di Luigi Lombardo
Il mito di Dioniso, figlio di Zeus e della dea frigia Semele, narra di un viaggio per mare del Dio, al timone di una barca a vela, verso nuove terre da “conquistare”, dove diffondere il nuovo “credo” e le delizie del nettare “divino”. Il mito insiste sulla “diversità” del dio, sulla sua estraneità, e al contempo sulla suo essere un sotèr, un Salvatore. Sulla barca Dioniso porta un tralcio di vite e un otre pieno. Nei racconti mitologici è sempre apparso come una divinità venuta dall’esterno, nonostante che la sua discendenza sia olimpica al pari del suo opposto Apollo. Questo dio predilige l’estraneità, l’altro, il diverso, la maschera che nasconde/rivela il doppio, cittadino ed insieme ospite, civis ed insieme migrante. «Nello spazio chiuso della città come nel suo al di là, egli evoca a volontà la forma dell’altro, portando la maschera che lo scopre ma sempre lo sottrae, soprattutto là dove sembra offrire l’aspetto più familiare (…) sfuggente e proteiforme»[1]. Fuor di metafora insegna che ognuno di noi è in qualche modo un altro da sé, un estraneo cui bisogna dare retta, a costo di divenire egli stesso vittima dello spirito di accoglienza.
Dio del vino, dei riti bacchici, del canto dei Satiri da cui origina la tragedia, egli è il dio che trasporta il vino nella sua nave sotto forma di tralcio, che insegna a rompere gli schemi della propria “appartenenza”, per tuffarsi nella propria e altrui alterità. Dalla Tracia, e da sempre, il vino viaggia sulle rotte del Mediterraneo, come uno dei prodotti “tipici” di queste sponde bagnate dal mare nostrum. Trapiantato in Sicilia, ne è divenuto un marcatore culturale. Così fin da epoca remota viaggiava dall’Isola alla volta dei mercati mediterranei con i Greci, con i Romani, con i Bizantini e con i signori Normanni e Svevi, giù fino a tempi a noi più prossimi.
Molti storici sostengono che le popolazioni indigene pregreche della Sicilia conoscevano bene il vino, al punto che forse già coltivavano la vite, ricavandone un prodotto corposo e denso, come mostra, oltre al noto episodio dell’ubriacatura del ciclope Polifemo [2], anche un passo dello stesso libro IX dell’Odissea: «Di là navigammo avanti, sconvolti nel cuore / e dei Ciclopi alla terra, ingiusti e violenti / venimmo, i quali fidando nei numi immortali, / non piantano pianta di loro mano, non arano; / ma inseminato e inarato là tutto nasce / grano, l’orzo, le viti, che portano / il vino nei grappoli, che la pioggia di Zeus rigonfia» [3]. I Sicelioti svilupparono in Sicilia la viticoltura, a partire dalla parte sud-orientale, nelle plaghe di Akragas e Camarina, fino ai fertili altopiani dell’interno e a risalire lungo le regioni del Belìce.
Il mito racconta di Oresteo che piantò (egli stesso si chiamava il “piantatore”) la vite sulle falde dell’Etna, mentre un’altra leggenda ricorda che il moscatello fu sperimentato per la prima volta a Siracusa [4], al tempo del tiranno Falaride. Il mito ancora ci ricorda che il dio Dioniso nel suo viaggio per i Paesi del Mediterraneo, con lo scopo di far conoscere il vino, sbarcò in Sicilia, a Naxos, da dove la coltivazione della vite si sarebbe diffusa un po’ dovunque. I Greci, come detto, non introdussero ma incrementarono una coltura già da tempo conosciuta in Sicilia. Furono ottimi viticoltori, raggiungendo alti livelli di produzione qualitativa e quantitativa, favoriti dalla decantata feracità del suolo. I Greci della madrepatria erano particolarmente affezionati ad alcuni vini siciliani, fra cui il siracusano Pollio, chiamato anche Biblino, da cui sarebbe derivato il moderno moscato [5]. Siculi e sicelioti erano dunque avvezzi al consumo di vino: con la differenza che i Greci preferivano bere nel simposio, cioè in una sorta di rito dionisiaco, che chiudeva ogni banchetto.
Il vino contendeva alla birra il primato nei banchetti dei popoli barbarici romanizzati. Da lunga data era in testa alle merci che lasciavano i porti della Sicilia verso il Nord Italia e il Nord Europa, per essere vino denso, scuro, forte, adatto al taglio. La rotta verso le genti del Nord correva sull’asse Siracusa-Messina-Livorno, o Trapani-Livorno-Genova e naturalmente Palermo-Livorno-Genova. Erano rotte collaudate in cui si impegnava la marineria europea. Siracusa fino a tutto l’Ottocento e parte del Novecento ne era scalo fra i più importanti. Per avere un’idea di quanto avveniva nelle rotte commerciali mediterranee, è bene riportare un prezioso documento del 1748, contenuto tra carte private di una ditta siracusana di vini.
Si tratta di un contenzioso per un carico di merci da imbarcare a Messina e Siracusa, tra cui «acquavite, sugo di rigolizia, bottame voto e vino di Siracusa». Il sig. Alberto Nimis Coopthorn inglese, commissionato della società inglese “di import ed esport” Chamberlain e Morrich, ha la sua base commerciale a Messina, dove ha incaricato il capitano Cristian Hellesen danese, di prendere a nolo a Livorno una capiente nave per imbarcare vino. Da Livorno parte alla volta di Messina, in cui dovrà effettuare il carico, per dirigersi a Siracusa dove concludere l’imbarco con il trasporto di vino moscatello. Le merci dovranno poi raggiungere il porto di Rotterdam. Giunto a Messina procede all’imbarco, ma a Siracusa padron Hellesen si rifiuta di caricare tutto il vino perché eccedeva la portata della nave. Da qui un lungo contenzioso che lascia le tracce sul documento notarile. A noi preme sottolineare l’ampiezza dei rapporti commerciali che si intrecciano nel Mediterraneo tra popoli tanto diversi, uniti dall’interesse e dal piacere del vino.
Ma veniamo ad un altro esempio. Nel 1734 il commerciante maltese Crispino Gatti ha caricato in Capo d’Istria, «città dello stato veneziano», su un vascello capitanato da padron Botto di Genova, diverse mercanzie tra cui legname, carta acciaio, chiodi, vetriolo, mentre a Siracusa, nel cui porto era trattenuto dai soldati, aveva imbarcato «salume, vino moscato e canape», tre tipici prodotti dell’economia siracusana [6]. I “salumi” erano tutti alimenti che prevedevano l’uso della salamoia o del sale: tonnina, sarde, ma anche carne di maiale, e tutti «li inchiumi salati, [cioè] cori, mussiddi, buzzunagghia, musciumà, fruntali, spineddi, auliddi, bodina, budeddi, ventri, ventri alla palermitana, soppressati, surra semplice e a cucchia, occhi, ova, pesce salato come sarde, sgammirri, palamiti ma anche formaggi, scaldati, casicavalli, intrita di mandorle, tartaro, scorze d’arancio [bucce di arance salate]». La quantità di questi prodotti di tonnara e di salagione esportata era elevatissima, impossibile da quantizzare, ma, per Siracusa, si tratta di centinaia di tonnellate l’anno di prodotto salato, oltre al vino che superava i diecimila ettolitri annui.
Nel 1748 padron Antonino Cusumano giungeva da Trapani con il suo pinco e caricava diverse merci da trasportarle alla corte di Napoli. Seguiamo la nota di imbarco che è estremamente interessante: «Otto barrili con sue fodere di vino moscato e di miele, due cassettine piene di bottiglie di rasoli, e due cassette piene di cose dolci di riposto, e di pasta». Era l’omaggio che don Domenico Landolina destinava al re: quel moscato, prodotto a Noto dalla famiglia Impellizzeri, non abbandonerà più la corte napoletana fin quasi alla sua partenza nel 1860. Le martingane napoletane facevano su e giù dal porto di Siracusa a Napoli, proseguendo per Livorno, da dove il vino moscato migrava in tutta Europa: la Russia era in testa alle richieste. Il nolo si pagava secondo la quantità di botti caricate: in genere 4 tarì ogni salma di moscato (siamo in pieno ‘700). Trapanesi, Napoletani, Genovesi, gente di mare e di traffici, si contendevano il prezioso carico che rendeva più lieta la vita delle genti del Nord.
Al vino e al “salato” si aggiungeva il formaggio ragusano, la cui fama aveva varcato i confini dell’Isola: sempre i Napoletani incettavano «scaldati, casicavallo, pecorino e vaccino»: si raccomandava che non dovesse essere «abbuffato, ciaccato, e tarlato da sorci», come si legge in una nota di carico del 1754, redatta da notaio pubblico. Da Genova arrivava di tutto: il ferro innanzitutto con l’acciaio svedese o catalano, ma anche finissime porcellane (“porcellette”), cioè «piatti, marfarate, ambole seu cannate, e roba fina come cicare, nappe, piattini». Luogo di imbarco del ferro era il porto di Finale Ligure.
In questo mare di traffici e scambi commerciali, ieri come oggi, si intrecciavano vicende di vita e di morte, di relazioni e conflitti, di felici attraversamenti e disperati attracchi di fortuna. La pirateria si era oltremodo sviluppata a metà del ‘500, prima e dopo Lepanto, diventata una pratica normale, quasi una vera intrapresa commerciale in cui le nobili famiglie siciliane e siracusane in particolare erano assai attive: i Platamone, i Bellomo, gli Arezzi, per dirne alcune, la praticavano tranquillamente, sotto la protezione delle potenze marinare del Mediterraneo. In un documento si legge che nel 1550 il nobile Antonino Zavatteri con altri soci di una fregata armata ricevono una somma per intraprendere una proficua azione di pirateria nei mari “turcheschi”. La pratica “illecita” della pirateria sopravvisse fino ai primi decenni del secolo XIX.
Centinaia di felughe, martingane, speronare, fregate, schifi e schifazzi, brigantini, sagitte, pinchi, tartane e tartaroni ecc. venivano noleggiate da abili commercianti napoletani, livornesi, messinesi e trapanesi per caricare merci e raggiungere i principali porti dell’Italia: Trapani, Mazara, Napoli, Roma, Livorno, Genova, Messina, Venezia, e da qui le merci viaggiavano per l’Europa. Richiestissime dalla Sicilia erano la cenere di soda, fondamentale nella lavorazione del vetro, le carrube, il sommacco. Sorgevano molto spesso controversie tra i noleggiatori che impegnavano i notai in atti cosiddetti di cautela, per mezzo dei quali veniamo a conoscenza di aspetti particolari di questa vita di mare.
Tra queste merci di esportazione spiccavano le carrube dal Ragusano. Nel 1746 si presentò al notaio Buscarello di Augusta padron Michelangelo Costanzo di Napoli, il quale aveva caricato a Malta cotone per il Papa e “Portogalli” per i Reali di Napoli sulla sua martingana. Dalla Valletta si partì per Pozzallo dove caricò quattrocento cantara di carrube, portandosi alla volta del porto di Augusta, dove imbarcò diverse salme di ceci, liquirizia, “nocille”, e «botti di cenere di scebba». Il padrone, espletato le operazioni d’imbarco, voleva ripartire, ma uno dei commercianti noleggiatori gli intimò di caricare anche sessanta quintali di “angiovi”. «Bene – disse il merciero d’Augusta – sbarcassi il bombace e li portogalli, e caricassi li angiovi d’Augusta!». «Non sia mai! che io non porto il bombace al santo Padre». Così si recò dal notaio e dettò l’atto di protesto contro chiunque avanzasse accuse contro di lui, per essere la martingana piena e terminato il periodo della “stallia” nel porto di Augusta [7].
Nel 1748 il padrone Antonio di Cesare, la cui tartana con 17 marinai era ancorata nel porto di Augusta, si presentò dal notaio di quella città e raccontò una disavventura commerciale al fine di tutelarsi contro i suoi “amici” di commercio. L’anno prima era giunto nel porto di Mazara, per conto di un mercante di Napoli, per caricare «nello scaro di Castellammare di Alcamo» 250 quintali di sommacco, dovendo poi proseguire per Licata, dove doveva imbarcare 500 quintali di cenere di soda, per veleggiare infine alla volta di Livorno. Così fece, ma solo in parte: caricò il sommacco, ma partito alla volta di Licata il maltempo (siamo a dicembre) lo costrinse ad entrare nel porto di Trapani, dove dimorò per più di un mese. Col bel tempo fece vela verso Licata dove cominciò a caricare la cenere; ma «con poche persone di trasporto il che vedendo che tali persone di trasporto non potevano disbrigarsi nel trasporto in detto giorno», richiese più “vastasi” per accelerare il carico. Tanto più che contemporaneamente giungeva un padrone di tartana trapanese che cominciò a caricare cenere di soda, fave, formaggio, e sarte per un totale di una tonnellata di mercanzia, impegnando decine di uomini. La concomitanza dell’arrivo del vascello trapanese rallentò le operazioni, cosicché poté ripartire con gran pericolo dopo alcuni giorni, a causa dei venti contrari di ponente, fino ad essere costretto a cambiare il percorso verso Marzamemi e ad intraprendere la rotta ionica fino ad Augusta, dove, approdato, volle “protestarsi” assieme ai marinai per evitare conseguenze [8].
Approdi di fortuna, viaggi disperati sembravano retaggio del passato, rocambolesche e drammatiche vicende consegnate alla storia. Oggi, invece, quel mare nostrum è tornato a pullulare di barconi carichi di “merce umana”, di nuovi traffici immondi e violenti. Nell’azzurro di questo mare antico, spesso senza aspettare neanche i venti propizi, si stagliano variopinti barconi, tutti uguali, tutti segnati dall’occhio della fortuna. Che però spesso chiude i suoi occhi, affidando quella “merce” al gioco delle onde e al vento di grecale che li arresta, li risospinge indietro, li inghiotte. L’arrivo fortunoso sulle coste di Lampedusa, ma ormai di tutta la Sicilia, ci consegna un mondo di alterità che conoscevamo solo dai racconti etnografici. Ci consegna un’umanità “diversa”, che chiede solo di essere salvata prima di essere sommersa.
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
Note
[1] M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, trad.it. Roma, Bari, Laterza, 1983.
[2] Si fa risalire in Sicilia al XIV sec. a. C., come mostrano alcuni vasi a clessidra ritrovati a Cozzo Pantano presso Siracusa, che ripetono forme vinarie di età minoica. L’introduzione si farebbe dunque risalire ai Micenei. Cfr. Guida ai vini di Sicilia, introduzione di Bruno Pastena, schede di G. Coria, Palermo ed. Guida 1991.
[3] Omero, Odissea, versione di Rosa Calzecchi Onesti. Torino, Einaudi, 1968, IX: vv. 105-111.
[4] Le contrade nel ‘700 da identificare come aree del moscatello siracusano erano soprattutto Mottava, Pantano e Morra.
[5] Ateneo, I Deipnosofisti. Sofisti a banchetto. Roma, Salerno editrice, 2001, libro X: 440 e-f, dove si narra che i Greci di Creta producevano un vino chiamato passum, consumato in particolare dalle donne, molto simile sia al passito siciliano che al moscato siracusano.
[6] Archivio di Stato di Siracusa [ASS], not. Romano Mauro, vol. 12421.
[7] ASS, not. Buscarello, vol. 979.
[8] ASS, not. Buscarello, vol. 979.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee.
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Sono rimasta affascinata dal suo articolo, che tra l’altro cade a fagiolo poichè in qualità di presidente di un’associazione culturale, SiciliAntica di Mussomeli (CL) insieme ad altre sezioni sto organizzando una serie di conferenze sul vino; cercavo proprio qualcuno che mi parlasse delle vie del vino. Il suo articolo è stato per me illuminante!!!
Che ne dice di venire a parlarne al Convegno?
Le lascio il mio numero: 3395949184
ritalamonica@libero.it
Spero vivamente che Lei possa essere presente. Aspetto una sua telefonata.
Cordialmente, Rita La Monica