«Mi dissero “vai”. Io ci credevo ad un mondo fratello, alla vita…Mi dissero “vai”, questa sarà la tua battaglia, combattila anche per noi, tu andrai per mare, non temere il mare di cui siamo figli anche se nati tra due sponde! Ed io salpai: l’anima ancora fra le mani, ed un sacchetto di semi da germogliare nella terra che amorevolmente avrei vangato al di là del nostro mare» [1].
Nessuno viene al mondo dotato di una proprietà territoriale giuridica, nessuno decide il luogo in cui nascere, eppure tutti siamo legati alla terra che ci ha dato i natali o li ha dati ai nostri genitori, attraverso una sorta di atavico sentimento ereditario. “È il mio/nostro paese”, si dice, quell’identificazione geografico-culturale di cui abbiamo bisogno per sentirci parte di un tutto globale. L’ambiente da sempre ha avuto un’influenza fondamentale nello sviluppo delle attività cerebrali dell’uomo e nelle sue capacità di relazionarsi con il mondo esterno, un mondo che non è da intendere esclusivamente nella sua forma naturale e geofisica, ma in particolare nella sua complessità socio-culturale fatta di mappe cognitive e relazionali.
In una società sempre più globalizzata e caratterizzata da continui spostamenti, moltissime barriere si interpongono se non alla libera circolazione delle merci, alla libera circolazione degli individui, soprattutto se moventi da quei contesti in cui trascorrere la propria esistenza nel villaggio, nel paese o nella città che si riconosce come la propria “casa”, diventa impossibile a causa di violenze, guerre, aberrazioni terroristiche, burocrazie, accordi politici che demoliscono ogni senso di umanità civile e morale. Come scrive Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, «oggi l’assurdo si verifica sotto gli occhi di tutti. Con globalizzata indifferenza, l’Europa pretende di “rimandare a casa” chi non risulta di nazionalità siriana, irachena o somala. È la pretesa di sentenziare vita o morte di un individuo in funzione del teorico passaporto in suo possesso. Se a chiedere aiuto è una persona proveniente da un Paese che le Nazioni Unite riconoscono in guerra, gli si offre asilo e protezione. Se a farlo è una persona che fugge dai bombardamenti che investono la propria casa e uccidono entrambi i genitori, e questo paese non è sull’elenco “vittime privilegiate”, gli si dice di ritornare a casa. Ma quale casa?» [2].
Negli ultimi anni il nostro Paese ha sperimentato una forte intensificazione del fenomeno migratorio poiché le gravi crisi politiche e umanitarie causate dalle guerre, hanno incrementato il grande movimento di profughi e richiedenti asilo che arrivano ogni giorno sulla costa meridionale del Paese quando, giungendo all’ultima tappa dell’estenuante percorso che li porterà nella tanto agognata Italia, sopravvivono alla drammatica traversata in mare. La Sicilia, infatti, per la sua naturale posizione geografica al centro del Mediterraneo, rappresenta l’estremo confine meridionale italiano ed europeo e facilita lo spostamento e l’approdo di un flusso ormai quasi ininterrotto di persone. Nell’interpretazione del fenomeno migratorio, però, il sud è stato a lungo rappresentato come un luogo di transito e di smistamento dei flussi migratori verso il Nord del Paese o verso altre regioni d’Europa, un’interpretazione in parte statisticamente corretta, ma che risulta troppo riduttiva per comprendere le dinamiche contemporanee transnazionali caratterizzate da una maggiore complessità con implicazioni locali e globali.
Per il migrante che cerca di fuggire dall’orrore dell’uomo sull’uomo, di lasciarsi alle spalle morte, dolore, violenza, quello intrapreso non è un semplice viaggio. Negli attuali contesti migratori la fuga scaturisce da un istinto innato nel genere umano: l’autoconservazione, il desiderio della vita nel rischio consapevole della morte. È una scelta attiva e ponderata tra il subire passivamente e sottomettersi al potere del più forte sul più debole o decidere di essere fautori della propria esistenza. È, come ormai sappiamo, il viaggio che segnerà la vittoria della vita sulla morte o viceversa.
Secondo i dati resi disponibili dal Ministero dell’Interno a Save the Children e pubblicati nel Dossier statistico immigrazione 2015, «dal 1º gennaio al 31 agosto 2015 sono arrivati in Italia via mare 116.149 migranti, di cui 11.425 minori, per la maggior parte non accompagnati (8.255), partiti dalla Libia, e originari dell’Eritrea (2.421), della Somalia (935), della Nigeria (649) e del Gambia (624)»[3]. I minori accompagnati giunti in Europa nel 2014 erano poco più di 8.000 e la loro significativa diminuzione nel 2015 sarebbe da attribuire ad un cambio di rotta dei siriani, che raggiungono l’Italia soprattutto per via terra. La situazione è ulteriormente complicata dai quotidiani cambiamenti in materia di politiche migratorie internazionali e dalle disperate condizioni di coloro che rimangono bloccati con la forza nei campi di transito lungo la cosiddetta rotta dei Balcani. Infatti, l’aumento dei minori non accompagnati è anche la conseguenza delle politiche d’accoglienza adottate dall’UE che complicano l’ingresso degli adulti, spingendo le famiglie a puntare sui figli minorenni e sulle loro maggiori possibilità di essere accolti. «La classe d’età di gran lunga più numerosa rimane quella compresa tra i 16 e i 17 anni, che raggiunge circa l’80%. È però in allarmante crescita quella che va dai 7 ai 15 anni. Si conferma l’assoluta preponderanza di maschi, anche se dall’Africa giungono sempre più ragazze»[4].
I minori stranieri non accompagnati sono l’elemento più debole e vulnerabile del fenomeno migratorio che stiamo vivendo, il perno attorno al quale gravitano gli interessi morbosi delle organizzazioni criminali locali e internazionali, detentori delle redini di una tratta di esseri umani e di uno schiavismo mai estinti, per cui manca non solo un adeguato sistema di prevenzione, protezione e assistenza nei confronti delle vittime, ma anche una strategia e un piano d’azione transnazionale che individui, sanzioni e condanni con rapidità ed efficacia i trafficanti e quanti commettono il crimine di sfruttare e usare uomini, donne e bambini, in violazione di quei diritti umani di cui il “mondo civile” tanto si vanta. Le violenze e gli abusi a cui sono sottoposti i migranti nei Paesi di transito da parte di aguzzini senza scrupoli che speculano sulla pelle degli indifesi, anche dei più piccoli, ci riportano alla memoria le torture e le condizioni di vita, lette sui libri o visti nei film, degli schiavi africani che venivano deportati in America o di tutti i perseguitati finiti nei lager e nei gulag durante la seconda guerra mondiale e oltre, in un imperturbabile circuito che si ripete storicamente senza fine. I minori, più degli altri migranti, sfruttati e abusati in cambio del denaro necessario a compiere la traversata verso l’Europa, giungono in Italia in condizioni psicologiche e fisiche sempre più critiche: denutriti, spaventati, allo stremo delle forze mentali e corporali. «La drammatica conferma di ciò è stata la terribile morte di un ragazzo somalo, di soli 15 anni, avvenuta, a bordo dell’imbarcazione su cui viaggiava nel disperato tentativo di raggiungere l’Europa, in conseguenza delle violente percosse subite in Libia, dove era stato costretto a lavorare pesantemente, senza cibo né acqua» [5]. Se poi ad emigrare è una minorenne la percentuale di rischio di abusi, stupri, violenze sessuali, di finire nel giro della prostituzione, aumenta sensibilmente, insieme a tutte le sue implicazioni. Molte vengono fatte giungere in Italia o altri Paesi dell’Europa con l’inganno e, sapientemente circuite, finiscono col vedere nella prostituzione l’unica ed indispensabile fonte di guadagno possibile.
Il minore straniero non accompagnato, sovente ridotto alla sigla MSNA – com’è comune alla succinta ed asoggettistica terminologia mediatica a cui da tempo ci hanno abituati – secondo la legislazione vigente è il minore che non è cittadino italiano o europeo, che non ha presentato domanda di asilo e si trova per questo nel territorio di uno Stato “straniero”, senza nessun tipo di assistenza e/o tutela da parte di adulti. Si tratta comunque di individui per cui la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ha sancito il diritto all’accoglienza e alla protezione sulla base di un controverso e per certi versi indiretto principio di inespellibilità.
Sono figli del mondo che il mondo rifiuta, l’unica speranza di famiglie diseredate dall’umanità, dimenticate, lasciate in balìa di un destino crudele, nate nel posto sbagliato. Cresciuti tra gli orrori di questo mondo, tra un campo profughi e l’altro, in mezzo a infiniti conflitti, nella necessaria indifferenza della morte che si produce intorno, il loro viaggio diventa metafora materiale di un rito di iniziazione e di transizione, del passaggio cioè dal bambino all’adulto chiamato a farsi carico molto spesso delle esigenze della propria famiglia che sulla sua riuscita lavorativa ha puntato tutto. «A quattordici anni ero già uomo. Avevo bruciato le tappe e attraversato tutte le linee di confine tra l’essere un bambino, un adolescente, un giovane e mi accorgevo di vedere la realtà con occhi diversi»[6], dice Mohammed, fuggito dalla Costa d’Avorio all’età di nove anni.
La riuscita del viaggio e dell’inserimento lavorativo – spesso purtroppo nell’ambito del mercato nero a cui è più facile e veloce accedere – è un evento importante tanto per il minore che giunge in Italia, quanto per il gruppo familiare che ha lasciato nel Paese di origine (e forse per quest’ultimo lo è ancora di più), poiché nella maggior parte dei casi è alla base delle ragioni che hanno spinto il minore ad emigrare; cioè dai soldi guadagnati e inviati dipendono il sostentamento della famiglia e la restituzione del debito contratto per partire. Questo tipo di migrazione e tutte le sofferenze che si porta dietro, mettono in luce non soltanto le condizioni drammatiche ai limiti del possibile, di miseria, povertà, guerra, mancanza di istruzione e di diritti in cui è costretta a vivere una buona fetta della popolazione mondiale e in particolare i bambini, ma anche un modo di concepire la vita, l’infanzia, l’adolescenza, il rapporto familiare e filiale che è totalmente antitetico ai parametri morali occidentali. «Perché l’erranza è, anche e forse soprattutto per i bambini, luogo e occasione di trasformazioni, che prendono a volte la forma di inversioni dei ruoli familiari tradizionali: per esempio “il maschio forte che parte non è il padre, ma il giovanissimo figlio maschio”. Certo, i bambini mandati allo sbaraglio disorientano i nostri modi di rappresentare i diritti e i doveri dei minori»[7], ci obbligano a rivedere l’applicazione di diritti promulgati come internazionali, come i diritti dell’infanzia, che in realtà rimangono sconosciuti, negati, violati. Ci obbligano anche, però, a conoscere le voci e le storie di questi piccoli ma grandi protagonisti della storia in costruzione attorno a noi, sondarne i contesti e i dolori vissuti, necessari per risalire alla conoscenza di scenari che immaginiamo e vediamo filtrati dai reportage, ma non viviamo. Abbiamo incontrato un adolescente giunto in Sicilia da pochi mesi.
M. ha sedici anni, anche se basta parlargli qualche minuto per rendersi conto di quanto sia già adulto; è appassionato di calcio e sussulta quando gli facciamo il nome del suo famoso compatriota Kevin Constant – calciatore nato in Francia e naturalizzato guineano – un idolo per tutti i giovani guineani. Il viaggio di M. ha inizio da un villaggio della regione delle foreste di N’zérékoré, la seconda città della Guinea e capoluogo dell’omonima regione, situata nell’estremo sud-est del Paese, negli ultimi anni diventata meta di molti rifugiati provenienti dai confinanti Stati della Liberia, della Sierra Leone e della Costa d’Avorio. È un villaggio che vive quella che M. definisce una “guerra etnica periodica”, cioè che alterna imprevedibili periodi di stasi ad altri di guerriglia, tra due gruppi etnici rivali: i Koniaké – nel quale si riconosce la famiglia di M. – di religione islamica (appartenente al più grande gruppo dei mandingo o malinké che costituiscono il 26% della popolazione in Guinea) e i Guerzè, perlopiù di religione cristiana e animista (costituiscono il 4,8% circa della popolazione guineana e derivano dal più grande gruppo etnico della Liberia, conosciuto con il nome di Kpelle o Buni). In Guinea gran parte della popolazione vive nelle zone rurali in cui la sanità e l’istruzione sono carenti, per questo è uno degli Stati in cui opera Plan International (Organizzazione umanitaria non governativa, presente in Guinea dal 1989 e impegnata nella tutela dei diritti dell’infanzia) sotto la cui protezione M. ha trascorso alcuni anni della sua vita. Il padre, giornalista e professore di francese, venuto a mancare nel 2011 durante un intervento chirurgico, gli ha trasmesso l’amore per la conoscenza, l’importanza di una buona istruzione e dell’impegno sociale. La madre è stata uccisa nel 2013, anno della riaccensione degli scontri tra i due gruppi, mentre si trovava a casa di un’amica Guerzè. La zia materna si occupa di una delle sorelle minori di M., mentre la più piccola si trova presso un orfanotrofio della Guinea.
Non avendo il sostegno economico della famiglia disgregata e impoverita, M. all’età di quindici anni decide di andare in Mali, da solo, a cercare lavoro, dove rimane per due settimane prestando servizio come domestico, per poi spostarsi in Algeria. La frontiera tra Mali e Algeria si manifesta in tutta la sua brutale disumanità: due mesi di prigionia nelle mani dei militari, con la continua richiesta di soldi e poi un giorno, ad un tratto, la liberazione. Rimane in Algeria per altri sette mesi: per i primi quattro lavora per un’impresa edile cinese, e dopo altri cinque mesi senza occupazione, si sposta in Libia con un amico. Qui pagano cinquecento dinari a testa e una notte si imbarcano insieme ad altre 113 persone alla volta dell’Italia, guidati da un uomo senegalese. Dopo poche miglia i militari libici sparano all’imbarcazione e sequestrano 73 persone, tra cui il suo compagno di viaggio. M. vede gli altri gettarsi in mare, tentare di fuggire a nuoto, i militari sparare e prelevare gente. Rimane raggomitolato su se stesso, inerme, ansimante e tremante dalla paura, in shock, poi nella mente il buio.« Si dimentica tutto…perché in barca non è facile. Si ricorda solo la disperazione», mi dice con un filo di voce. Quella disperazione che affonda le unghie nella carne della vita, ribellandosi alla morte. Alle nove del mattino, il barcone è intercettato in mezzo al mare e i passeggeri sopravvissuti vengono tratti in salvo dalla Marina militare italiana. È il ventisei dicembre del 2015: M. adesso è un “minore straniero non accompagnato, richiedente asilo politico”, è vivo, può ridare dignità alla sua vita, può sperare di migliorare anche quella delle sue sorelle rimaste in Guinea, può finalmente ricominciare a studiare, può vivere un surrogato di familiarità presso la comunità per minori nella quale alloggia, almeno fino al compimento del suo diciottesimo anno di età, quando sarà definito legislativamente “adulto” e non più “minore”.
Seppure il mondo dei minori stranieri non accompagnati sia molto variegato a causa delle differenze derivanti dai contesti di provenienza e dalle motivazioni del cambiamento di vita, la storia di M. non è molto diversa da quella di tanti e sempre più numerosi adolescenti e bambini che lasciano il loro Paese di origine e quello che rimane delle loro famiglie e partono per un lungo e tortuoso percorso: luoghi di transito e disperazione, lunghe attese ed esperienze terribili che porteranno a conoscere le insidie della natura umana, cancellando bruscamente i residui di un’infanzia forse mai davvero vissuta, con alle spalle solamente il bagaglio della propria esistenza. Sono le storie di Mohammed, Sumaila, Keita, Aly-Yar, Licky, Zahara e degli altri “bambini-Ulisse”, minori o ex-minori non accompagnati, intervistati da Luca Attanasio in varie parti d’Italia e riportati ne Il Bagaglio (Albeggi edizioni, 2016), un libro che in poche pagine condensa con buona documentazione la complessità del fenomeno migratorio dei minori stranieri non accompagnati e tutto ciò che vi ruota attorno, compresi gli aspetti più inquietanti: le storie di vita, le peregrinazioni, le sofferenze, l’abiezione del mondo a cui sono sottoposti, l’arrivo in Italia, l’inadeguatezza del sistema di accoglienza e le implicazioni con Mafia Capitale, le strumentalizzazioni politiche, il collocamento forzato in comunità, le problematiche giuridiche, psicologiche e sociali che vengono sostenute da queste piccole anime in viaggio, la controversa tutela, il rapporto con le famiglie, l’importanza della figura di un tutore, il rischio incombente di precipitare nella clandestinità e nella criminalità. Un libro che soprattutto urla e protesta l’elementarmente umano, l’esistenza in vita nonostante tutto, la resilienza, la forza e l’energia di chi essendo sopravvissuto chiede semplicemente di poter aver l’opportunità di vivere in un posto lontano rispetto a quello in cui è arrivato sulla terra [8].
Se il sistema d’accoglienza dei migranti in Italia è inadeguato e complicato, quello riguardante i minori non accompagnati presenta ulteriori ed enormi difficoltà economiche e giuridiche, dovute princi- palmente al fatto che attualmente il circuito dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) non è ampliato ai minori. Inoltre, gli sbarchi sono per lo più concentrati nella sola Sicilia, in pochi porti e comuni che diventando, in questo modo, “comuni di primo rintraccio” (cioè quelli in cui arrivano e vengono identificati) [9], devono farsene economicamente, burocraticamente e materialmente carico con le scarse risorse a disposizione e usufruendo di locali e personale inadatti alla prima e seconda accoglienza. A ciò si aggiungano due fattori importantissimi – e probabilmente non del tutto casuali – che vanno ad inficiare il funzionamento dell’accoglienza dei minori: la mancanza di regolamentazione delle procedure per l’identificazione e l’accertamento dell’età dei minori migranti e l’inefficacia temporale e modale del sistema di tutela legale. Infatti, «una volta effettuata la sistemazione in comunità, al compimento del diciottesimo anno, il neomaggiorenne cessa di usufruire (salvo in caso di proroghe, utilizzate in modi diversi a seconda delle regioni) dei diritti di vitto, alloggio e formazione» [10].
Tutto questo ha, ovviamente, dirette ripercussioni sulla riuscita dell’inserimento sociale del minore e sempre più spesso determina la fuga dai Centri di accoglienza, la clandestinità e di conseguenza anche l’ingresso nei circuiti illegali della prostituzione e dello spaccio di stupefacenti. Come se non bastasse, a complicare ulteriormente il quadro subentra la controversa applicazione della normativa vigente riguardo al Regolamento di Dublino, che all’articolo 6 sostanzialmente prevede il ricongiungimento del minore non accompagnato richiedente asilo in un determinato Paese con un familiare che si trova in un altro Paese europeo [11]. Emblematico, anche se per molti aspetti diverso, è il recente caso del bambino di otto anni rimasto in stato di fermo all’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi. L’Italia, anche per i minori è considerato un luogo di approdo in Europa per «provare a raggiungere familiari e amici nel Nord Europa, spesso in Germania e nella Penisola Scandinava. Se riescono a evitare il rilascio delle impronte digitali (ma a volte anche dopo averle registrate), fuggono per portare a compimento il loro progetto di migrazione. Alcuni scappano per sottrarsi alle vessazioni di cui sono vittime; altri perché i tempi di attesa per una sistemazione in un centro di accoglienza definitivo o in una famiglia si dilatano enormemente. Altri ancora perché vengono monitorati e intercettati da circoli della criminalità organizzata – sempre in cerca di manovalanza minorile – che offrono loro soldi e protezione»[12].
I minori stranieri non accompagnati sono solamente un aspetto del fenomeno delle migrazioni, quello che forse ci destabilizza maggiormente, un capitolo a sè, con norme e tutele specifiche che si aggrovigliano tra (r)esistenza, assistenza e burocrazia. Il bagaglio, questo piccolo e prezioso volume costruito a partire dalle storie di questi piccoli coraggiosi ulisse, vittime della crudeltà di questo mondo e tuttavia protagonisti attivi della storia, ci induce a riflettere criticamente su quanto prima consideravamo impossibile e lontano e adesso, invece, ci travolge e sconvolge. Il racconto delle migrazioni dei minori è un’azione civile e culturale a cui non ci si può sottrarre, volta a narrare e a denunciare attraverso le storie di vite individuali la vicenda globale complessa in cui siamo immersi senza averne piena consapevolezza. C’è un bagaglio che ci aspetta ed è il futuro che decidiamo di costruire al di là dei muri e delle frontiere di ogni tipo.
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
Note
[1] M. G. Pellecchia, “Mi dissero vai!”, in AAVV, Sotto il cielo di Lampedusa. Annegati da respingimento, Milano, Rayuela, 2014.
[2] G. Nicolini, “Prefazione”, in L. Attanasio, Il Bagaglio. Migranti minori non accompagnati: il fenomeno in Italia, i numeri, le storie, Roma, Albeggi Edizioni, 2016: 11-12.
[3] IDOS, Dossier statistico immigrazione 2015, Roma 2015: 151.
[4] L. Attanasio, op. cit.: 54-55.
[5] IDOS, op. cit., 2015: 151.
[6] L. Attanasio, op. cit: 26.
[7] A. Di Nuzzo, Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati, Roma, Carocci, 2013: 10.
[8] Non è altro che il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino sancito dall’art. 6 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e della adolescenza.
[9] Secondo la Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (328/2000)
[10] L. Attanasio, op. cit.: 66.
[11] Il Regolamento di Dublino è il documento principale adottato dall’Unione in tema di diritto d’asilo e prevede che la domanda d’asilo venga esaminata nello Stato (UE) dove il richiedente ha fatto ingresso. Poiché si può presentare solamente una domanda d’asilo in un solo Stato membro, tali domande sono controllate dal sistema Eurodac. «Dal 1 gennaio 2014, data di entrata in vigore del nuovo Regolamento Dublino (detto Regolamento Dublino III), è stata però introdotta una norma che interessa proprio i MNSA e che recita che “se un minore non accompagnato richiedente asilo ha un familiare entro il quarto grado che si trova legalmente in un Paese europeo diverso da quello in cui ha presentato domanda di asilo e che vuole e può occuparsi di lui/lei, detto Stato membro deve provvedere al ricongiungimento del minore con il (i) parente(i) ed è lo Stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale presentata dal minore». Idem: 68.
[12] Idem: 69.
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Francesca Rizzo, laureata in Beni demoetnoantropologici e specializzata in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli studi di Palermo, è impegnata nel volontariato culturale e in attività di ricerca etnografica sul territorio. È interessata ai temi dell’antropologia dello spazio e dei processi migratori.
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