di Stefano Montes
Metto in cantiere un progetto o mi lascio andare al caso? Pianifico accuratamente cosa scrivere o mi sottometto piacevolmente alla deriva casuale del quotidiano che interviene, comunque, nei nostri piani? In fondo, anche «se le pratiche informali della vita quotidiana spesso possono apparire a chi le osserva dall’esterno esotiche, rozze o peggiori delle proprie, in realtà esse acquistano un senso nel loro specifico contesto e nei loro stessi termini» (Rosaldo 2001: 66). Sarebbe allora proficuo adagiarsi nel contesto minuto del vivere e – come un attore esterno che si osserva nel suo darsi in forma narrata – vedere cosa succede di fatto. Questa strategia di ricerca richiederebbe però un’adeguata forma di scrittura. Più che lasciarla intervenire a cose fatte, potrei servirmi della scrittura come forma processuale al fine di scoprire «quelque chose qui n’est pas là avant l’écriture» (Ernaux 2003: 150). Ci provo? Lavoro su contesto e scrittura? Nell’indecisione, la data approssima: si profila e s’affila. E io so che dovrei scrivere: in un modo o nell’altro. Incominciare. Avviarmi a farlo, forse senza finire col concludere, magari per proporre un’etnografia dell’indugio, del vagare a oltranza nelle minuzie del quotidiano, nella sospensione del divenire. Di certo, adesso, c’è che l’imminente numero di Dialoghi Mediterranei si ritaglia uno spazio ancora mal articolato nei miei pensieri alla deriva del tempo risicato. A cosa metto mano? Che escogito? Quali aspetti critici – mi chiedo – può apportare un’incursione in un contesto quotidiano, come il mio, tutto sommato poco significativo di primo acchito?
È noto: «l’antropologo non solo può, ma deve agire come traduttore e insieme come critico» (Asad 1997: 210). E io dovrei esserlo: critico. Incomincio ad aprire, sul computer, documenti a casaccio di bozze in corso, inconcluse. Non mi decido: vorrei rimanere nel presente, nel corso degli eventi, e pur tuttavia sarebbe opportuno portare a compimento qualche saggio già incominciato da tempo. Sono inconcludente? Ne convengo. L’inconcludenza può, però, essere un modo per indugiare nel processo e rifletterci in vivo. Non importa comunque allo stadio attuale delle cose, conta lo stato d’animo: resto in attesa, rimane il fatto che sono teso a tessere le virtù dell’indugio e del vagabondaggio intellettuale. Potrei farlo davvero qui – prendermi sul serio – affrontando la questione una volta per tutte: per iscritto, senza girarci intorno come ho fatto in passato, in altri saggi. Richiudo il computer in tutta fretta, mi allontano rapidamente dalla postazione di lavoro, leggo qualche rigo di Altrove, forse di Amos Oz riposto sul tavolo in bella mostra del soggiorno dove sono corso a rifugiarmi per prendere tempo e dare spazio alle sensazioni neglette, prevaricate dall’affanno dell’intelletto prepotente:
«Ecco a voi il kibbutz di Mezudar Ram. Al fondo di una verde valle le casette del kibbutz si presentano in rigorosa simmetria. Le folte fronde degli alberi non spezzano le linee rigorose del luogo, le arricchiscono soltanto di una certa qual gravità» (Oz 2015: 15).
Che bell’attacco, diretto, senza fronzoli! In simile attitudine, mi piacerebbe dire: «Ecco a voi, lettori, ciò che penso». E, così di seguito, vorrei essere capace di trasformare – con uguale attacco frontale che suggella complicità iniziatiche tra autore e lettore – i miei pensieri in segni bell’e pronti, in sequenza narrativa realizzata, efficace, ben redatta. Quale che sia l’attacco scritto – rifletto rassegnato – sarei comunque costretto, mio malgrado, a prendere le distanze dalla situazione in cui verso: lo scritto non può che mettere a distanza, se non altro temporale, il contesto in vivo degli accadimenti. Io penso invece che dovrei – senz’altro vorrei, saprei – indugiare: per rimanere prossimo a me stesso, il più possibile in situazione. Sarebbe allora necessario trovare una formula adatta per mantenermi in bilico tra situazione in corso e inevitabile traduzione in segni scritti che allontanano presumibilmente dal contesto operativo. E sarebbe pure necessario rassegnarmi alla considerazione che produco qualcosa ma che sono al contempo un prodotto di ciò che scrivo e della cultura di appartenenza. Invece, gli scienziati sociali a volte «turn their gaze to the lives and times of others; they are less prone to see themselves as social and cultural products, producing social and cultural products» (Richardson 1997: 1). Per mia parte, io voglio essere proiettato, il più possibile, nel processo delle mie azioni e insieme nei dispositivi culturali che, in un modo o nell’altro, mi orientano e persino mi determinano. È, tutto sommato, quello che ho già cercato di fare nell’ultimo numero della rivista – mentre producevo, riflettevo sul processo di produzione – con un solo limite: mettere al centro della riflessione l’articolazione attesa/azione e ragione/emozione in un contesto d’uso particolare. Ne sono più consapevole adesso, dopo averlo scritto, dopo averlo riletto per l’ennesima volta.
Scrittura e lettura producono effetti catartici inaspettati e sovente si rivelano a posteriori. Io ho trasformato una piacevole attesa – in compagnia di amici davanti un locale di Palermo – in una breve etnografia incentrata sulla dimensione temporale e sulle emozioni vissute in situazione, poi man mano sempre più generalizzata, intrisa di teoria da me estrapolata dal contesto (Montes 2019). Non è forse il va-e-vieni tra significati contestuali e astrazioni generalizzanti dello ‘studioso in situazione’ uno degli aspetti più interessanti dell’etnografia stessa (Montes 2017)? L’estate si ripropone, però, adesso: è alle porte con la forza strisciante dell’evidenza, con il suo carico galoppante di spensieratezza, con l’orientarsi insistente delle vacanze. Da qualche giorno ho peraltro chiuso i miei due insegnamenti del secondo semestre. Niente più teorie sull’alimentazione, niente più linguaggi e modelli della comunicazione: niente più corsi fino a settembre. Posso fare altro, dedicarmi alla ricerca a tempo pieno, indugiando sul divenire del processo, senza fretta. Non devo rendere conto a nessuno del mio operato etnografico. Sperimento per me, senza altro fine in vista. Sono libero di pensare in maniera anarchica, per flussi di pensieri. Sono libero di trasformare la mia vita in campo e il mio campo in vita stemperata dallo scritto che le dà forma.
Come fare? Che nozione di campo adottare? Nell’appendice di Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Evans-Pritchard discute alcune questioni relative al lavoro sul campo. Egli precisa non soltanto che nessuno sa come procedere sul campo ma anche, più importante, che non «si possono ottenere risposte senza sapere quali siano le domande» (Evans-Pritchard 2002: 286). Mi chiedo tuttavia: e se ci fossero altre prospettive rispetto a quella avanzata da Evans-Pritchard? L’ipotesi di campo a cui si affida Evans-Pritchard si fonda sulla dialettica domanda-risposta. Sarebbe però opportuno praticare un’altra strada, secondo me altrettanto proficua: quella fondata sulla dialettica pianificazione-caso. Si tratterebbe di prendere in conto, soprattutto, le virtù del caso e di lasciarsi andare alla sua irruenza, riflettendo sulle sue circonvoluzioni soltanto in apparenza inconcludenti. Si tratterebbe di smussare il peso della pianificazione e, più in generale, del senso del vivere inteso come compimento di una missione o raggiungimento di un obiettivo dopo l’altro. Io, per di più, sono libero e non ho nessuna intenzione di perseguire un obiettivo pianificato, giusto per sentirmi meglio o accordarmi a un piano prestabilito. Mi sento leggero, in attesa di un segno. Ecco, forse ci sono! Ero certo che, indugiando, prendendo tempo, qualche orientamento sarebbe venuto a galla quasi da sé. Potrei infatti continuare a riflettere sull’incastro vacanziero dei pensieri in situazione.
Visto che siamo in estate, potrei concedermi questo dono: andare alla deriva. Potrei divagare – tanto per darmi un tono, un’apparenza di andamento scientifico classico – su vacanza e pensieri. Potrei prenderli, vacanza e pensieri, se non proprio come oggetto di studio, almeno come punto di ancoraggio per non fare altro che questo: indugiare, indugiare sulle conclusioni, indugiare sulla nozione di campo, indugiare sulla vacanza, indugiare sugli stessi processi di pensiero. Per l’appunto! Geertz parlava di un’etnografia del pensiero (Geertz 1988). Ingold, nonostante le critiche a Geertz, pensava fosse possibile pensare il pensare eliminando ritagli stereotipati di vecchie categorie (Ingold 2001). Non mi resta che rileggere l’articolo che ho già pubblicato sulla questione e continuare, come al solito, a spostare gli accenti (Montes 2015). Gli accenti contano! Non mi resta che continuare a divagare, indugiare liberamente, pensare in modo disordinato. Ed è noto: un antropologo deve «indugiare e lasciar fluttuare la sua attenzione» (Piasere 2002: 157). Non mi resta che questo: rileggere e spostare il senso al suo limite estremo, al limite dell’incomprensione, al limite dell’attenzione. Senza affanno, nell’indugio. E poi mi basterebbe un piccolo spostamento – semantico ed esistenziale – e sarei già contento del mio prodotto e parallelo produrmi nel processo.
Ben consapevole di questo, mi piazzo quindi davanti il computer, sollevo lo schermo, pigio il tasto di accensione, comincio a battere sui tasti. Sono di nuovo al lavoro. Canticchio: una canzone di Fred Buscaglione di cui non ricordo tutte le parole. Le cerco nella mia memoria e non affiorano. Continuo a canticchiare per darmi tempo: sono incerto sul titolo da dare al mio saggio, indugio sulla direzione da prendere. Viaggio o vagabondaggio? Un titolo potrebbe essere: perché viaggio. Un altro, altrettanto allettante, sarebbe: perché vago. Quale dei due titoli potrebbe essere più adatto? Nel primo caso, a proposito di viaggio, potrei incentrare le mie riflessioni sulle motivazioni che mi inducono personalmente a spostarmi da un luogo all’altro, tenendo conto degli ultimi libri che ho letto di antropologia della mobilità, mettendo a fronte un atteggiamento auto-riflessivo – quello mio – con l’orientamento degli altri autori e viaggiatori presi in conto. Non è in fondo l’antropologia – tutta, o quasi – un’impresa comparativa? Non è forse buona parte dell’antropologia legata al viaggio? E così sia per il primo caso. Nel secondo caso, invece, potrei giocare con l’ambiguità del termine “vago” e coniugare così quel tono di vaghezza – sorta di inconcludenza mista a intenzionale indeterminazione nel procedere – che vorrei associare al mio scritto odierno con il vagare vero e proprio, cioè con l’andare a zonzo, senza una meta precisa, definitiva. Un tema o l’altro, un approccio o l’altro, non dovrei curarmene più di tanto! È evidente che, l’uno e l’altro, fanno parte del mio indugiare: quell’indugiare altalenante di cui voglio rendere conto o, perlomeno, abbozzare in traccia scritta per mia futura riflessione. Così, su questa falsariga, penso che mantenere
«alternate approaches or perspectives in dialogue – as complementary moments of analysis – can stimulate rather than debilitate an important diversity of theoretical and ethnographic engagements. The notion that we must choose between empirical substance and cutting-edge sensitivities is itself a false dichotomy that limits the growth and creativity of cultural anthropology» (Knauft 1996: 288).
Quale che sia la scelta del titolo del saggio e la direzione da prendere, dovrei in ogni caso mettere risolutamente in guardia i potenziali lettori contro un possibile tipo di ricezione che non si confà alle mie intenzioni. Se davvero vi interessa leggere questa breve etnografia – sempreché di etnografia si tratti e non invece di bighellonare esistenziale – dovrete, voi lettori, andare a zonzo come me, abituarvi a perdervi piacevolmente nei vicoli del senso di un labirintico tessuto esperienziale, dovrete insomma seguire le scorribande di un individuo (me stesso dentro e fuori di sé, al margine del sé) in cerca di un qualche controverso itinerario d’insoddisfatto senso destrutturato: quindi di un senso traballante, incerto da accomodare in definitiva, circoscritta sede. D’altronde, può forse il senso rimanere immobile, in attesa dello studioso che lo porti alla luce una volta per tutte? Il senso è mobile e io, al par suo, di tutto punto amo derivare, perché questo è il bello dell’andare a senso e a zonzo, al limite del non-senso e dell’insensato! Amo derivare, andare a senso, rischiando il non-senso, per divenire: in cerca di mobile assenso e dissenso. Tanto il senso non aspetta, tanto vale allora seguirne con passione le tracce dissestate, lasciandosi incalzare – affascinati – dalla sua frenesia sconsiderata, dal suo latente limite! Perché, a dirla tutta, più che in cerca di un ancoraggio stabile, seguirei qui le linee di fuga prospettate dal disorientamento provvisto dall’oscillante (linguaggio del) viaggio-vagabondaggio: sempre in relazione stretta con l’immancabile preparazione, con il correlato spostamento che ne deriva e con la concatenata narrazione di ritorno.
Per viaggiare, è infatti necessario pensare il viaggio nei suoi preparativi anticipatori, quindi compierlo, infine tornare e raccontarlo a parenti e amici nei termini di un linguaggio condiviso o da condividere. Da parte mia, più che rincorrere un principio di linguaggio regolato a senso unico o astratto, mi terrei a ridosso di un’attività situata su uno spazio di fuga con direzioni molteplici, con sensi labirintici e sdrucciolevoli. D’altronde, il «linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più» (Wittgenstein 1967: 139). E io mi so orientare? So dove andare? Dove iniziare? Non sento la necessità di saperlo: non troppo, non proprio, non adesso. Mi lascio andare all’indugio. Mi lascio andare a quei due capi metaforici e contestuali che sono, per Wittgenstein, il disorientamento e il parallelo orientamento.
Se si vuole proporre l’idea dell’indugiare come gioco linguistico bisogna accettare il principio che si è disorientati, tuttavia inclini a intraprendere la strada del relativo orientamento: insomma, ci si perde e ci si ritrova ininterrottamente sotto l’egida dell’indugio, accettando a tratti il rischio dell’insignificanza. Così, il mio personale viaggiare al limite del senso funge da guida esistenziale in genere, non si trasforma in costrizione, in direzione unica: anticipa un po’, non si impone; a mala pena suggerisce, svuota del troppo che stroppia. Io viaggio soprattutto per disorientarmi e riflettere sull’immancabile, umano senso del ricercare. Senza ricerca, forse, non c’è senso certo o puntuale, né analisi o indagine a qualsiasi fine diretta. Per situarsi al limite del senso (come io tento di fare), spesso ci si deve rassegnare a prendere in conto la dialettica ricerca/divenire. Ma cosa cercare esattamente – in ogni caso, anche se lo volessi, fin dall’inizio – non saprei dirlo qui su due piedi. E allora vado a naso, vado all’ingrosso, vado senza la necessità di inchiodarmi a una ricerca prestabilita. Riguardando indietro nel tempo, sono consapevole del fatto che viaggiare diventa sovente ragione di fitta comparazione: di stili di vita vissuti incrociati nei luoghi di residenza e all’estero. Più che visitare i luoghi, allora, io vivo in questi luoghi: facendomi assorbire, trasformando la visita fuggevole in campo prolungato, indugiando sul rapporto intrattenuto dalle nozioni di campo, viaggio e vita. In effetti, in situazione o in astratto, si può vedere «il lavoro sul campo come una pratica di viaggio» (Clifford 1999: 17) e viceversa. Di più: si può vedere il lavoro sul campo come una pratica dell’indugiare che inizia a casa propria, mentre ci si prepara al viaggio stesso e si considera la partenza come elemento di continuità (e discontinuità) con il viaggio e con la vita che continua a scorrere immancabilmente malgrado noi e le nostre decisioni.
In questa prospettiva, il viaggio diviene allora elemento di analisi degli incastri spaziali, delle forme di continuità e discontinuità temporali che si offrono ai nostri percetti e concetti. Per esempio, dove porre la barra della discontinuità nello scorrere della vita? Tra un rito e l’altro? E ancora: dove porre la barra della discontinuità nel corso del viaggio? Tra i preparativi e lo spostamento implicito nel viaggio? Comunque sia, io vado, io viaggio: in cerca di chilometri di secondi da rendere su carta. Vado in cerca del viaggio al limite del senso. Viaggio per prendere coscienza del senso del viaggio stesso, viaggio per incontrare un altro me stesso e altri ancora: in altri contesti, sull’onda di altri racconti. Poiché anche «coloro che l’etnologo incontra e interroga vivono i loro propri racconti, i loro propri viaggi reali o metaforici. L’etnologo è forse più in grado di ascoltarli e di comprenderli a partire dal momento in cui prende coscienza dei propri» (Augé 2001: 62). Io vado, poi si vedrà; io vado, poi, a cose fatte – se il caso vuole, la pazienza regge – faremo il punto, lettori: lasceremo lo spazio necessario – delimitato – affinché la coscienza si rapprenda in un senso, se questo vuol dire tutto sommato comprendere. Non è forse questo l’equivalente del volere attribuire un senso? Delimitarlo, renderlo univoco, appropriarsene una volta per tutte: ritagliarlo in una direzione, in uno spazio confinato. Lo faremo, non abbiate timore, cari lettori! Per il momento mi concedo il piacere dell’indugio che evita il senso certo, assodato. In seguito, delimiteremo: è inevitabile. Per il momento indugio, per il momento cerco di sfuggire alla delimitazione, al senso circoscritto. Mi situo sul limen e continuo a riposizionarmi adottando una strategia o l’altra.
Ci sono molteplici strategie di riposizionamento, se non proprio di rifiuto, del senso scontatamente circoscritto. Prendiamo l’esempio brillante di Richardson e Lockridge. Per essere più consapevoli dei processi in corso durante i loro viaggi, i due autori si propongono di scrivere ‘sullo stesso oggetto’ – uno stesso luogo – con prospettive diverse: Richardson inquadrerà questioni e luoghi a partire dal suo punto di vista di sociologa, mentre Lockridge lo farà nella prospettiva di scrittore. Il lettore potrà, in questo modo, comparare le due prospettive e rendersi conto dei possibili aggiustamenti grazie alla conversazione, in forma scritta, che i due autori includono dopo ogni viaggio. Un bel modo di riorganizzare, attraverso il viaggio, prospettive che, altrimenti, potrebbero essere singole o monolitiche! A questo riguardo, vale la pena riportare la domanda che Laurel Richardson pone a Ernest Lcckridge: «Aren’t we using our travels as objects for our gaze?» (Richardson, Lockridge 2004: 119). La riposta di Ernest Lockridge è altrettanto interessante: «As gazing objects» (ibidem). Che vuol dire esattamente? Significa che, in viaggio, è inevitabile che gli oggetti – nello straniamento provvisto dalla situazione inconsueta – diventino ‘luoghi’ di riflessioni reinterpretati, sia per un sociologo sia per uno scrittore: nella loro specifica chiave di lettura. Significa inoltre – come sottolinea la risposta di Lockridge – che gli oggetti interagiscono in qualche modo e non si offrono mai in modo inerte allo sguardo dei viaggiatori: sono ‘oggetti che osservano’, oggetti che si animano e interagiscono rimettendo in gioco le nostre categorie.
Un po’ di pazienza allora, cari lettori: troveremo il bandolo della matassa, il senso della direzione del saggio che sto scrivendo. Se non altro, giusto per ricominciare daccapo, per il gusto di farlo di nuovo: per il piacere inconcludente. Tanto non si arriva mai a un punto fermo, non si finisce mai in senso stretto. «D’altronde, forse che nella vita ci si arriva?» (Lévi-Strauss 1988: 197). Non c’è fretta quindi di trovare un senso bell’e pronto, non c’è fretta di concludere. Io intendo indugiare, intendo farlo al limite del senso, al limite dell’insignificanza. Indugiare ha, per me, il senso sinonimico di tardare per positivamente risiedere – al di là del principiale senso negativo – nell’intrattenimento offerto dal temporeggiare. Focalizzare sull’indugio significa dunque, in quest’ordine di idee, focalizzare prioritariamente sulla dimensione temporale e, più particolarmente, sulla sua componente processuale: quella che viene talvolta posta in secondo piano negli studi sociali volti a cogliere invarianti d’ordine strutturale. L’indugio ha, in questa prospettiva, tanti elementi positivi da sottolineare. Allontana, per esempio, lo spettro martellante dell’esecuzione da ultimare a tutti i costi: quel portare a termine che sembrerebbe – nelle società moderne – valorizzare l’atto non in quanto tale ma come compimento, come risultato dimentico del percorso. L’indugio riporta, inoltre, al piacevole stadio di magica sospensione in cui tutto potrebbe accadere. Per molti aspetti, infine, l’indugiare è comparabile all’attendere: quell’attendere che rimanda alla dolcezza del processo vissuto come preparativo già euforico in sé, da gustare nell’anticipazione del momento.
In un volume che si può considerare, in gran parte, una riflessione sulla dimensione temporale, Greimas parla dell’attesa «come oggetto di presa estetica per sé» (Greimas 1988: 31). Esemplificativa di questa prospettiva adottata da Greimas nel volume Dell’imperfezione, è una poesia di Paul Valéry (I passi) in cui l’autore parla di due entità – due amanti, probabilmente – che sono sul punto di vedersi ma assaporano già il piacere dell’incontro nei momenti stessi che lo anticipano. Valorizzando questi momenti, Greimas riporta all’attenzione teorica il valore particolare dell’inatteso che si cela dietro ogni azione e, persino, nella più dettagliata pianificazione. Ciò non va necessariamente a scapito della pianificazione. Com’è ovvio, la pianificazione delle azioni è un fatto complesso che richiede studio etnopragmatico intenso, in chiave interculturale. Per agire efficacemente è infatti necessario pianificare ciò che si vuol fare. Vale per il viaggio, vale per qualsiasi altra configurazione tematica. Agire richiede un’acquisizione di competenza e un simmetrico stato d’animo che l’accompagna, esige una riflessione attenta sulla manifattura di un programma d’azione futuro e una ricognizione dello stato attuale in vista di ciò si prevede avverrà; preparazione e immaginazione del futuro vanno in parallelo, così come è importante, per essere efficaci, la sottolineatura acquisita dal richiamo dei ricordi passati, la capacità di prevedere a breve e lunga scadenza e la forza stessa dell’abitudine che consente l’economia dell’energia e un migliore coordinamento del fare.
Pianificare l’azione non è fine a se stesso – non riguarda l’ambito esclusivo dell’individuo in sé – ma richiede anche una certa consapevolezza relativa al grado e al tipo di interazione che si avrà con gli individui e con gli oggetti stessi. Insomma, dire “sono pronto per il viaggio, parto!” è un enunciato semplice da proferire che è capitato ripetere a tutti quanti tante volte; tuttavia è, a ben vedere, un paradigma complesso che va indagato in tutti i suoi aspetti pratici e teorici, soprattutto quelli concernenti l’individuo e la società, l’azione singola e collettiva, l’atto in un contesto e l’atto in potenza. E i posizionamenti teorici a riguardo sono diversificati e possono vertere su alcuni aspetti più che su altri, rielaborando, così, diversamente le impostazioni di base: per esempio, possono mettere in valore l’importanza della programmazione individuale a discapito dell’interazione tra diversi attori oppure possono vertere sulle caratteristiche potenziali possedute da alcuni enti più che sui tratti riformulati dai contesti in uso. Gran parte della semiotica narrativa sviluppata da Greimas – escluso il volume Dell’imperfezione – era, per esempio, fondata soprattutto sulla concettualizzazione della programmazione-pianificazione in cui un soggetto tendeva alla realizzazione di un compito e all’ottenimento di un ‘oggetto di valore’. Con Dell’imperfezione, l’accento si sposta invece sulla dimensione temporale e sull’attesa, sulla frattura dell’azione, sulla relazione sensoriale ed esperienziale del soggetto in relazione con altri soggetti. In quest’ottica, un’interessante definizione di ‘azione in potenza’ potrebbe essere quella che dà, in chiave etnopragmatica, Duranti: «Per agentività s’intende la proprietà di quegli enti che 1) hanno un certo grado di controllo sulle loro azioni, 2) le cui azioni hanno un effetto su altri enti (e a volte su se stessi) e 3) le cui azioni sono oggetto di valutazione» (Duranti 2007: 89). Anche in questo caso alcuni elementi sono privilegiati rispetto ad altri. Nonostante la complessità e l’ampiezza della proposta – Duranti, consapevole della difficoltà, la chiama definizione ‘di lavoro’ – si potrebbe obiettare che questa formulazione mette, forse fin troppo, l’accento sui tratti posseduti dagli enti più che sulle forme di interazione (che riformulerebbero invece, di volta in volta, il fare degli individui). Si potrebbe pensare, giustamente, che la forza del parlare – è il sottotitolo del volume di Duranti – dipenda dalla forza del parlare di altri individui che s’improvvisano ‘aiutanti’ o ‘opponenti’ al programma d’azione del soggetto principale. A questo riguardo, Wittgenstein è ferreo. Nelle Ricerche filosofiche ribadisce il ruolo dell’uso e del contesto che fa funzione di riferimento e ancoraggio del senso: il senso è tale in un contesto specifico e non è proprietà di nessun ente in astratto o idealizzato.
Per quanto strano possa sembrare, il problema non è però soltanto teorico – squisitamente linguistico o filosofico – ma riguarda il modo in cui concepiamo concretamente la nostra stessa vita in concreto. L’ipotesi di Landowski è che i nostri stili di vita individuali dipendono dal grado di posizionamento che gli individui sperimentano, in Occidente, su quattro grandi assi di valori culturali: la programmazione preliminare delle azioni, la manipolazione di altri individui, l’aggiustamento rispetto a un’azione mal concepita o da riformulare in vista di un’interazione migliore, l’incidente inaspettato. Un individuo può ‘posizionarsi’ su uno di questi grandi assi e fare della sua vita, consapevolmente o meno, un tratto ricorrente del suo modo di pensare e agire. Alcuni individui, infatti, programmano la loro vita come se essa fosse un calcolo matematico: perché ciò dà loro sicurezza e fa loro sperare di tenere sotto controllo l’imprevisto. Altri, invece, esercitano il loro potere manipolatorio sugli individui con cui interagiscono, assoggettandoli ai loro fini, cercando di imporre la loro prospettiva a discapito di altre, pur valide. Alcuni individui ancora, più sensibili, aggiustano le loro azioni sulle azioni d’altri individui, riconoscendo malintesi o errori nei loro propri calcoli. Infine, in relazione di contraddittorietà con la programmazione, l’asse dell’incidente sposta gli individui, volenti o nolenti, sul posizionamento relativo al caso e all’imprevisto. Naturalmente, non sempre, nella vita di un individuo, questi quattro posizionamenti sono esclusivi l’uno dell’altro; spesso, si integrano o possono rappresentare un’evoluzione nel modo di concepire una vita: come cambiamento e mutazione. Il punto altresì importante, qui, per i miei fini, è che Landowski definisce l’insensato e l’insignificanza come scarti rispetto a un eccesso: l’eccesso di programmazione o manipolazione, aggiustamento o incidente. Gli individui, pur talvolta posizionandosi maggiormente su uno di questi assi, accettano una qualche disponibilità – con loro stessi, con altri – a non paralizzare l’azione (e il senso) rifugiandosi nel cantuccio di un eccesso o l’altro.
Insomma, gli individui devono comunque accettare una qualche interazione al fine di evitare il rischio che la loro vita diventi insensata o insignificante. Si potrebbe dire che questo punto vale non soltanto per gli stili di vita degli individui, ma anche per lo stesso modello elaborato da Landowski. Infatti, ben consapevole dell’importanza acquisita dalle pratiche rispetto ai modelli elaborati in astratto, Landowski scrive: «Perché se siamo condannati a costruire un senso della vita, forse è innanzitutto dall’interno che possiamo riuscirci, vivendola, più che pensandola o cercando di assoggettarla dall’alto» (Landowski 2010: 110). Per quanto mi riguarda, al pari dell’attore (in dolce attesa, ma pur sempre in movimento) proposto da Valéry nella sua poesia, io non voglio mai finirla, non voglio – soprattutto quando sono in viaggio, persino quando lo preparo e lo presagisco imminente, non desidero – mai concludere, né seguire il corso degli eventi cingendoli col senso fornito da un certo tipo di storia. Piuttosto, preferisco essere risucchiato dal vortice del tempo, intento a lasciarmi andare, dinamicamente, «nel risalire il corso dell’evento, nel situarsi in esso come in un divenire, in un ringiovanire e invecchiare allo stesso tempo al suo interno, attraversando tutte le sue componenti o singolarità» (Deleuze 1990: 231). Difficile realizzarlo in uno scritto, difficile realizzarlo in senso proprio, attraversando le sue singole componenti? Facciamolo in senso improprio allora, attraverso gli ossimori, per esempio, nel transito espanso e nella liminalità contratta: risalendo, situandoci, percorrendo singolarità in fuga. Io vado: in contrappunto e per bricolage. Poi si vedrà. Io vado intanto: mi lancio a capofitto nel magma prolifico dell’indugiare. Attraverso le sue varie componenti: come mezzo senza fini preposti. Vado di traverso: indugiando. Di tutto il resto, non saprei molto ora e non m’importa affatto adesso. Vado alla deriva, vado al limite del senso senza temere il rischio di cadere nell’incomprensione. M’importa, molto, non creare rapporti di causa-effetti prestabiliti tra vita e ipotesi teoriche. Come suggerisce Ellis, mi piacerebbe «taking the reader inside our experience as if it were happening now, instead of using our life mainly as ‘data’ for preexisting sociological hypotheses» (Ellis 1995: 5). Di sicuro – di questo ne sono certo – intendo viaggiare al limite del senso per cercare di dissolverlo: il più possibile.
D’altronde, sono daccapo in partenza per un altrove, quantunque ancora in parte immaginato, sperato. Perché ne ho voglia sin da principio, sin da adesso, senza resta. Perché sono a sua volta l’autore e intendo dire – intendo dare e avere in ritorno il dono di – ciò che mi passa per la testa in festa, attratto da un suo possibile senso latente, idealmente incompiuto o incompleto. E allora? Che resti tale! Inconcluso. Che resti inconclusa «l’interrogazione continuamente ripresa al fine di sapere come il pensiero possa abitare al di fuori di sé e sia tuttavia vicinissimo a se medesimo» (Foucault 1967: 349). Perché io intendo viaggiare a senso e al suo limite, un po’ come si dice comunemente: tradurre a senso, trovare concordanza a senso, al suo limite. Vale per la vita nella sua interezza, nella sua culturalizzata segmentazione individuale e collettiva. Trascurando le ferree regole grammaticali del testo di partenza, privilegiando il senso del testo di arrivo – la ricezione (Montes, Lepsoo e Talviste 2007) – che rimanda insistentemente ad altro, alle sue fasi e ai processi intermedi liberati dal senso di discontinuità interna, fratturata o circoscritta: tralasciando il ricorso alla ferrea lettera, alla legge vincolante del piano dell’espressione dei segni. Oscillando, indugiando, se non addirittura ondeggiando, nel divenire dell’esperienza che muta in testo e richiede un contesto per lasciare traccia di sé: muta, certo, non senza esitare di suo.
Insomma, sono determinato a viaggiare – indugiare nel/sul viaggio – e scrivere al limite del senso, un po’ come si dice: a fiuto e a pelle, a corpo morto, d’istinto e sull’istante, di getto e con trasporto. Motivato? Il senno seguirà di regola, il senno di poi si arrenderà. A chi? Forse all’evidenza, alla propulsione scoppiettante del girovagare a tempo indebito, al tentativo di andare lontano e tornare – in sé – in qualche modo. Quel che è certo, è che parto e ne parlo. Parto? Beh, non proprio adesso, attenzione! Tra qualche giorno, parto tra qualche giorno, parto di fatto per la Polonia dove sono stato già un paio di volte, dove torno di nuovo quest’estate. Questa volta è il turno di Varsavia, di Danzica. Bisogna allora prepararsi al viaggio. Innanzitutto, recuperare le valigie, non senza aver prima spolverato un po’ qui e lì; toccherà in seguito, come al solito, prendere appunti, pianificare a rilento, andare a ritroso. Questa volta sarà Varsavia e poi Danzica. L’ultima volta era Cracovia: partivo per una conferenza. Questa volta, nessun dovere, me ne guardo bene: voglio scorazzare liberamente. Mi aspettano orizzonti di attesa inediti. Prevedo soglie e transizioni, pretese o da decostruire, su cui far scivolare concetti, saltellando da una parte e dall’altra dell’attenzione, concedendomi alle varie modalità dell’intrattenimento fuori tempo, fuori luogo. Tanto «non sono uno che capitalizza, che fa fruttare il sapere acquisito; sono piuttosto uno che si sposta su una frontiera sempre in movimento» (Lévi-Strauss 1988: 8). E poi che sarà mai il piacere e l’intrattenimento, il divertimento o l’evasione? Forse la libertà di fare. Me lo chiedo: a naso. Me lo chiedo e ne traggo stimolo. La tentazione è forte. La tentazione voleva indurmi, al principio, a dire: viaggiare ha solo un senso bell’e pronto, viaggiare orienta in un senso. E sarebbe finita qui: sarebbe finita con il piacere provvisto dall’indugiare di cui mi beo. Io ero tentato: cedere. Ma non l’ho fatto, ho sorvolato, mi sono rifiutato. Non mi sono piegato. E così continuo a viaggiare e scrivere al limite del senso, senza certezze prestabilite.
Così, per quanto incerto sia il viaggio al limite del senso, lo sollecito. Quel che so per certo è che viaggio prima ancora di partire: nella mia testa, nei mille preparativi che precedono la partenza, nella prosa stessa del testo che vado man mano componendo mentre mi preparo all’idea stessa di viaggio, mentre recupero le valigie dallo sgabuzzino e faccio mente locale su cosa avrò bisogno. Viaggio preparando il viaggio: mi preparo e sono già nel viaggio. Spolvero qui e lì e penso al viaggio. Uso l’indugiare come strategia di messa a fuoco sul viaggio e sul senso da attribuire (al viaggio e allo stesso indugiare). Uso l’indugiare come forma di pensiero che consente, forse meglio di altre strategie, di sforare nel limite del senso che concede spazio benefico al divenire e ai fertili flussi di pensiero. Indugiare libera. Anche se fino a un certo punto. Non posso fare a meno di riflettere sul fatto che l’indugiare ha i suoi contesti d’uso che orientano verso un senso o l’altro, verso un tipo di non-senso e il suo limite. Quali sono i miei orientamenti specifici? Mi soffermo, soprattutto, sulla preparazione del viaggio mettendo a fronte questa esperienza spicciola con modi e concezioni di viaggio d’altri autori. Poi torno sui miei passi. Indugio sui preparativi, spolvero qui e lì, mi sento già in viaggio. Scrivo.
È noto che Augé insiste sul fatto che il viaggio si configura in quanto tale al suo ritorno, nel momento in cui lo raccontiamo agli amici e lo sottoponiamo al loro giudizio (Augé 2001). Nella mia prospettiva, il viaggio inizia addirittura prima del viaggio stesso, nell’immaginazione nel suo darsi, negli stessi preparativi che tengono incollati alla sua inevitabile pianificazione. Alla necessaria pianificazione richiesta dal viaggio oppongo la deriva del caso e dell’indugiare nei preparativi. Il caso non si può certo prevedere ma quel che è sicuro è che interviene con pari diritto nelle vicissitudini umane e va preso in conto. Allo stesso tempo, l’indugiare (di cui mi servo e su cui rifletto) trova senso in contesti specifici che lo orientano in un modo o nell’altro. L’indugiare trova giurisdizione e pertinenza in ambito religioso per esempio. Un esempio, molto interessante, valga per tutti. In Sardegna, le cumbessias sono piccoli villaggi formati di edifici di una sola stanza che accolgono i devoti per nove giorni di preghiera. Ai devoti, durante questi giorni, viene chiesto di «non aver fretta ma di indugiare» (Moreddu 2008: 156): quello stesso indugio che ha dovuto (e voluto) adottare la studiosa per comprendere l’esperienza dei novenanti. Un esempio altrettanto pertinente, benché in un ambito non religioso, lo possiamo ritrovare in uno scritto-immagine di Benjamin dell’Infanzia berlinese. Benjamin si scopre miope e il medico gli prescrive occhiali e scrittoio. Benjamin accetta di buon grado, al punto che lo scrittoio diventa, per lui, un vero e proprio compagno di giochi: un compagno che gli consente per esempio di rimandare i compiti, ma, anche, di allenare e sviluppare la sua immaginazione. E, questo, in accordo con l’ipotesi di Benjamin secondo cui il gioco – per effetti mimetici – prepara alla vita d’adulto perché, con l’intervento dell’immaginazione, si produce quell’esercizio pratico volto a interpretare ruoli diversi (Benjamin 1962). Uno dei passatempi a cui era dedito Benjamin da piccolo, sullo scrittoio prescritto dal medico, era la lettura: gli bastava aprire la prima pagina di un racconto che si sentiva piacevolmente trasportato da un continente all’altro. Scrive Benjamin: «Niente era più gratificante di quell’indugiare, asserragliato da tutti gli strumenti della mia tortura – glossari, compassi, vocabolari – là dove la loro autorità nulla poteva» (Benjamin 1973: 86). Questa chiusa allo scritto-immagine da parte dell’autore fa capire al lettore quanto importante, quanto grande sia l’ampiezza dell’indugiare per Benjamin: un modo per rimandare il dovere dei compiti; una vera e propria pausa dalla scuola; la costituzione di un mondo privato e felice; l’implicita valorizzazione del tempo perduto a fare altro rispetto a ciò che è prestabilito; ma, soprattutto, l’affermazione delle virtù dell’immaginazione scaturita grazie alla lettura e al gioco.
Indugiare e immaginare vanno di pari passo per Benjamin. In qualche modo, indugiare va di pari passo, per me, con i preparativi relativi al viaggio. Indugio nei preparativi, immagino il viaggio, prendo un appunto, mi metto a spolverare. Spolverare? Mettersi a spolverare è, per buona parte delle persone, un segno denotativo: attiene a un compito, tutto sommato poco nobile, che si svolge solitamente in casa, rinchiuso in stretto ambito familiare, comunque lavorativo. Per quanto mi riguarda invece, spolverare significa proiettarsi in una sorta di sospensione connotata temporalmente, connessa alla programmazione esistenziale in costante divenire altro da sé: è un riepilogo del già compiuto e allo stesso tempo un esame preliminare di ciò che intendo fare sulla base degli eventi vissuti in prossimità dell’azione, non ancora del tutto trascorsi. È un riepilogo che non trova mai fine, rimane inconcluso, incompleto. In quanto riepilogo, tende a riportare su quanto fatto; in quanto evento in corso, rimanda alle azioni future. Così, senza volerlo, nel riepilogo, sono nuovamente in bilico tra il passato e il presente – il senso e il non-senso, il compiuto e l’incompiuto – con i libri aperti sul tavolo e la polvere sottile che fa cenno. Sono sulla soglia: spolverare, in quanto preparazione al viaggio, mi tiene in sella al senso, ma tende a trasformarsi in non-senso. È un tragitto e mi piace. È una riarticolazione di denotati e connotati. Spolverare, oltre che qualificarsi come segno denotativo, rimanda a una precisa connotazione: mettere ordine nella mente, dare una disposizione all’esistenza con la dovuta leggerezza di chi è trasportato sulla soglia e al di là di essa. Spolverare è rilassante e consente al contempo di pensare ad altro. Spolverare significa affrancarsi dallo scopo di arrivare al dunque, al fine. È il piacere libero dell’avanzare senza impegno e di lasciarsi andare al caso, allontanando l’ansia della pianificazione.
Così, spolverando, lasciando libero corso ai miei pensieri, io prendo progressivamente posto nello spazio e nel tempo in movimento: perché spolverare non è segno che avvita su se stesso senza affermare altro se non l’atto in sé. Ciò vale, ovviamente, anche per molti altri snodi del vivere quotidiano spesso trascurati dagli studiosi. Alcuni scrittori lo sanno bene. In un brevissimo racconto, di appena mezza pagina, Kafka riesce a rendere questa relazione instabile in una lapidaria frase conclusiva che rimette tutto in gioco, che riorganizza il rapporto tra senso e non-senso: «Movimento caratteristico di un simile stato è il mignolo che passa sulle sopracciglia» (Kafka 1991: 23). E, prima di questa chiusa apparentemente finale, Kafka descrive la vita sofferta di un uomo che intende liberarsi di uno stato di abbandono, un uomo che lotta contro i sentimenti e il rimorso, un uomo che tollera la presenza insopportabile di altre persone nella stessa stanza, un uomo che deve sopprimere tutto ciò che gli resta della vita. E qual è il movimento corrispondente – il piano dell’espressione – di uno stato così denso, così straripante di senso soffocante e irrisolto? Appena un gesto, appena un mignolo che sfila, quasi impercettibilmente, quasi casualmente, rapidamente sulle sopracciglia. Chi potrebbe mai dirlo? Il limite tra senso e insignificante è molto sottile. Così è pure per i preparativi relativi a un viaggio. Così è per la definizione stessa del vivere mentre il suo significato traballa. Se è vero che la nostra attenzione deve concentrarsi sulla «lotta per essere […] e rendere la vita appagante invece che priva di significato» (Jackson 2012: 173), allora io sono curioso di sapere cosa succede allorché il significato traballa, si rende mobile e si trasforma in senso molteplice in viaggio verso il suo limite.
Per questa stessa ragione, io voglio altresì, servendomi del viaggio, interrogarmi sull’interrogazione stessa e sul suo affannarsi reiterato. Ci interroghiamo sul senso del mondo e delle persone, degli oggetti e dei soggetti. Abbiamo costantemente l’ossessione «di apporre su ogni fatto, anche il più minuto, non tanto la domanda del bambino: perché? ma la domanda del greco antico, la domanda del senso, come se tutte le cose fremessero di senso: cosa vuol dire?» (Barthes 1980: 171). E se, in linea con l’ipotesi barthesiana, smettessimo di chiedercelo, crogiolandoci nello scorrere degli eventi, situandoci nell’imperfettività del tempo che dissolve limiti e frontiere per divenire incessantemente altro? E se, di pari passo, elaborassimo un’antropologia dell’insignificante? È ciò che vorrei provare a cominciare a fare, qui, nell’attesa del viaggio, parlando di viaggio, ponendomi l’interrogazione del senso e dei suoi limiti esistenziali. Forse, lo sto già facendo e non me ne accorgo chiaramente: mentre penso e scrivo, nel tempo in cui vivo, interrogandomi, interrogando l’interrogazione. Si tratta di interrogare i limiti. Se la nostra vita «è sempre vissuta entro […] i limiti dati dalla nostra capacità a comprendere e di controllarla, i limiti dati dalla nostra capacità alla resistenza alle avversità, i limiti dati dalla nostra capacità ad articolare ciò che pensiamo di sapere» (Jackson 2012: 173), allora io sono motivato a viaggiare proprio per fare vacillare questi limiti ed esserne più consapevole: nel divenire dell’azione-pensiero da un luogo all’altro, da un senso all’altro, sul crinale impervio dell’insignificante.
Se è così, la preparazione al viaggio è già incursione nel fluire del viaggio concepito in stretta continuità con ciò che lo precede, con ciò che sarà e non è ancora. Per me lo è. Il dolce prepararsi può divenire, così, una ‘forma di vita’ che – emancipandosi dai suoi aspetti negativi, raccordandosi al resto – relega il piano d’azione futura nell’ambito della probabilità mai realizzata in sé, diluita nel tempo che ne annacqua la motivazione progettuale e ne stempera il fare in un limbo di piacevole, protratta, persino amletica, titubante interrogazione. Inutile dire che prepararsi è utile al fine di fare debitamente ciò che si è programmato e si intende fare con ordine: ci si prepara a fare qualcosa, si pianifica il senso dell’azione futura o imminente, ci si proietta con cura nell’avvenire con il senno sistematizzante del presente. Ma c’è ben altro. Prepararsi può piacevolmente volgersi in un protrarsi giocoso nel tempo indefinito, fluido e disordinato che non si sottrae a se stesso e si dona inoltre in quanto altro: nei preparativi del viaggio – nel trambusto delle valigie da riempire, dei libri da scegliere, degli appunti da selezionare, dei luoghi da visitare, del riepilogo da fare, delle carte sul tavolo da spolverare – si è già lontani, si è già altrove. Prepararsi può volgersi, dunque, in un alterarsi, in un divenire altro da sé. Così è per me. Preparandomi al viaggio, io viaggio per disperdere un sapere istituzionale, dato e stereotipato al quale voglio sfuggire. Perché è necessario ribadire che esistono almeno «due mezzi per evitare l’imposizione del sapere […]: o produrre un discorso lacunoso, ellittico, che derivi e sbandi; oppure, al contrario, caricare il sapere di un eccesso di chiarezza» (Barthes 1988: 188).
Io, per mia parte, sbando, vago al limite dell’insignificante, avanzo per segmenti obliqui, lacunosi, in divenire. In questa prospettiva, prepararsi può mantenere nel flusso e aiutare a scardinare frontiere inutili: se ci si concede appena un po’ all’imprevisto, se ci si concede all’irruzione dell’insignificante, consapevoli – come lo sono io, a pelle – del fatto che «il senso, prima di abolirsi nell’in-significanza, ha ancora dei brividi; c’è del senso, ma questo senso non si lascia ‘prendere’; resta fluido, percorso dai fremiti d’una leggera ebollizione» (Barthes 1980: 112). Preparatevi dunque, preparatevi al viaggio, cari lettori, magari indugiando negli eventi, nell’ebollizione del senso che sfuma in tiepido fermento, come se non fossi io a parlare, ma l’ebbrezza della partenza vicina: di una vostra partenza. D’altronde, che importa chi parla, che importa il fatto che sia io a prendere questa iniziativa! Che importa chi è il soggetto! Più che altro, si tratta di vedere «secondo quali condizioni e sotto quali forme, qualcosa come un soggetto può apparire nell’ordine dei discorsi» (Foucault 1971: 20). Io viaggio, indugiando, per capire secondo quali condizioni, in quanto soggetto, io possa apparire nell’ordine dei discorsi. Io viaggio per capire fino a che punto l’ordine dei discorsi altrui contribuisce a realizzare le mie condizioni di soggettività. In questo, l’etnografia può avere un ruolo non indifferente.
L’etnografia è un formidabile strumento di centrifuga comparativa delle condizioni di soggettività degli individui in società: non solo degli individui presi in conto dagli antropologi, ma degli stessi antropologi e dei loro nessi esplicativi. Spesso ci rendiamo conto a cose fatte del risultato delle nostre ricerche etnografiche e degli stessi rapporti di causa-effetto messi in atto in situazione. Nelle prime pagine del suo volume sulla magia e le conseguenze della schiavitù in Madagascar – un tema estremamente serio – Graeber ci invita a riflettere sul rapporto tra letteratura e testo etnografico, sulle nostre evidenti forme di pianificazione del lavoro sul campo e gli inattesi sviluppi di cui non siamo soventi consapevoli:
«When I went to Madagascar, I took with me a lot of Dostoevsky […] I think this is one reason this book is so long. I didn’t really notice at the time, but much later, Dale Pesmen remarked to me that my portrait of Ratsizafy in chapter 9 bore a striking resemblance to Dostoevsky’s character studies. After some contemplation, I realized, yes, actually, what I’ve written here could be considered a kind of cross between an ethnography and a long Russian novel» (Graeber 2007: IX).
Nello scrivere una etnografia solo in parte siamo consapevoli degli ampi risvolti sollevati, dal nostro stesso scrivere, su noi stessi e sugli altri, sulla nostra e altrui soggettività. Indugiando e vagabondando – prima, durante e dopo l’etnografia – i nessi di causa-effetto risultano più chiari a mio parere. E, con questo, veniamo adesso a una sorta di epilogo, non propriamente conclusivo, bensì vagabondo.
Nel bene e nel male, questo saggio è stato scritto all’insegna del vagare intellettuale, senza un ordine logico di pianificazione stringente e preliminare. Ciò è dovuto al fatto che, in parte, la scrittura non è stata vista come strumento che presenta risultati dati, ma come dispositivo del pensiero: un elemento per rivelare a se stessi e agli altri flussi cognitivi e pragmatici. Più che pianificare, mi sono quindi adagiato nel contesto e ho indugiato per osservare e chiarire nessi e relazioni. Ho visto l’indugiare non tanto come forma di indecisione che blocca l’azione, ma come elemento d’interazione con me stesso e il mondo. All’inizio, ho citato Amoso Oz come esempio: amo il suo incipit diretto e realista. È pur vero però che il realismo del dire e fare è il risultato di una costruzione semiotica del testo e dell’azione: la neutralità è (anche) un effetto di costruzione semiotica e non soltanto un nesso strettamente referenziale, oggettivato una volta per tutte e tutti. Nel corso delle mie riflessioni, è stato particolarmente difficile mantenersi in bilico tra situazione in corso e trasposizione dei flussi cognitivi e pragmatici. Mi sono proiettato, il più possibile, nel processo; com’è evidente, non è stato possibile distaccarsi del tutto dallo ‘scrivere oggettivato’ se non altro perché, altrimenti, non potreste leggere con raziocinio questo saggio che non avrei scritto. In tutto questo, mi sono aiutato con l’indugio, benché non lo consideri una strategia d’accomodo: costituisce, per me, una vera e propria modalità del pensare e dell’agire in campo e fuori campo. Se è vero che il campo è una pratica di viaggio, è anche più vero che il campo non va relegato al solo viaggio, ma dovrebbe fare parte integrante di sintagmi diversi del vivere ordinario.
L’ipotesi di campo a cui si affida Evans-Pritchard – citato nel corso del testo – si fonda sulla dialettica domanda-risposta. Io ho provato a praticare un’altra strada, secondo me altrettanto proficua: quella fondata sulla dialettica pianificazione-caso, dando maggior peso al caso, seguendo le linee di fuga prospettate dal disorientamento. Accettare l’indugiare come ‘gioco linguistico’ ha significato, allo stesso tempo, accettare il principio che si è disorientati e implicati e non soltanto orientati ed esterni all’‘oggetto’ descritto (come invece molti studiosi amano far credere). Per questa ragione, mi sono sottratto il più possibile alla delimitazione del senso in una sola direzione: il senso è sempre multi-prospettico e multi-lineare. Mi sono situato sul limen e ho accettato di riposizionarmi se necessario. Ho preso esempio, in bene o in male, da diversi autori che cito qui alla rinfusa: Richardson, Ellis, Clifford, Rosaldo, Greimas, Duranti, Landowski, Wittgenstein, Deleuze. Alcuni di loro rappresentano altrettanti posizionamenti teorici rispetto alla teoria dell’azione e dell’agentività, dell’attanzialità e dell’attorialità, di cui ho parlato. Per finire, ho privilegiato il volgere verso l’insignificante della mia (non)ricerca tendendo, più che verso la messa in scena dell’incomprensibile o dell’indecifrabile, verso il grado zero della ricerca e il mettersi in forma dell’imperfettività del divenire. In definitiva, ho cercato di sottrarmi e di sottrarre senso. Purtroppo non ci sono riuscito. Sarebbe mai stato possibile?
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
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