Si fa presto a dire antisemitismo. Sarebbe meglio declinarlo al plurale, così come avviene per l’altra parola, sionismo. Le parole hanno una storia, il loro significato cambia con il passare del tempo e nel mutare delle condizioni sociali, politiche e culturali. Tanto più se si riferiscono a una popolazione, che, da un certo momento in poi della sua storia, è diventato un popolo di migranti, senza più una fissa dimora.
Bruno Segre, a lungo rappresentante in Italia del villaggio di pace ebraico-palestinese Neve Shalom/Wahat al-Salam, fondato nel 1972 da padre Hussar, domenicano di origini ebraiche, egiziano di nascita, amava dire: «Antropologicamente, noi ebrei siamo un gruppo migrante per millenni, generazioni dopo generazioni alla ricerca di lavoro e sicurezza rispetto ai rischi della vita: per trovare un luogo in cui svolgere le due azioni fondamentali, pregare e seppellire i nostri morti. Essere ebrei nel suo nucleo centrale, non è altro che questo» [1]. Tradotto in termini più generali, un’identità ebraica definita una volta per tutte e in modo uniforme è un’astrazione proprio per la storia che gli ebrei hanno conosciuto, in particolare, dalla distruzione del secondo Tempio nel 70 d.C. in avanti. In realtà, non c’era unità d’intenti nemmeno al tempo di Gesù. La mole degli studi accumulatasi sul Gesù ebreo mostra quanto articolata fosse la comunità ebraica ai tempi del Nazareno: tra chi osservava alla lettera i precetti e chi guardava oltre il formalismo, fra chi sognava la ribellione armata contro l’invasore romano e chi praticava forme di ascetismo radicale.
Oggi, come ricorda Gadi Luzzatto Voghera [2], su una popolazione a livello mondiale di circa sedici milioni di persone che s’identificano come ebrei, solo il 10% fa parte di comunità di credenti e praticanti definiti come ortodosse, di osservanti scrupolosi dei precetti della Legge ebraica. Il resto è frammentato tra comunità riformiste, che hanno rivisto il corpus normativo tradizionale, aprendosi alle esigenze di una società moderna [3], comunità conservative e le varie comunità di matrice mistica (hassidismo), anch’esse, a loro volta, differenziate al loro interno, seppur accomunate da un rigido rispetto di tutta la precettistica ebraica.
Nell’Ottocento, si è affermato un ebraismo secolare in Europa, che ha abbracciato le diverse ideologie politiche del tempo: dal nazionalismo al socialismo, dal liberalismo al comunismo. Insomma, da qualsivoglia punto di osservazione (religioso, culturale e politico) si osserva la realtà degli ebrei, non è semplice definire quale sia l’identità ebraica, come se fosse un abito su misura per tutti. La diversità coesiste con l’aspirazione all’unità. Del resto, con la distruzione del Tempio, veniva a mancare istituzionalmente l’autorità religiosa e politica del popolo ebraico. Il ceto dei funzionari sacerdotali non aveva più un ruolo riconosciuto. La figura del rabbino non è assimilabile a quella del sacerdote, così come sarà diversa la figura del rebbe, vero leader carismatico, che emergerà in ambiente hassidico nel XVII secolo soprattutto nel Centro-est d’Europa. L’autorità di quest’ultimo era ed è indiscussa. Il hassidismo è, tuttavia, una corrente minoritaria, dunque, tale figura è l’eccezione che conferma la regola: l’assenza di un’istituzione che possa definire una volta per tutte ciò che è ortodosso o meno.
Il pluralismo degli orientamenti e delle pratiche religiose tra gli ebrei è stato e continua a essere il modo in cui, visto dall’interno, l’ebraismo è al tempo stesso unità e differenziazione, in analogia, del resto, con altre religioni mondiali, come il cristianesimo e l’islam. L’assolutezza convive e si esprime nel relativo, in multiformi modi che vanno dalle diverse maniere d’intendere e di fare esperienza dell’assoluto (vie mistiche, ascetiche o di rispetto delle pratiche religiose tradizionali) alla varietà dei rituali per celebrare il sentimento di venerazione del Signore sino alla differenziazione delle forme d’organizzazione (dalle più allentate a quelle più rigide, dall’istituzione alla setta). Tale morfologia socio-religiosa ha caratterizzato sino all’epoca moderna la realtà della diaspora ebraica, accentuata dall’adattamento sociale, che esse hanno spontaneamente cercato con il passare delle generazioni, alle culture locali, dove le comunità si sono insediate, nonostante i ghetti. La differenza tra ebrei sefarditi (di origine iberica), per esempio, rispetto agli askenaziti (del Centro Europa) non riguarda aspetti strettamente religiosi (dottrinari o di prassi rituale). Riflette piuttosto le peculiarità dei diversi ambienti culturali in cui le rispettive comunità si sono inserite, convivendo con persone che parlavano l’arabo o il berbero oppure il tedesco. In alcuni casi, si è formata una nuova lingua che ha innestato la lingua ebraica su quella tedesca: l’yiddish è l’esempio più noto di tale contaminazione creativa, tra culture diverse. Si parlava ed era capita in un ben delimitato territorio da una parte delle comunità ebraiche, ma non era certo la lingua di tutti gli ebrei che abitavano altrove.
Alla creazione di una lingua comune, parlata e scritta, contribuirà un linguista, Eliezer Ben Yehuda (1958-1922), un intellettuale di origini lituane, militante del movimento sionista. A lui si deve il primo vocabolario moderno della lingua ebraica, assecondando una delle aspirazioni del sionismo. Per i leader di questo movimento, infatti, non era sufficiente avere una patria per ricomporre la diaspora ebraica; si sentiva la necessità di una lingua comune, fedele alle matrici dell’ebraico biblico e, allo stesso tempo, flessibile nell’adattarsi alle tante lingue moderne parlate dagli ebrei della diaspora. Non è di poco conto ricordare come tale impresa avviata da Yehuda sia stata subito contestata dai gruppi di ebrei della stretta osservanza: per loro la lingua ebraica è sacra, per cui non può essere usata se non nel ristretto ambito dello studio delle Bibbia e della preghiera. Theodor Herzel, leader del sionismo, pensava non a caso che nel futuro Stato d’Israele sarebbe stato meglio adottare come idioma nazionale una lingua moderna; l’ebraico era lingua morta per lui, degna di essere custodita nel campo degli studi talmudici e nella liturgia, ma non certo a essere elevata a strumento di comunicazione dei cittadini della futura nazione. Ciò che la religione aveva differenziato nel corso del tempo, doveva essere ricomposto attorno all’idea di un popolo, una terra, una lingua.
In principio, il sionismo è una variante del moderno nazionalismo, che ha ispirato movimenti di liberazione nazionale in Europa, compreso il nostro Risorgimento. Come la storia del Risorgimento ci ha mostrato, anche il sionismo aveva più anime. Si trattava di un movimento politico ideologicamente composito, plurale, dialetticamente diviso tra socialisti e liberali, nazionalisti integrali e ortodossi intransigenti. Tale pluralità sino ai giorni nostri ha comportato polarizzazioni e conflitti, a volte aspri, e, soprattutto, una continua ricerca di mediazione che rendesse possibile dapprima tenere unito il movimento e, poi, quando nel 1948 fu fondato lo Stato d’Israele, di trovare il punto di equilibrio, sistemico, tra opposte visioni politiche e religiose.
Il fatto che il giovane Stato sia nato senza una Costituzione non è casuale. Tra chi parlava di Stato degli ebrei e chi, al contrario, evocava lo Stato ebraico passava una linea che marcava una differente visione politica: per il primo valeva il principio della separazione tra sfera politica e sfera religiosa, tra Stato e Sinagoga (qui intesa come simbolo del potere religioso); per il secondo, la fonte di legittimazione del nuovo Stato non poteva non essere la Legge ebraica. Si uscì allora dall’impasse con la legge dello status quo: su alcune materie lo Stato riconosceva la competenza esclusiva dei tribunali rabbinici (in particolare in materia di matrimonio, divorzio, filiazione ed eredità), l’esenzione dal servizio militare di quanti sceglievano di frequentare le scuole rabbiniche dedicandosi a tempo pieno allo studio dei testi sacri e il rispetto dello shabbat.
Trovato il compromesso, ancora oggi ampiamente funzionante, una minoranza di ebrei della diaspora dichiarò che non avrebbe mai messo piede in Israele, perché la nuova creatura politica era per loro nata morta: era, dicevano, uno Stato empio, non fondato in ultima istanza sulla legge divina. Tali gruppi appartenevano soprattutto alla galassia delle comunità hassidiche di stretta osservanza, sopravvissute alla Shoah, sparse tra l’Europa del Centro-Est e gli Stati Uniti d’America. Si sono formati già negli anni Trenta, alle prime avvisaglie del progetto di fondazione dello Stato d’Israele, persino piccoli gruppi di ebrei dichiaratamente antisionisti [4]. Alcuni di tali formazioni cambieranno atteggiamento solo dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, che sarà da loro interpretata come un segno dei tempi ultimi, presagio dell’avvento del Messia. La prova empirica della pienezza dei tempi era data dalla possibilità a portata di mano di ricomporre i confini biblici di Eretz Israel, la Terra Promessa. Una formidabile spinta messianica che animerà il movimento Gush Emunim (Il Blocco dei credenti), dei ferventi pionieri che inizieranno a costruire dal 1974 gli insediamenti nei territori occupati in Cisgiordania [5].
Anche nel caso del sionismo e dell’antisionismo, dunque, vale la pena parlarne al plurale per evitare semplificazioni utili solo alla polemica politica. Così come, farne la storia; solo in tal modo, si colgono le variazioni sul tema che differenti attori sociali nello scorrere del tempo hanno proposto. Per esempio, nel 1948 l’Unione sovietica riconosce prontamente lo Stato d’Israele, seguendo quanto avevano già fatto gli Stati Uniti d’America. Le classi dirigenti sovietiche avevano ancora viva la memoria della Shoah e della guerra contro il nazismo. Tuttavia, qualche anno dopo, l’atteggiamento politico nei confronti di Israele mutò; la stampa di regime cominciò a parlare del nuovo Stato come espressione dell’imperialismo USA nella regione mediorientale e di neocolonialismo, temi che sono tornati vigorosamente alla ribalta dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 a inermi giovani che partecipano a un rave party. Visto da Mosca il sionismo entrerà a far parte della nuova grammatica politica della Guerra Fredda: senza particolare originalità, la parola sionismo riattualizzerà così il mito di un complotto ebraico-massone di conquista del mondo, narrato nei Protocolli dei Savi di Sion, un falso, opera della polizia segreta zarista del 1903. Un mito duro a morire; se ne parla ancora oggi, quando, per esempio, qualcuno evoca la figura di Soros o della potente lobby ebraica americana. Se il sionismo è, in ogni caso, una corrente ideologica moderna, anche l’antisionismo deve essere considerato tale, espressione antagonista, di pensiero e azione, che, prima ancora che nel mondo arabo, ha caratterizzato anche la storia stessa di movimenti del mondo ebraico.
L’antisionismo è cosa diversa dall’antisemitismo. Quest’ultimo è una forma di pregiudizio che ha una lunga storia alle spalle, mentre l’antisionismo è l’espressione moderna della dialettica politica, tra opposte visioni ideologiche e schieramenti geopolitici. L’antisionismo copre una gamma di atteggiamenti critici nei confronti della formazione e dell’evoluzione dello Stato israeliano: da chi lo contesta sin dalle sue origini, quando ancora era un sogno o un abbozzo di progetto politico a quanti si limitano a criticare le scelte che le classi dirigenti israeliane hanno compiuto nella ricerca di un’equa soluzione della questione palestinese sino alla volontà proclamata dai movimenti di lotta armata d’ispirazione islamica che mirano alla distruzione dello Stato d’Israele (in sintonia con il maggiore sponsor geopolitico come la Repubblica islamica d’Iran). Lungo tale fronte di critica possono collocarsi, con posture ideologiche e forme di azione le più diverse (dalle armi della critica alla critica delle armi), ebrei e non ebrei, chi ha a cuore il destino di Israele e chi, pur riconoscendo lo Stato d’Israele, appoggia le richieste dei palestinesi all’autodeterminazione, chi vuole la distruzione dello Stato sionista e chi cerca una via d’uscita alla soluzione del lunghissimo conflitto, vagheggiando l’ipotesi dei due popoli e due Stati o, ancor più utopico, di un unico Stato binazionale.
Tra Yigal Amin, l’assassinio di Rabin e Ysrael Dovid Weiss, l’attuale portavoce del Neturei Karta, ci sono evidenti differenze: il primo, è un ultra-sionista religioso che ritiene di aver fatto la cosa giusta uccidendo nel 1995 l’autore degli accordi di Oslo, che avrebbero consegnato un lembo della Terra santa al nemico palestinese; il secondo è un antisionista dichiarato, che in occasione della morte di Arafat, organizzerà a Parigi una veglia di preghiera per il leader palestinese.
Mettere in evidenza gli errori dei governi israeliani non può essere classificato tout court come espressione di antisemitismo. Per molti aspetti, quest’ultima parola ha una storia molto più lunga del sionismo, non fosse altro perché, almeno in Europa, si collega alla semantica dell’antigiudaismo che è una vera e propria categoria dello spirito elaborata dalla teologia cattolica, categoria messa in discussione in epoca recente, dal Concilio Vaticano II [6]. Negli anni Sessanta, nel cattolicesimo europeo si volta pagina e si inizia a scriverne una nuova nei rapporti tra ebrei e cristiani. Alludo all’esperienza del dialogo ebraico-cristiano [7], che, nel respiro lungo della storia, rappresenta un primo granello di saggezza rispetto alla mole delle incomprensioni, stereotipi, avversioni e persecuzioni riversate addosso agli ebrei sin dalla formazione della prima Grande Chiesa cristiana (II-IV secolo) sino all’istituzionalizzazione dei quartieri-ghetto a loro riservati per volere. L’avversione contro gli ebrei attraversa tutta la storia del cristianesimo. Tale sentimento si è nutrito di convinzioni ben temperate e rappresentazioni sociali diffuse, per cui non c’è da stupirsi che, anche quando l’epoca della segregazione è terminata in Europa nell’Ottocento, l’antigiudaismo religioso dei cristiani abbia ritrovato nell’antisemitismo dichiarato dei regimi totalitari di massa del Novecento abiti del cuore e stereotipi latenti nella mentalità collettiva: gli ebrei diventavano così un’etnia estranea, minacciosa per l’idea stessa di una nazione pura, espressione di una razza superiore, che il nazismo e il fascismo esalteranno.
Quando Netanyahu afferma che la richiesta di mandato di arresto emessa dal Tribunale Penale Internazionale (International Criminal Court con sede all’Aia [8]) per sospetto di crimini di guerra (non si parla di genocidio) è un atto di antisemitismo, mi sembra che egli usi tale parola in modo improprio. La Corte dell’Aia ha aperto un fascicolo per verificare se sia da parte di Israele, nella persona del suo primo Ministro e nel ministro della Difesa (Gallant) sia da parte di Hamas, nelle persone dei leader, che nel frattempo sono stati quasi tutti uccisi, siano stati compiuti crimini di guerra. Il portavoce della Corte, di fronte alle imbarazzate prese di posizioni di diversi leader politici europei (da chi apertamente si rifiuta di eseguire il mandato d’arresto a chi ha affermato, che pur ritenendo sbagliata la richiesta della Corte e l’ipotesi di reato sottesa, dovrà attenersi alla disposizione perché l’istituzione è nata su basi pattizie e, dunque, pacta sunt servanda), ha dichiarato che i mandati potrebbero essere revocati se il governo israeliano avvierà un’inchiesta approfondita sull’ipotesi di crimini commessi durante la guerra di Gaza. Per Netanyahu, del resto, anche l’ONU è diventato una “palude di bile antisemita” (discorso all’assemblea generale del settembre 2024, quando ha mostrato le cartine con gli Stati arabi buoni e quelli cattivi). Così facendo ha svuotato di senso la parola stessa.
C’è chi pregiudizialmente giudica Israele uno Stato neocolonialista impiantato nel cuore del Medioriente e nega il suo diritto a esistere, definendolo un nemico che si fa scudo della propria identità religiosa e culturale per opprimere il popolo palestinese. C’è chi, pur non nutrendo alcun sentimenti di avversione antiebraico e riconoscendo a Israele il diritto di difendersi da chi dichiaratamente lo vuole cancellare dalla carta geografica (da Hamas agli Hezbollah sino al regime degli ayatollah in Iran) pensa che il blocco dei partiti di centro-destra, che hanno dominato la scena politica israeliana per un trentennio (Netanyahu, era stato già primo ministro dal 1996 al 1999, per poi tornare a esserlo dal 2009 a oggi) abbia compiuto scelte tali da compromettere qualsiasi ipotesi di soluzione pacifica del conflitto con i palestinesi, almeno con quanti non si riconoscono in Hamas e nel progetto politico-religioso di cui si fa interprete quest’ultimo movimento e che, in parte, ha cercato di mettere in pratica nella medina di Gaza [9].
Lo spirito del polemos, quando soffia, spazza via le mezze misure, spinge gli elementi che incontra ad ammucchiarsi gli uni contro gli altri. Fuori di metafora, la guerra si combatte sui campi di battaglia, ma prima ancora nelle menti delle persone che sono coinvolte. Porta alle estreme conseguenze la logica amico-nemico, produce la brutale semplificazione delle identità individuali e collettive degli opposti schieramenti. Riduce violentemente la complessità delle multiple identità che nella vita quotidiana le persone imparano a distinguere e con le quali si adattano a convivere ordinariamente. Usare, dunque, al singolare formule come quella dell’antisemitismo o del sionismo e dell’antisionismo è una deformazione della realtà sociale che lo spirito del polemos favorisce e acuisce. Sforzarsi di evitarlo è già un atto di resistenza alla deriva violenta della guerra [10].
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] In B. Salvarani, Segre. Io ebreo tra Kafka e Isaia, in “Avvenire”, 7 agosto 2010. Di Salvarani si veda anche Un percorso difficile anche per Dio: sul futuro del dialogo cristiano-ebraico, Cantalupa (TO), Effatà 2024.
[2] G. Luzzatto Voghera, Sugli ebrei, Torino, Bollati Boringhieri 2024: 13. Per un quadro più analitico rinvio a S. Della Pergola, World Jewish Population 2020, in A. Dashefsky and I. Sheskin (eds.), American Jewish Year Book 2020, Cham, Springer, 2020: 273-320. Dei circa 16 milioni di ebrei nel mondo sei milioni e settecentomila risiedono in Israele, altri sei milioni in Nord America, mentre nell’Unione Europea sono rimaste meno di ottocentomila persone (cui vanno aggiunti i trecentomila che vivono in UK). Nei Paesi post-sovietici, infine, la presenza ebraica si è ridotta a trecentocinquantamila unità.
[3] Dal rabbinato femminile, che è stato accolto negli anni Ottanta, alla revisione del principio matrilineare (sono ebrei anche i figli di padre ebreo e non solo di madre ebrea) sino al riconoscimento dei diritti delle persone di orientamento omosessuale, ammettendo forme di unioni civili.
[4] Il caso più noto è quello del Neturei Karta (letteralmente “I guardiani della città”), gruppo fondato nel 1938 a Gerusalemme che ha sempre sostenuto l’incompatibilità tra sionismo e giudaismo, sulla base di un’ermeneutica dei testi sacri, secondo cui la fondazione di un Stato ebraico nel tempo dell’esilio – prima dell’arrivo del Messia – è un’offesa all’Altissimo. Solo Lui può donare la terra al Suo popolo. La terra dello Stato d’Israele appartiene a coloro che l’hanno da sempre abitata, cioè arabi, ebrei, palestinesi, che hanno convissuto tra loro per secoli. Spesso i militanti del gruppo hanno manifestato a fianco dei palestinesi. Per un approfondimento si veda R. Guolo, Terra e redenzione, Milano, Guerini e Associati 1997 e E. Pace, Religioni in guerra, Roma, Castelvecchi 2024.
[5] E. Pace, Movimenti messianici ebraici e sacralizzazione della terra, “ Ricerche di Storia Sociale e Religiosa”, 2020, 92: 27-53.
[6] Mi riferisco al documento Nostra Aetate del 1965, in cui i Padri conciliari dedicano un’ampia parte al rapporto con l’ebraismo. Al punto 4 si legge: “Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e a ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo…Se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo”.
[7] O cristiano-ebraico, come preferiva dire un animatore di tali esperienze, Paolo De Benedetti, Se così si può dire, Bologna, EDB 2013, alludendo al fatto che era la Chiesa cattolica che, attraverso il dialogo con i “fratelli maggiori”, gli ebrei, rifletteva su sé stessa: sul perché e come avesse rimosso il pensiero delle radici ebraiche del cristianesimo e se, così facendo, non avesse contribuito direttamente, in certi momenti storici, indirettamente in altri, a segregare gli ebrei, che non avevano riconosciuto Gesù e anzi accusandoli di averlo condannato a morte. Sulla complessa vicenda del dialogo del dialogo ebraico-cristiano rinvio a R. Fabris, Dall’antigiudaismo religioso all’antisemitismo contemporaneo, in “Religioni e Scuola”, 1990, 6: 24-38. Sull’antigiudaismo si veda, inoltre, P, Stefani, L’antigiudaismo, storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza 2004.
[8] Diversamente dalla Corte Internazionale di Giustizia, che è un organismo dell’ONU, il Tribunale dell’Aia è stato istituito da un trattato internazionale siglato nel 1998, firmato e ratificato da 123 Paesi, più altri 32 che non l’hanno ancora ratificato (tra questi: Israele, Russia e USA). La Corte di Giustizia dell’ONU è stata chiamata dallo Stato del Sud Africa a pronunciarsi sul reato di genocidio di cui si sarebbe macchiato lo Stato d’Israele a Gaza. La Corte ha rilevato che esistono sufficienti indizi per proseguire l’indagine, non ancora chiusa.
[9] P. Caridi, Hamas, Milano, Feltrinelli 2023 e I. Papé, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, Roma, Fazi, 2022.
[10] In questo senso faccio mie le sagge parole di Gadi Luzzatto Voghera, Sugli ebrei, cit.: 11: «l’antisemitismo non sopporta la diversità. L’ebreo (declinato al maschile, singolare o plurale che sia) deve essere sempre e collettivamente ricco, aspira a controllare il mondo in varie forme…è malevole e infido nel comportamento, è solidale all’interno del suo gruppo. Queste caratteristiche negative sono collettive e fisse nello spazio e nel tempo. Non mutano. Gli ebrei sono sempre stati così. Ma non è così. Questa rappresentazione è falsa. Nella loro plurimillenaria storia gli ebrei sono stati e sono molte altre cose».
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Enzo Pace, è stato professore ordinario di sociologia e sociologia delle religioni all’Università di Padova. Directeur d’études invité all’EHESS (Parigi), è stato Presidente dell’International Society for the Sociology of Religion (ISSR). Ha istituito e diretto il Master sugli studi sull’islam europeo e ha tenuto il corso Islam and Human Rights all’European Master’s Programme in Human Rights and Democratisation. Ha tenuto corsi nell’ambito del programma Erasmus Teaching Staff Mobility presso le Università di Eskishehir (Turchia) (2010 e 2012), Porto (2009), Complutense di Madrid (2008), Jagiellonia di Cracovia (2007). Collabora con le riviste Archives de Sciences Sociales des Religions, Social Compass, Socijalna Ekologija, Horizontes Antropologicos, Religiologiques e Religioni & Società. Co-editor della Annual review of the Socioklogy of Religion, edito dalla Brill, Leiden-Boston, è autore di numerosi studi. Tra le recenti pubblicazioni si segnalano: Cristianesimo extra-large (EDB, 2018) e Introduzione alla sociologia delle religioni (Carocci, 2021, nuova edizione); Religioni in guerra (Castelvecchi, 2024)
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