Francesco Faeta è ormai un maestro conclamato nel panorama degli studi etnoantropologici italiani e tale si riconferma anche con il suo nuovo prezioso volume, La passione secondo Cerveno. Arte, tempo, rito (Ledizioni, Milano 2019). Il sapiente intreccio ermeneutico tra storia e antropologia dell’arte (in una rilettura di Aby Warburg e Alfred Geel) e le riflessioni sul rito inteso come performance (già brillantemente affrontate da Carlo Severi e da Faeta stesso) insistono con efficacia su una re-visione in profondità dello statuto “culto” delle opere d’arte sbalzandolo, oltre le dicotomie estetizzanti e monumentalistiche, nelle trame complesse del rito. Questo metodo di lavoro permette all’autore di ricongiungere aspetti delle scienze umanistiche che per molto tempo si sono tenuti separati, realizzando una forma di olismo culturale che permette oggi di inquadrare le opere d’arte culta all’interno di una complessa azione sincretica che le porta a vivere, oltre lo spazio pubblico e privato, nella performance del rito.
Si tratta, come sottolinea l’autore in premessa con amara ironia, di uno studio démodé rispetto agli indirizzi dominanti nel nostro Paese «dove le cose arrivano tardi e permangono a lungo (in modo da maturare ulteriormente ritardo)». Ritardi e permanenze, tempi lunghi o forse “più che lunghi” per i quali Faeta tratteggia e caldeggia una “etnografia remota”: un metodo familiare a una certa storiografia e «teso ad ascoltare, quasi fossero vive, le voci di ieri», ma trascurato in antropologia «in una epoca di dilagante sincronismo o contemporaneismo (ed egocentrismo)». Trasferire il metodo etnografico tra «le pieghe del tempo», attraverso il sistema comparativo di boassiana memoria, basato «sulla messa in relazione di unità ristrettamente pertinenti» che utilizza le reti e le trame sensibili nei rapporti tra le cose, rivela effettivamente proficui apparentamenti con il metodo indiziario inaugurato da Carlo Ginsburg.
Da qui lo studio e l’analisi degli archivi storici di Cerveno, piccolo centro della Val Camonica, che permettono di mappare i conflitti di potere soggiacenti alla costruzione delle stazioni della Via Crucis realizzate dallo scultore Beniamino Simoni nei primi decenni del Settecento. Un’opera, quella simoniana, maturata attraverso il contatto diretto con i ceti popolari, fuori dagli ambienti delle corti signorili ed ecclesiastiche ove riecheggia «un’eco, forse inconscia, degli umori della valle, del suo apprezzamento per le forme vernacolari [...] generando una koiné peculiare dentro la quale si è definito l’esercizio del dominio e le forme concrete che esso assumeva nella vita quotidiana». Opera che, nel tempo, trasfigura e incarna le istanze identitarie della comunità unitamente ai conflitti e alle passioni patrimoniali che innervano ancora oggi la vita rituale del paese.
In particolare sono «i rapporti intercorrenti tra sistemi festivi, sistemi di immagini e di potere» che assumono qui un ruolo determinante: la Via Crucis di Simoni diviene infatti il modello con il quale costruire la rappresentazione vivente della Passione di Cristo. A Cerveno, la Santa Crus si svolge ogni dieci anni, nel mese di maggio, coinvolgendo più di 150 dei circa 600 abitanti del paese. Fuor di metafora, la messa in scena della Santa Crus “prende le mosse” proprio dal manufatto artistico della Via Crucis simoniana la quale «ha avuto la funzione di nucleo e di motore, più o meno esplicito della sacra rappresentazione».
Si può affermare che la Santa Crus costituisca una “fuoriuscita” dell’opera per le vie del paese ove gli attori assumono le posture, gli abiti e la fisionomia dei personaggi delle immagini simoniniane. Questa mimesis si realizza, intanto, attraverso un recupero “filologico” dei costumi custoditi presso il Museo locale, recupero in cui «le sporgenze fenomeniche profondamente interiorizzate e incorporate sia nei singoli personaggi, sia nei maestri locali che li consigliano e li guidano» conferiscono vera e propria forma alla Sacra rappresentazione, attivando inoltre «la memoria collettiva del manufatto, in apparenza posta in un fondo dimenticato, che si dispiega in tutta la sua forza performativa, dettaglio per dettaglio».
Faeta mette alla prova del campo etnografico le riflessioni del primo Freedberg (quello de Il potere delle immagini) con il quale ha instaurato da tempo un intenso e complesso dialogo intellettuale non esente comunque da critiche, soprattutto in riferimento alla deriva neurobiologica (vedi il dibattito sul numero monografico Storia dell’arte e antropologia della rivista Ricerche di storia dell’arte n. 94 del 2008).
Molte delle questioni teoriche poste in questo volume Faeta le aveva già ampiamente enucleate in lavori precedenti. In questo studio ribalta gli approcci ermeneutici consolidati introducendo la costruzione di regimi emozionali dell’opera d’arte e della perfomance come elemento costitutivo della realtà sociale, che essa stessa contribuisce a forgiare, ribadendo con forza il rapporto osmotico insistente tra costruzione di regimi emozionali dell’opera d’arte, performatività e realtà sociale: «È la realtà sociale che plasma e dà forma e consistenza ai regimi emotivi [...] E le immagini hanno potere perché l’aura estetica di cui sono circonfuse è stata riconosciuta preliminarmente dai gruppi sociali che le condividono».
Il potere dell’’immagine pertanto consiste nell’ordìto di relazioni, passioni e pratiche che «consentono al potere di essere tale, alle immagini di esercitare la loro specifica funzione nel dominio umano, e agli attori sociali di resistere, esperendo lo spazio di una propria autonomia creativa». Questo approccio anti-ontologico può ricordare da vicino le teorie di Nelson Goodman in Languages of Art e in Art in Theory e Art in Action: qui il “Saussure dell’estetica” decostruiva il triangolo semiotico peirciano (indice, icona, simbolo), invertendo il rapporto segno/referente in referente/segno. Ancora in When is art? Goodman mantiene però la nozione di simbolo proprio in relazione all’opera d’arte che per essere considerata tale deve possedere, tra le altre, la capacità di fabbricare un mondo, di farci vedere “oltre e altrimenti”.
Questa peculiare rilevanza del simbolico era già altrove problematizzata da Faeta: così scriveva ne Il santo e l’aquilone. Per un’antropologia dell’immaginario popolare nel secolo XX:
«Una volta assunta l’immagine come fatto culturale, e come oggetto d’analisi culturale, occorre prestare attenzione a che essa non s’identifichi totalmente nel simbolo. Innanzitutto perché l’immagine [...] è ambiguamente simbolo o, se si vuole, è molto più o molto meno che simbolo; poi perché la coincidenza sintagmatica tra significante e significato, particolarmente presente all’interno di alcuni tipi di immagine, determina una loro particolare portata comunicativa. Lo studio antropologico delle immagini, dunque, presuppone quello dei simboli, lo contiene, se ne colloca a monte e a valle, ma non si esaurisce, né può risolversi in esso. La riflessione sulle immagini, sulle loro famiglie, sulle loro segmentazioni, sulle loro radici sociali, sulle loro norme, funzioni e valori tenderà a collocarsi, dunque, con una sua marcata autonomia all’interno dell’antropologia simbolica» (2000: 29).
In questo ultimo lavoro ci restituisce non solo le passioni e le politiche di Cerveno ma soprattutto la problematicità epistemica che una storia e una antropologia dell’immagine non possono permettersi di rubricare nel segno di un “contemporaneismo assoluto”. In questo particolare momento caratterizzato da un diffuso down-grading delle discipline etnoantropologiche dovuto al ritorno di una generalizzata “a-simbolia” (come diceva Barthes per la semiotica) e al quale non si può ingenuamente porre rimedio solo con «l’insalata USA dei cultural studies» (come ha scritto Paolo Fabbri), arte, tempo e rito a Cerveno rammentano ancora un percorso “più lungo” e non meno efficace sulla memoria, la rappresentazione, il simbolico, i sogni, le emozioni e, più di tutte, sullo “statuto inquieto” delle immagini, che creano le nostre quotidianità ordinarie e straordinarie, al quale Faeta continua magistralmente a introdurci.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
_________________________________________________________
Rosario Perricone, insegna Antropologia culturale e Museologia nell’Accademia delle Belle Arti di Palermo. È presidente dell’Associazione per la conservazione delle radizioni popolari e Direttore de Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo. Ha scritto tra l’altro: Il volto del tempo. La ritrattistica nelle culture popolari (2000), I ricordi figurati: foto di famiglia in Sicilia (2006); Oralità dell’immagine. Etnografia visiva nelle comunità rurali siciliane (2018).
_______________________________________________________________