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Tabula Gaza: frammenti a margine di un ****cidio

12di Aldo Nicosia [*]

«Un libro che non viaggia non è degno di considerazione»: questa frase troneggia nella terza pagina del volume Ho due mani per scrivere. Testimonianze dall’interno di Gaza [1], ed è stata la molla interiore che mi ha spinto a coordinare un progetto di traduzione dello stesso, avvalendomi della collaborazione di circa quaranta arabisti traduttori italiani. Tra costoro si contano colleghi che insegnano lingua e letteratura araba in diversi atenei, nonché alcuni studenti prossimi alla laurea specialistica. Tutti si sono dimostrati entusiasti nel voler contribuire a realizzare, nel più breve tempo possibile, un progetto essenzialmente solidale ed umanistico, che intende valorizzare le testimonianze di persone vittime di un genocidio ignorato, negletto e senza precedenti, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Il sottoscritto e il gruppo di traduttori volontari sono quindi convinti della necessità che queste testimonianze circolino il più possibile e vengano prese in considerazione dal pubblico italiano, spesso fuorviato dalla maggior parte dei mass-media nostrani, che ignorano la tragedia immane di un popolo o minimizzano le perdite civili tra i palestinesi, schierati a favore della potenza occupante, ovviamente per rigide imposizioni dall’alto.

Il volume si compone di 222 testi di numerosissimi autori di Gaza, poeti, giornalisti o semplici cittadini, e sono riportati in ordine cronologico, coprendo un periodo che va dall’ottobre del 2023 fino a settembre 2024. I testi sono di lunghezza varia, alcuni brevissimi, due o tre righe, altri anche di due o tre pagine. Sono stati raccolti dai curatori del volume secondo criteri non specificati, ma che si possono facilmente dedurre da una rapida analisi testuale. Credo che il loro interesse primario sia stato quello di garantire la molteplicità dei punti di vista e dei temi, dei generi (poemi, diari intimi, anche spot di aziende in crisi, richieste di aiuto, consigli, meditazioni, manifesti politici e apartitici). 

11Perché scrivere?

«Mi vergogno ogni volta che leggo uno dei tuoi meravigliosi testi mentre sono seduta su una comoda sedia dietro lo schermo del computer, sotto il tetto di casa mia, con l’aria condizionata, senza bombardamenti, caldo, zanzare e scene di genocidio intorno a me. Sono mesi che non riesco a scrivere una sola consonante! Se, come penso, è la guerra che imperversa a chilometri di distanza da me a paralizzarmi la mente, bloccarmi la  penna e farmi sembrare banale e priva di senso ogni parola che scrivo, come può allora chi vive tra la vita e la morte, istante dopo istante, essere più creativo di chi gode di una vita tranquilla, non turbata dalla polvere, dal sangue e dall’orrore?! Come?!».

Citando le parole di un’attivista, l’autrice di queste righe ci fornisce un interrogativo che arrovella la mente di tanti di noi, osservatori esterni anche se solidali. Come si può scrivere in quelle condizioni, e perché lo si fa? Eppure ci accorgiamo che dal 7 ottobre i profili dei cosiddetti social pullulano di testi, confessioni, diari intimi, poemi, in cui gli autori palestinesi raccontano le loro terribili esperienze e per ogni giorno che passa gridano al miracolo.

Un volume simile al nostro in preparazione, ma di dimensioni decisamente inferiori, porta il titolo di Gaza, Gaza, Gaza (a cura di Mohammed Zaqzooq and Mahmoud Al-Shaer [2]). Nell’introduzione firmata dai due curatori si legge: «In questo numero, condividiamo poesie, testimonianze, articoli e riflessioni sullo stato di guerra in corso all’interno di Gaza da ottobre 2023, fino alla stesura della presente introduzione, sperando che questi testi ed esperienze creino un’opportunità, per quanto piccola, di sopravvivenza. Perché crediamo che ogni tentativo di espressione sia un tentativo di sopravvivenza» [3].

Le poesie, i saggi e le riflessioni che il volume contiene sono stati scritti nell’autunno del 2023 e nella primavera del 2024 da autori palestinesi che vivono a Gaza e sono stati raccolti dai due curatori summenzionati.

Nell’introduzione al nostro testo Ho due mani per scrivere. Testimonianze dall’interno di Gaza, scrive il poeta Musa Hawamdeh [4], palestinese ma residente in Giordania: «Questo libro è stato scritto dalle persone buone di Gaza, dalle parole tenere, con le lacrime delle persone in lutto, con il dolore di madri e padri per i cari che hanno perso, con il dolore di chi ha perso i vicini, con il dolore del Regno di Dio per le case felici distrutte e per i quartieri dell’amore rasi al suolo, con il dolore delle adolescenti nei giorni precedenti il genocidio. Una vita difficile sotto l’assedio, con la fame, i divieti e l’oppressione, la campagna di pulizia etnica e di sterminio, e la cancellazione di qualsiasi elemento vitale, affinché la regione non sia più abitabile».

Queste 222 testimonianze sono frammenti di vita vissuta, da km 0, come si usa dire, scritti nell’immediatezza dell’esperienza, o a volte dopo una lunga meditazione su traumi vissuti o raccontati da parenti o vicini. Sono documenti preziosi per chi vuole storicizzare e calare nel loro giusto contesto l’esperienza che dal 7 ottobre vivono gli abitanti della Striscia di Gaza, la più grande prigione a cielo aperto sul pianeta dal 1967. A distanza di alcuni mesi dalla pubblicazione del testo originale, molto probabilmente qualcuno di coloro che hanno scritto queste pagine è stato sepolto dalle macerie, è ferito o non sappiamo che destino avrà nei prossimi giorni. Continua Hawamdeh nella sua introduzione:

«Questo diario mostrerà chi sono i veri esseri umani e chi i mostri assassini, chi sono le vittime e chi i carnefici, chi sono coloro che amano e creano la vita e chi lotta contro di essa (…). Noi sogniamo di liberare la nostra umanità senza uccisioni, sangue e cadaveri (…). Vogliamo fermare la barbarie e il mostro che non vuole riconoscere il diritto di questo popolo al proprio Paese e al suo sole» [5].

I curatori del volume hanno diviso i testi in 4 capitoli, sempre seguendo un ordine cronologico, fissando così delle tappe psicologiche o fisiche che il popolo di Gaza sta attraversando. Il primo è intitolato “Un diluvio davanti a loro e sopra di loro”, e copre l’inizio dell’aggressione fino alla fine del 2023. Ovviamente il termine “diluvio” (tufan) prende spunto dalla denominazione dell’operazione di Hamas e altri gruppi della Resistenza palestinese, condotta il 7 ottobre al di fuori dei confini del 1967, ma qui si riferisce all’infinitamente crudele punizione collettiva inferta a due milioni e 300 mila palestinesi, che anche se non concordano con la visione strategica di Hamas, non possono fuggire altrove per salvare la pelle propria e dei loro cari. Segue “Lo shock”, da gennaio a fine marzo 2024. Il terzo ha come titolo: “Annunciate la buona novella a coloro che hanno pazienza”, e copre il periodo aprile-giugno 2024. Il quarto ed ultimo è “Nessuno è come noi”, dal luglio al 10 settembre 2024.

iperarboreaTermini chiave

Per fornire un’idea sommaria degli argomenti trattati, ho proceduto ad un’analisi quantitativa della frequenza di alcuni termini, classificabili in due gruppi: cose tangibili e cose astratte. I risultati sembrano alquanto prevedibili, ma spesso il loro uso e combinazione spiazza la logica e si può inscrivere in un ambito di pensiero che rasenta “il teatro dell’assurdo”. Raccontano dell’alienazione e dell’angoscia, la solitudine, la totale impossibilità di ogni comunicazione con l’esterno. Il dolore vissuto è così forte da stravolgere la mente e far perdere qualsiasi nesso tra essa e la realtà. Nel primo gruppo le occorrenze più vistose sono le seguenti, in ordine decrescente:

Casa (bayt): 197.

Guerra (harb): 180.

Cuore (qalb): 121.

Tenda (khayma):66.

Mare (bahr): 61.

Corpo (jasad): 59.

Bombardamento (qasf): 48

Albero (shajara): 38.

Martire (shahid): 30.

Asino (himar): 28.

Lacrime (dam’): 26.

Cadavere (juth-tha): 23.

Termini astratti:

Morte (mawt): 140.

Perdita (Faqd): 82.

Vita (hayat): 80.

Tristezza (huzn): 63.

Sogno (hulm): 51.

Dolore (waja’): 34.

Paura (khawf): 32.

Pazienza (sabr): 30.

Ricordi (dhikrayat): 28.

Salvezza (Najat): 26. 

corrao-poesiaTra la non vita e la morte

Il sommo poeta palestinese Mahmud Darwish ha scritto che la Palestina è un Paese fatto di parole, che esiste solo nella mente di chi scrive e compone poemi o racconti o romanzi, e ovviamente nei suoi lettori: «la letteratura è stata ed è un modo per elaborare i traumi e per affermare che palestinesi si nasce, indipendentemente dal luogo» [6]. Qualcuno invece la considera un Paese di immagini, e magari ancora la sogna, forse per i sedimenti di una retorica patriottica impartita a scuola: «Sono vent’anni che aspetto una patria che ci unisca, per cui vivere, sognare, crescere e ridere» (58) [7]. In altri, invece il senso di disillusione sulle motivazioni di chi dirige la resistenza  contro l’occupazione è forte:

«È da stupidi difendere una patria in cui non ho più una casa. È stolto sacrificarmi affinché i miei figli possano vivere senza casa, ed è vergognoso lasciare mia moglie in preda ai cani, dopo di me. Una patria è il luogo dove ci sono le condizioni imprescindibili per vivere, non quelle che causano la morte! (…). Non credo nella morte per la Patria; essa non perde mai, i veri perdenti siamo noi. Quando il Paese è in guerra, chiedono ai poveri di difenderlo, poi quando la guerra finisce, convocano i politici per spartirsi il bottino» (67).

Il cittadino della Striscia di Gaza, dopo esser stato sfollato più volte da casa propria o dalla sua tendopoli improvvisata, vive da oltre 13 mesi in una sorta di limbo che lo mantiene sospeso tra una parvenza di vita e la morte, in un quotidiano e ininterrotto tentativo di scampare a quest’ultima. Spesso si chiede: «Che male abbiamo commesso per meritare tutta questa sofferenza? » (41)

È consapevole dell’isolamento internazionale e del tradimento dei governi arabi: «Tutto il mondo aspetta il tuo silenzio o la tua morte, non hai altra scelta o altro margine!» (65). Anche il mare che teoricamente sarebbe l’unico orizzonte di salvezza è chiuso dalle forze di occupazione che lo assediano:  «Il mare è davanti a te e la morte dietro di te, sopra di te, sotto di te, accanto a te. Dovunque vai c’è morte!» (65). Ci si rivolge ad essa come si farebbe con una persona: «Perché hai fatto tutto questo, Morte? Che tu vada in malora, Morte!» (31).

I palestinesi sono consapevoli di partecipare come attori in un film la cui sceneggiatura  viene dall’inferno. Ovunque si sente odore di polvere da sparo e di sangue (51). E poi si tratta di «sangue vero, non di tintura. Anche la morte è reale. Tutte le scene che vedete non sono effetti speciali» (55).

Una professoressa vuole dare un voto eccellente agli studenti di biologia, perché sanno ricomporre le ossa dei cadaveri meglio di chiunque altro (66). I frigoriferi per i gelati accolgono i cadaveri perché non sanno dove metterli, e ci si chiede se qualcuno  avrà ancora voglia di mangiare gelati, evocatori di immagini macabre (1).

Ma alla vista del sangue ci si abitua in fretta e spesso subentra una certa atarassia o indifferenza, che non è altro che un tentativo di autodifesa dalla follia. Per chi ancora nutre una minima speranza di rivedere casa propria o i ruderi che ne rimangono, rimane il dubbio atroce di non riuscire più a riconoscerla, come pure la propria strada o il quartiere: «La nostra vita è diventata un cumulo di pietre. I nostri sogni sono sparsi per strada. Il nostro futuro è sepolto tutto le macerie» (20).

C’è chi dopo un’esperienza di salvataggio casuale dalla morte, si sente rinato: «Immagina di stare per addormentarti sul tuo cuscino, poi senti un boato e vieni catapultato in un angolo della stanza con montagne di pietre che cadono intorno a te. Non senti più alcuna voce, praticamente sei in una piccola tomba. Non ti puoi muovere, perché le pietre ti assediano da ogni lato. Ti metti ad aspettare gli angeli della morte che vengono per farti il processo, (…) poi cominci a riprendere coscienza. Ho mosso le dita della mano e dei piedi! Sono ancora viva!» (78).

Un altro ritiene di aver vissuto un lungo sogno durato 43 anni, in cui possedeva una casa, un lavoro e un futuro apparentemente brillante: «Da quel sogno mi sono svegliato due o tre volte nel 2010, 2012 e 2014. Risvegli leggeri, dopo i quali sono tornato a completare il sogno, finché mi sono svegliato il 7 ottobre e da allora non ho più dormito. Chi mi spiega come si fa a continuare di nuovo il sogno?» (80).

C’è un profondo senso di nostalgia per la casa distrutta, le proprie cose personali, la perdita di familiari, amici, parenti: «In quest’attacco abbiamo perso tutto. Ognuno  di noi è diventato un agglomerato di turbe mentali con sembianze umane» (3). La scissione all’interno di sé la troviamo espressa, in maniera plastica ed efficace dalla seguente confessione:

«Ho visto i morti della città camminare accanto a me alla ricerca delle loro spoglie, mentre io, alla ricerca di me stessa, con tutte le membra ancora sul mio corpo, non ho trovato altro che un cadavere senza vita. (…) Io e il mio corpo siamo separati, anche se camminiamo insieme!» (117).

sibilio-poesia La patria, i dubbi, le speranze

Il cittadino di Gaza si sente alla mercé di tutti, in balia di una tempesta che lo ha improvvisamente sradicato: «Non sei più  padrone di te stesso, non puoi decidere chi essere, come vivere. Altri decidono per te e sei obbligato a fare cose che non vuoi (…), decidono anche come e quando morirai (…). I politici ti hanno tolto la libertà di scegliere e ci mettono gli uni contro gli altri, per sopravvivere (…). Guarda i volti della gente: rughe, canizie, pelle scura, sopracciglia arcuate. Il sorriso appartiene ormai al passato (…). I politici non hanno ancora saziato i loro istinti col sangue dei bambini, delle donne e degli anziani» (89).

C’è anche chi dubita della sua fede: «La tua religione ti ha detto che Dio è assetato del nostro sangue, e per assecondarlo dobbiamo morire? Che razza di divinità adori?» (92).

Qualcuno è convinto che bisognava morire da bambini prima di assistere a questa guerra, alla trasformazione dell’uomo in ruderi alienati da noi stessi (93).

«La nostra tristezza è più grande del raglio del nostro asino, delle nostre fantasie e desideri di paesi, di libri, colori e quadri (99). I cuori non ce la fanno più a contenerla tutta (48). Non c’è più energia per esprimere tristezza. Qualcuno se ne meraviglia, addirittura se ne vergogna. Se la memoria non ha più spazio, si chiede alla guerra di concedere una tregua per poter scrivere quello che è rimasto in essa e nel cuore, per pronunciare le ultime parole agli amici, per abbracciare mamma e papà per la prima e l’ultima volta, per vivere una sola notte d’amore nella vita, per piangere (101).

C’è l’eroe Zahir (100), che seppellisce il fratello e torna al suo lavoro, come se nulla fosse. Eppure le persone di Gaza non sono né angeli né diavoli, ma gente normale, anzi la guerra ha reso tutti più crudeli (95).

Una menzione speciale ricevono gli asini, da ringraziare perché trasportano feriti e cadaveri. Sono l’unico mezzo di trasporto di cose pesanti e non chiedono niente in cambio per i loro servizi.  Sono gli unici a condividere con gli abitanti della Striscia morte, malattie e l’eterna diarrea: «Gloria all’asino» (13). Eppure qualcuno gli nega un po’ di acqua, a causa della sete che affligge tutti.

Un tema che ritorna in tanti scritti è quello dell’impossibilità di comunicare agli altri quello che si sta vivendo. La lingua è incapace di esprimere e descrivere gli eventi, vista l’assurdità della situazione. Quindi le parole perdono senso e non possono tradurre il senso di oppressione. In quest’atmosfera di desolazione e disperazione, una rara voce di speranza e di ottimismo viene da questo solenne inno alla vita, che è poi quello che dà il titolo all’intera raccolta:

«Ho due mani per scrivere, per abbracciare, per agitarle quando ascolto le canzoni, per bere il tè, per realizzare il sogno di guidare un’auto, non per sollevare pietre e cercare tra le macerie i miei cari rimasti o le mie cose (…). Ho due occhi per osservare gli amanti, il mio albero che cresce nel giardino di casa, non per vedere i brandelli di corpi sparsi…» (49).

Qui sopra abbiamo cercato di fornire delle chiavi di lettura dei saggi di diari fino al 30 giugno 2024, con la consapevolezza che la maggior parte della popolazione di Gaza potrebbe non trovare la forza o i mezzi per diffondere i propri messaggi e le proprie riflessioni su vasta scala. Forse in molti fino all’estate scorsa resisteva la speranza della fine di un attacco, con la conclusione di un accordo di tregua, anche se temporanea.

Come si evolverà il pensiero degli abitanti sulla propria sorte e sulla sopravvivenza, sempre attaccata ad un filo sottile, nei mesi più caldi e asfissianti dell’anno, senza cibo, né un tetto, e alla mercé delle bombe israeliane? 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
[*] Rielaborazione dell’introduzione alla traduzione del testo originale arabo, di prossima pubblicazione presso Edizioni Q. Roma. L’analisi si ferma al brano datato 30 giugno 2024, pag. 118.
Note
[1] Li yadani li-aktuba, Dar Tadween, Amman, 2024.
[2] Gaza, Gaza, Gaza, (a cura di Mohammed Zaqzooq and Mahmoud Al-Shaer), numero speciale di  ArabLit quarterly, a cura di Marcia Lynx Qualey, vol. 6, n. 1, spring 2024. Si tratta di un progetto in collaborazione  con Majalla 28, una rivista letteraria di Gaza.
[3] Ivi: 4.
[4] Musa Hawamdeh è anche il fondatore della casa editrice Tadween di Amman.
[5] “Li yadani li-aktuba”, cit.: 8.
[6] Elisabetta Bartuli, “Un Paese fatto di parole”Palestina”, in Palestina, volume speciale de The Passenger , Iperarborea, Milano, 2023: 87-102. Sulla poesia palestinese cfr. Francesca Maria Corrao, (a cura di), In un mondo senza cielo. Antologia della poesia palestinese, Giunti , Firenze, 2007, e Simone Sibilio, Poesia araba moderna e contemporanea, IPO, Roma, 2022.
[7] I numeri tra parentesi si riferiscono a quelli dei testi e non delle pagine dell’originale, allo scopo di facilitare l’eventuale ricerca.

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Aldo Nicosia, ricercatore di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Bari, è autore de Il cinema arabo (2007) e Il romanzo arabo al cinema. Microcosmi egiziani e palestinesi (2014). Oltre che sulla settima arte e la censura, ha pubblicato articoli su autori della letteratura araba contemporanea (Haydar Haydar, Abulqasim al-Shabbi, Béchir Khraief, Amira Ghenim), sociolinguistica e dialettologia (traduzioni arabe di Deledda, Camilleri e de Le petit prince in algerino, tunisino e marocchino), dinamiche sociopolitiche nella Tunisia, Libia ed Egitto pre e post 2011. Tra le traduzioni più recenti si segnalano la raccolta Kòshari. Racconti arabi e maltesi (2021) e Bidayàt. Antologia di romanzi arabi (2024).
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