incuranti dei miei stessi pensieri, sotto il mio sguardo perplesso: inseguitore certo, ma pieghevole; flessibile senz’altro, ma incalzato dal susseguirsi imperterrito delle immagini. E allora un sospetto mi assale! Sospetto che le nuvole si spostino proprio per sfuggire al mio sguardo isolatore, per consentirmi di essere l’‘io’ che sono sempre stato: nella diversità dei tipi di osservazione; nella diversità delle delimitazioni concesse dal mondo. Le nuvole sono animate. Lo sospetto, ma non ne sono certo: perché, se così fosse, il mondo sarebbe tutto sommato una sorta di alleato e non un avversario da mettere alle strette o di cui sbarazzarsi. Lo sospetto, non vado oltre, mi ricompongo comunque: perché al momento sono stanco di osservare il mondo e di stare dietro alle mie osservazioni – facendolo come se io fossi altro da me stesso – per meglio catturare il processo che invece non vuol saperne di arrestarsi per farsi osservare con la dovuta calma.

Ritorno dunque in me, ritorno me stesso senza esitare sullo spettacolo del mondo: osservo e basta, osservo e mi distraggo, osservo mentre il mondo procede a velocità diverse e le mie manciate di sensazioni producono i dovuti effetti rassicuranti sul mio corpo. Continuo a stringermi il pizzetto. Sèguito a lisciare e rifare il codino. Persevero nel molleggiare il mio peso sulle gambe. Mi solletico l’incavo interiore del braccio. Tiro su il bordo della maglietta. Io faccio questo e faccio quello mentre gli uccelli, da parte loro, continuano a sembrare immobili intanto che le nuvole si sfilacciano lentamente sotto il mio sguardo e le montagne cominciano a martellare con le loro innumerevoli curve sul lago stesso. Le barchette all’orizzonte si rivelano punti impercettibili che si confondono con la superficie serena dell’acqua: sono puntini sospesi nell’immobilità del blu immenso del mare che le accoglie indifferente. Mare? Semmai lago: il Lago Maggiore. Certo, è un lago e non mi rassegno.

Se passo e ripasso in rassegna l’azione dello sguardo, infatti, mi accorgo che ho tendenza a pensare il lago alla stregua di un vero e proprio mare: un mare vasto e blu in cui tuffarsi e non la superficie di un lago su cui scorrono barchette quasi invisibili all’occhio. Ma va bene lo stesso. Lago o mare che sia, il mio sguardo scivola velocemente qui e lì: dalle barchette minute alla sagoma immensa della montagna, senza soffermarsi più di tanto sulla massa blu sottostante, sull’ordinata macchia di colore, sulla compattezza dissoluta delle sensazioni che mi procura questo momento. Stretto nell’alternanza di piaceri procurati dal lago trasformato in mare nella mia immaginazione, mi chiedo pure se sia effettivamente possibile concepire l’osservazione senza produrre una qualche categorizzazione: per esempio, mare, lago, superficie, profondità, acqua, liquidità, forme, colori, sguardo, tatto, barche, pizzetto e codino, mente e corpo. È necessario dare un nome alle cose per distinguerle, per capirle, per rendersele care, per comunicarle a se stessi, agli altri. D’altronde, non è nemmeno possibile dare un senso all’osservazione se non in associazione alla dimensione cognitiva, emotiva e – pienamente – sensoriale di un soggetto situato nel mondo.

Pur volendolo, pur volendo separarla dal resto, sarebbe mai possibile arrestare l’osservazione – il suo dinamismo – per rifletterci sopra, a piacimento, come fosse un film da riavvolgere dall’esterno, da una comoda cabina di comando? Più che osservare in sé, si dovrebbe dire che si vive: con tutti i sensi, anche quando si pensa di fare altro e non si ha contezza – cognitiva ed emotiva – esplicita del suo ‘avere luogo’ nel tempo e nello spazio. Inesorabilmente e piacevolmente! Io sono all’interno della mia (e altrui) vita: non posso farne a meno, non posso non tenere conto del fatto che l’esistenza ingloba inevitabilmente tutti gli altri aspetti di cui ho parlato. Se si osserva, è perché si vive; se si pensa, è perché si vive. Un punto è assodato allora. La vita dovrebbe essere il punto di partenza di qualsiasi altra riflessione sulle forme di delimitazione del mondo e sulle sue forme di acquisizione. È impossibile sia astrarsi dal mondo sia dagli altri esseri; parimenti, è impossibile astrarsi totalmente dalla vita (se non in quei casi in cui si decide di farla finita).

Io ci rifletto, continuo a rifletterci, anche adesso, mentre scrivo, mentre osservo il lago: per capire cosa vuol dire vivere, a partire anche da me stesso, dal viluppo cognitivo, emotivo e pragmatico che mi qualifica in quanto essere umano rispetto ad altri esseri e cose categorizzati in modi simili o diversi. In antropologia, l’essere umano è stato talvolta «eluso a vantaggio dell’azione, dell’esperienza o della relazione che sono diventate gli oggetti dell’intelligibilità» (Piette 2016: 17). Come ripartire allora dall’individuo, dal senso del vivere, senza ‘annegarlo’ nel mucchio di nozioni totalizzanti, ivi compreso quelle di cultura e di osservazione? Un buon punto di partenza potrebbe consistere nel prendere in conto proprio la commistione di personale e impersonale, vissuto e osservato, ‘proprio’ e ‘altrui’ che trasforma in questo modo la presunta osservazione distaccata del mondo in un’osservazione compartecipata e intrecciata di sé e del mondo: in una parola, nell’esistenza stessa, nel flusso di vita reso per inevitabili discontinuità e raccordi possibili d’ordine temporale e spaziale. Altrimenti detto, antropologicamente parlando, non è sufficiente osservare e isolare il singolare dall’insieme: bisognerebbe, come ribadiscono Augé e Colleyn, porsi direttamente in situazione di costante acquisizione, interrogando al contempo le proprie prospettive esistenziali e le proprie modalità di acquisizione e apprendimento dispiegate nel corso di una vita (Augé, Colleyn 2009).

Per meglio enucleare il senso della cultura, in sostanza, la bilancia della riflessione dovrebbe pendere verso le pratiche quotidiane del vivere, sottolineando i modi secondo cui casualità e progetti s’incontrano e sono realizzati da individui e collettività; la bilancia dovrebbe ugualmente pendere verso quell’intreccio di soggettivazioni e oggettivazioni che sostanzia il nostro incessante divenire interesistenziale. Delimitare il mondo significa al contempo svolgere un’operazione, per quanto sovente implicita, di parallelo intreccio. Non c’è delimitazione senza intreccio: non si può delimitare se non intrecciando. Delimitare significa intrecciare anche – se non soprattutto – nuovi legami, nuove relazioni, nuove osservazioni e sensazioni, cognizioni ed emozioni: come succede a me stesso, in questo momento, mentre osservo parte del lago, mentre cerco una sua improbabile delimitazione che arresti la frenesia dell’agire per uno scopo. Una parte? In parte? Che importa adesso! C’è altro a cui pensare.

Intento a ripensare alle possibili valenze della parte e del tutto, dell’intreccio e dell’intrecciare, del vivere e delimitare, quasi non mi accorgo dell’infittirsi, sempre maggiore, di nuvole in cielo mentre gli sparuti raggi del sole s’immergono placidamente in acqua portando, per simpatia, sollievo alla mia calura. Così, propenso, nel ‘pensier mi fingo’ – immagino – di assistere a un bell’intreccio di elementi del paesaggio non distinto dal mio disordinato sentire e agire, non distinto dal mio vivere del momento nel momento vissuto: senza confini, cullato da una ‘profondissima quiete’. E sono grato allo spettacolo a me offerto senza limiti. Così, spero che l’intreccio di narrazione e descrizione, in conclusione, risulti utile anche ad altri: per un affondo verso intrecci e delimitazioni ulteriori. Se non altro perché sempre d’altro si tratta.

Sceglievo (ph. Montes).

Sceglievo (ph. Montes)

Variazione III. Scegliere, capitare

Poco fa, appena qualche ora fa, ero a Villa Malfitano. Guardavo le sculture disseminate nel parco. Le guardavo e pensavo di fare qualcosa di utile: capire quale mi piacesse di più, una più delle altre, una sulle altre. Così, intento e proteso, le guardavo, andavo da una scultura all’altra, facevo qualche foto, ritornavo sui miei passi per leggere le didascalie e riflettere sul senso da dare al mio presunto agire selettivo. Ma niente da fare, mi affannavo inutilmente. La decisione era stata già presa fin dall’inizio e io non sapevo bene perché: una scultura mi piaceva risolutamente più delle altre. Per dirla tutta, poi, non ero nemmeno d’accordo con la ‘mia’ decisione: anzi io mi opponevo con forza, facevo persino resistenza con costanza a quella che poteva essere una scelta affrettata, poco accorta. Mi opponevo, ma niente da fare. Accennavo a fare un giro e tornavo immancabilmente a una scultura: quella che mi piaceva di più. Ripartivo di nuovo da quella scultura e non sapevo bene cosa pensare. Come facevo a sapere che fosse proprio quella? Come facevo? Non le avevo nemmeno viste tutte.

Inizialmente, mi ero pure posto un obiettivo razionale, lucido: passare le sculture in rassegna una per una, annotare le sensazioni che mi procuravano, fare un elenco di gradimento e infine decidere veramente, con adesione e coscienza. Mi sarò pure posto l’obiettivo, è vero, ma niente da fare. Le cose non andavano nel modo da me previsto. E poi cos’è la coscienza o l’adesione? Qualcosa, in me, al di là di un’apparente coerenza della mia coscienza, mi faceva propendere per quella singola, precisa scultura. Che dire? Io sono più di uno: nel mio ego alberga più d’un ego! Oppure? Oppure, in alternativa, il piacere estetico proviene da un senso di sottrazione dell’essere presente a se stesso in quanto calcolo e presunzione di scelta. Certo, qualcuno dirà che, il mio, era un puro capriccio. Lo si potrebbe dire, ma niente da fare. Il senso estetico non proveniva affatto dal passare in rassegna selettiva ciò che veniva dato in mostra: proveniva invece – lo percepivo – da questa esplosione che sottrae al Sé il suo senso di piena presenza e spinge verso l’oggetto divenuto, per questo stesso effetto di sottrazione, ‘eletto’?

Gli oggetti ci riconoscono, ci scelgono, nel momento stesso in cui siamo spinti verso di loro da questa sottrazione del Sé (un Sé solitamente presuntuoso e, proprio per questo, ostacolato dalla sua stessa presunzione a lasciare agire gli oggetti nei nostri confronti). Sarà veramente così? In mancanza di altra spiegazione mi rimetto a questa ipotesi. Funziona, funziona bene comunque. In ogni caso, devo ammettere francamente che questo è quello che ho pensato a cose fatte, a posteriori. Perché, sul momento, al parco, non sapevo bene cosa fosse, non sapevo cosa pensare: il senso stesso delle parole era svanito e il significato delle cose – quello a cui pensiamo in astratto, fuor di contesto – non procedeva più nel modo consueto, ordinario. Il senso delle parole era svanito nel nulla e, quel che è peggio, io non me ne preoccupavo affatto. Continuavo imperturbabile, privo di senso manifesto e galleggiante, a passeggiare da una scultura all’altra, a scattare qualche foto e tornare alla mia scultura preferita.

Mi capitava (ph. Montes).

Mi capitava (ph. Montes)

Ma le stranezze, oggi, non sono finite qui. D’un tratto, al parco, per seguire il filo dell’ombra e mettermi al riparo del sole, sono scattato in avanti e ho vagabondato senza meta finché mi sono trovato al cospetto di tre panchine poste in fila, ben disposte, l’una accanto all’altra. Sono rimasto a fissarle un momento, immobile, di nuovo sotto i raggi cocenti del sole, ben sapendo che era inutile allontanarsi, porsi al riparo, poiché, ormai, non volevo più andare da nessuna parte. Ero privo di scopo. Ero come paralizzato dalla vischiosità dell’esistere delle panchine, dalla loro presenza ridondante, sofferta, a me offerta. Io ero catturato dalla situazione, incapace di muovermi. Ero catturato e mi sentivo sottilmente trascinato verso le panchine. Ero attirato, ma, a dire il vero, non avevo nessun senso di oppressione o coercizione. Avrei voluto, soltanto, descrivere le panchine; tuttavia, era come se, fuor di me, non trovassi le categorie adatte allo scopo. Niente da fare, niente da dire. Allora, ho scattato la foto. Ed è tutto quel che ho di questo strano vagabondare esistenziale in un parco. Certo, oltre la foto, per tirare l’acqua al mio mulino, potrei pure citare un frammento tratto dalla Nausea di Sartre. Ma chi crederebbe, se lo facessi, che non è stato tutto inventato a partire dalla citazione? Chi crederebbe che non è, il mio racconto, frutto dell’immaginazione? Chi crederebbe che la citazione è soltanto un ricordo intervenuto a posteriori e che io ho effettivamente vissuto questo strano senso dell’esistere che qui riporto tale e quale? Beh, a questo punto è fatta, avendolo detto, non posso fare a meno di citare Sartre, se non altro per onestà intellettuale (sensoriale ed esistenziale): «Se mi avessero domandato che cosa era l’esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose» (Sartre 1948: 172).

In solitudine (ph. Montes).

In solitudine (ph. Montes)

Variazione IV. Constatare, esserci

Non ci sono mai stato. O forse sì, non so bene, non ricordo. Lo constato, è vero; poi, però, me lo rimangio e ci torno su. Allora faccio quattro passi per strada, divago, ci rifletto ancora, ma non si mette bene. No, no, non si mette proprio bene! So solo che è un angolo di Palermo, questo, che mi sembra di non conoscere per niente. Capita: di non riconoscersi, di non riconoscere, di non ritrovarsi. Eppure ci sono, sono io, sono nato a Palermo, sono il solito Stefano. Sono un nativo del luogo. Certo, questo è certo, senz’altro certo, ma capita di nascere da qualche parte e non riconoscersi più nel solito luogo natio. Capita. Tutto ciò che so è che le cose si svolgono talvolta in modo a noi imprevisto, non premeditato, ma si possono raccontare senza tanti fronzoli, in tutta incoscienza, in derapata emotiva, in un niente. Si può raccontare, lo faccio adesso, non ci penso più di tanto, mi sottraggo alla mia responsabilità di individuo – me stesso, in altri contesti – che tutto vorrebbe controllare prima di aprire bocca o di mettere mano alla penna: lascio dunque che l’atto (la sua narrazione) prevalga sul progetto (il calcolo ordinato, pianificato delle cose da dire e fare). Ecco, è andata così, è capitato all’improvviso, mentre passeggiavo, mi era capitato di fermarmi di botto: avevo sentito qualcosa di strano nell’aria; poi, lentamente, molto lentamente, avevo alzato lo sguardo e avevo percepito quei piedi penzolanti dal letto, dietro un balcone, quasi per strada. Qualcuno stava riposando? S’intravedeva, in un angolo di casa, un ventilatore acceso. S’intravedevano alcune camicie: appese ad asciugare su un filo teso tra due sedie. S’intravedevano soltanto. Io sbirciavo e pensavo di non esserci mai stato, avevo in testa questo pensiero fisso. Guardavo quelle camicie e pensavo di non ritrovarmi: in quel posto, in quella strada, in altri tempi a me forse nota.

Capita a volte, in un niente: un senso di straniamento, un distacco dal mondo, un voler essere altrove, altrimenti, qualcun altro. E io? Era, di fatto, come se non ci fossi mai stato in quell’angolo di Palermo: con quel pensiero, con quello scorcio inatteso di realtà, in quell’istante. E allora? Era come se quei piedi, sospesi sul mondo esterno, incerti se appartenere a uno spazio preciso, avessero messo in dubbio la mia appartenenza, la mia nascita, la mia città, la mia stessa prospettiva d’osservatore. È capitato, capita, capiterà ancora. E dunque? Era come se in quel momento avessi azzerato tutto e fossi diventato io stesso un puro passare, più che un individuo in carne e ossa: un transito bell’e buono, un transito realizzato in sé. È capitato, non c’ero mai stato, lo constatavo. Lo dicevo, non ne ero sicuro, ne convenivo: all’imperfetto, non più al presente, perché il presente sfugge e bisogna stargli dietro con i tempi verbali adatti. E intanto, un istante dopo, appena un momento, cambiavo idea: mi arrendevo alla verticalità della sensazione, dello sguardo. Mi arrendevo a un pensiero che veniva a galla da un incavo interiore del mio corpo, sotterraneo e nascosto, liquido e dinamico: un pensiero che fluttuava nell’aria sotto forma di piccolissime percezioni spruzzate a casaccio al mio esterno, senza motivo, goccioline a me solo visibili, goccioline di vapore acqueo in conflitto con il calore già in calo della bella giornata – una lezione, una passeggiata, un caffè, un colore vivace – trascorsa tra parole e movimenti dell’‘io’, tra ricordi scomposti e percetti più assestati.

E dire che, un pizzico di tempo prima, ero ancora tra gli studenti, piacevolmente alle prese con fiumi strutturati di rassicuranti concetti; appena mezz’oretta dopo, invece, ero già in un fiume in piena di passanti impassibili rispetto alla mia incursione stupita, ondivaga come pensiero sorpreso nel cuore di Palermo, al passo che arranca dietro mente e sensazioni. Fiume e incursioni? Mi sentivo – mi sento ancora – adagiato su una redentrice solitudine interiore. Ebbene, sarebbe una buona definizione, questa, del mio stato d’animo: se non pensassi che una definizione è pur sempre una forma di constatazione che ha una sua eccessiva solidità, che ha una verità di fondo a cui fare riferimento e affidarsi. E io mi dimeno, invece, tra la constatazione incosciente e la rivelazione del momento inatteso, tra il piacevole senso di smarrimento concesso dall’immergersi nell’anonima folla per strada e il senso di ovattata solitudine che mi accompagna a volte.

Lo constatavo (ph. Montes).

Lo constatavo (ph. Montes)

La solitudine, inoltre, se presa bene, aiuta talvolta a mescolare piacevolmente percezioni e pensieri, le semplici constatazioni e le più complesse azioni; la solitudine aiuta, persino, a donarsi al piacere del disorientamento che non sa che fare, non sa che dire e forse se ne compiace, si compiace dell’assenza di parola. La solitudine è allora una rinuncia, un venire meno, un azzerarsi? La solitudine spinge a volte a sdraiarsi su una panchina, spinge a osservare lo spazio adiacente: come se non esistesse altro, come se non esistesse che il gesto di sdraiarsi in sé. La solitudine predispone pure a riconsiderare la constatazione, a trasformarla in altro: in vortice di sensazioni, in un rassegnato disagio che scuote dal torpore quotidiano, scuote dall’indaffarato avvicendarsi delle azioni ordinarie. Capita, capita anche a me. Capiterà di nuovo. Una constatazione, quale che sia, si presenta invece a cose fatte: succede qualcosa; qualcuno ne prende atto. Capita a tutti, capita a volte. Se fuori piove e qualcuno lo nota, la constatazione ne è la regolare conseguenza: “sta piovendo”. È successo qualcosa, non rimane altro che questo: dirlo, prenderne atto, passare oltre.

La constatazione può inoltre assumere una connotazione di tristezza o una tonalità negativa, dato che colui il quale constata qualcosa, lo fa a cose fatte, quando non è più possibile far niente per cambiare le carte in tavola. In fondo, chi constata è sempre un attore passivo: può soltanto limitarsi a verificare, a posteriori, ciò che è accaduto. Se qualcosa è accaduto, infatti, è spesso al di fuori della sua volontà. Eppure, ripensandoci, io parlavo di constatazione appena qualche secondo fa e non mi sentivo così passivo, così inerte. La constatazione è una forma di rassegnazione al semplice andazzo delle cose? Constatazione di che poi? Non ricordo nemmeno, a conti fatti, quale fosse il nesso particolare che mi aveva catturato nella trappola del constatazione. E cosa altro è la constatazione – mi chiedo – se non un accertare o riconoscere con sicurezza un fatto, fondandosi su prove, documenti e, perfino, sull’osservazione personale? E io non constatavo affatto, a ben vedere, ma mi adagiavo sul mio stato d’animo: ricorrendo alle parole per rendere questo stato d’animo più chiaro a me stesso. Era, il mio, un misero tentativo d’altronde, lo ammetto: gli stati d’animo fluiscono e la penna che li dovrebbe cogliere su carta rimane sempre indietro. Ed è per questo che, il mio, è un progetto appena accennato, mai realizzato pienamente, in corso d’opera rimaneggiato.

Con le parole (ph. Montes).

Con le parole (ph. Montes)

Pensavo di tradurre i miei sguardi sul mondo in istantanee – trascritte su carta – attraverso constatazioni dirette e congrue. Ora, ripensandoci, più che di constatazioni, parlerei di movimento: soprattutto quello di adagiarsi nella situazione in corso, nella situazione che sto vivendo. Eppure, poco fa, ne ero quasi convinto a un dato momento: pensavo fosse possibile attenersi alla pura, stitica constatazione. Pensavo di lasciare traccia del mio passaggio guardando e trascrivendo constatazioni su un semplice taccuino. Poi, non so cosa è successo, non so proprio, ancora non me lo spiego. L’idea di un mondo articolato in istantanee montate in successione, per iscritto, per asserzioni chiare e dirette, deve aver lasciato il posto alla presenza imperiosa e obliqua della poesia: alla sua bellezza riaffiorata improvvisamente alla mente accogliente. È subentrato – durante la progressione imprevista della mia passeggiata – un debole pensiero, sempre più distinto in seguito, più autonomo, un pensiero separato dalle mie intenzioni manifeste, ragionate e consensuali: il pensiero recondito di una poesia è arrivato con insospettata grazia alla coscienza insipida. Una poesia di Giorgio Caproni, Constatazione (Caproni, 1989, 769), s’è fatta largo nel groviglio del mio spesso rimuginare per contrappunti volteggianti nello spazio e nel tempo:

Non c’ero mai stato
M’accorgo che c’ero nato.

Non è la prima volta. Questa breve poesia di Caproni ha su di me, quando affiora alla mente, uno strano effetto, derivante forse dalla tensione irrisolta in cui si articolano l’essere e il nascere: rimemorandola, agisce su di me, mi spinge a fare altro, mi spinge a stemperare le mie intenzioni, a lasciarmi andare alle sensazioni e situazioni. L’effetto contratto del senso della poesia potrebbe favorevolmente risolversi in una narrazione più ampia – prendendo spunto dalla collezione dei movimenti del situarsi o dai piccoli progetti realizzati persino nel micro-tessuto del passeggiare – che ne interpreta l’andamento semantico secondo un ordine che avrebbe forse una sua coerenza. Mi aiuterebbe, se non altro, a mettere a fronte la constatazione poetica e volutamente instabile di Caproni con il mio continuo situarmi in un luogo natio. Non sarebbe fuor di luogo. Io non sono fuor di me, sono in transito. Sarebbe dunque un’occasione. Ma non è tempo di provarci, oggi. Non me la sento. Semmai, più utilmente, mi rimetto a passeggiare: mi rimetto a osservare liberamente mentre passeggio, lasciandomi distrarre dalle figure del mondo, dirigendomi a casaccio là dove le gambe mi accompagnano casualmente.

Immaginavo (p. Montes).

Immaginavo (p. Montes)

Non è tempo di constatazioni: è infatti tempo di distrazioni per me. Lo constato senza impegno. Lo constato e rimando il lettore alla poesia, alla sua lettura comparativa rispetto a un suo vissuto personale. Lo constato senza dargli il giusto peso all’azione di verificare  o stabilire un qualsiasi senso di verità. Come altrimenti potrei dirlo se non usando questo verbo! A cose fatte, tuttavia, posso confessarlo con più convinzione: a motivarmi non era una vera e propria intenzione iniziale o una semplice descrizione del mondo che si risolve in una constatazione vera e propria, ma un andare verso il (processo di analisi del) mio pensiero in atto. In questo senso, più che un piano d’azione ben chiaro nella mia mente, la mia intenzione – se così possiamo chiamarla ancora, dopo questi gracili e fortuiti tentennamenti – era un «dirigersi verso» (Wittgenstein 1967: 174), era un concedersi al suo movimento instabile: interiore ed esteriore. Sì, qualcuno leggendo queste pagine penserà che, nella forma narrativa di una epifania, ho voluto reinterpretare – clandestinamente, senza argomentarle direttamente – alcune questioni discusse da Austin nel suo famoso testo Come fare cose con le parole. Sì, qualcuno penserà che, inventando una finzione di sana pianta, ho voluto opporre un’idea instabile di epifania a un’idea di stabile constatazione. Forse, qualcuno penserà pure che ho voluto avanzare l’idea che la poesia ha una sua forza illocutoria pari a qualsiasi atto performativo effettivamente realizzato nella vita pratica. Io so soltanto che ho effettivamente vissuto quello che ho narrato e descritto. Per il resto, non so bene. Non sono che un antropologo che si diverte, di tanto in tanto, a raccontare qualche aneddoto della sua vita reale. Che poi realtà e finzione si mescolino, non è certo colpa mia!

Dialoghi Mediterranei, n. 34, novembre 2018
Riferimenti bibliografici
Augé M., Colleyn J.-P., L’anthropologie, Puf, Parigi, 2009
Caproni G., Constatazione, in Poesie 1932-1986, Garzanti, Milano, 1989
Greimas A. J., Dell’imperfezione, trad. di G. Marrone, Sellerio, Palermo, 1988 (1987)
Jullien F., Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, trad. di E. Magno, Feltrinelli, Milano, 2016 (2015)
Leach E., “Ritualization in Man in Relation to Conceptual and Social Development”, in Philosophical Transactions of the Royal Society of London, vol. 251, n. 722, serie B, 1964, 403-408
Nakagawa H., Introduzione alla cultura giapponese. Saggio di antropologia reciproca, trad. di F. Saba Sardi, Bruno Mondadori, Milano, 2006 (2005)
Piette A., Antropologia dell’esistenza, trad. di M. Drouille-Scarpa, Alvisopoli, Venezia, 2016 (2009)
Sartre J.-P., La Nausea, trad. di B. Fonzi, Einaudi, Torino, 1948 (1938)
Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1967 (1953).
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia  all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu,  Tallinn e al Collège International de  Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore  di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone  con sede nell’Università di Tallinn. Ha  pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
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