di Nicolò Atzori
Le guerre degli altri
Sono tempi grami per parlare di indipendenza, separatismo e autonomia, in qualsiasi forma li si possa concepire. Lo sono perché, in questo momento, a non troppa distanza da noi accade che migliaia di civili inermi vengano trucidati in nome del sacro mantenimento di assetti in realtà minati, già da tempo, nella fisiologica manifestazione delle culture o dei semplici bisogni di salvezza che da un lato esecriamo e dall’altro sottovalutiamo come fossero una festa dei popoli; salvo apprezzarne la complessità (e gravità) sociale. Lo sono perché quelle forme di auto-conservazione ideologica hanno motivato questa ed altre tragedie, con noi ad assistere inoperosi.
Mi capita davanti agli occhi quello che nel linguaggio digitale chiamiamo “post”, contenuto al cui ambiente di riferimento, quello dei social network, è accordato il valore di piazza virtuale, sebbene il peso delle esternazioni sia invero superiore (e non di poco!), nell’economia dei dibattiti, data la loro prolungata permanenza e fruibilità.
La riflessione in questione, ancorché autorevole nel mondo di quello che possiamo chiamare sardismo [1], è solo una delle tante che denuncino gravemente il paradossale impianto cerimoniale dello scorso 4 novembre, andato in scena a Cagliari per celebrare la Festa dell’Unità nazionale e Giornata delle Forze armate e, nel calendario indipendentista, data in cui invece rammentare le migliaia di ragazzi «strappati dagli ovili e dai campi sotto la minaccia delle armi, e mandati a morire in nord Italia» – dirà – per giustificare e garantire l’esistenza di uno Stato, quello italiano, nel quale tanti sardi – di ogni estrazione o età – non si riconoscono. «Oggi per noi Sardi non è, e non può essere, una giornata di festa. Per noi Sardi oggi è una giornata di lutto», chiosa la figura in questione. Figuratevi la sua faccia quando, sempre su un social network, il sindaco della città ha dichiarato: «Oggi Cagliari è capitale d’Italia, con orgoglio. Auguri a chi crede nella Nazione e grazie a chi è caduto per la nostra libertà» [2].
E chissà cosa ne avrebbe detto Emilio Lussu, quel cavaliere dei rossomori così bene raccontato da Giuseppe Fiori nell’omonima opera a partire dalla quale si intende qui ragionare [3]; chissà cosa quel fervente interprete e primo promotore degli ideali sardisti avrebbe detto e pensato osservando come, poche ore dopo, le piazze dello stesso centro e gli spazi di quella stessa parata si riempissero di sardi [4] (e non solo), compatti contro una delle più brutali stragi a cui l’Occidente moderno abbia assistito dopo la Seconda guerra mondiale. Ma la guerra, col pacchetto completo delle sue iniquità, delle sue brutture umane, non è solo una dimensione all’interno della quale le culture abbiano concepito dei percorsi di confronto con l’Altro, ma un topos che, pure nell’empietà della sua proiezione semantica, ritorna a più riprese nel processo di costruzione di un’identità sarda, possibile anche nei lineamenti tragici della storia isolana, senza i quali non avrebbe espresso un così robusto e capillare sentimento di rivalsa e auto-determinazione.
È lo stesso Emilio Lussu a sottolinearlo quando, pochi mesi dopo la nascita del Partito sardo d’Azione (17 aprile 1921) e in risposta all’opuscolo di Umberto Cao, sostenne «che il primo discorso collettivo sull’autonomia sarda, il primo abbozzo del progetto politico sardista, era maturato tra i soldati della Brigata Sassari» [5], il cui inno risuonava proprio nel 4 novembre cagliaritano e a partire dalle cui imprese militari il popolo sardo scorse le basi di un mito bellico di auto-riconoscimento culturale e morale della cui carica emozionale non è sopito l’eco. Come potrebbe essere altrimenti, visto che quel leader poliedrico, Emilio Lussu, il 2 dicembre 1915 viene nominato tenente per merito di guerra proprio dopo essere sopravvissuto, assieme ad una manciata di altri ufficiali della “Sassari”, al truce massacro dei Razzi e delle Frasche.
Non è nemmeno laureato, l’Emilio ragazzo, quando comincia ad annusare le caserme, ma a quella stentata «laurea di guerra» vi perverrà qualche tempo dopo, sebbene con affanno. Ce lo racconta, con dovizia giornalistica, quel Fiori che nelle sue dense pagine accompagna il Lussu combattente con il reduce, il deputato, l’aventiniano, il confinato, lo scrittore, il leader, il sardista ecc., con quest’ultimo che sembra prenderli per mano consegnandoli tutti al cospetto della storia. Di sangue è insomma intriso il sardismo, soprattutto quello definibile “della prima ora”, e una fiera impronta oppositivo-resistenziale, comune anche a chi non ha avuto la sfortuna di avvertire lo scorrere del tempo sotto il fuoco nemico, permea la sua grammatica. Sulle note delle raffiche dei mitragliatori si è così generata una cosmogonia del sardismo, dove resistere è un verbo ricorrente nell’atteggiamento lessicale di chi può dirsi irrimediabilmente sardo, cocentemente proiettato verso una condizione catalizzata dalla generazione del cavaliere dei rossomori, come lo apostrofarono dispregiativamente.
Come nota Gian Giacomo Ortu, quantunque «la sordina messa nel ventennio fascista alle voci più vive ed autorevoli del sardismo democratico (come quelle di Emilio Lussu, Camillo Bellieni e Francesco Fancello) abbia determinato nell’isola una larga perdita di memoria dell’intera tradizione storica e politica dell’autonomismo sardo» [6], è nell’opposizione parimenti energica al fascismo che si costruisce il senso politico dell’esistenza sardista negli anni Venti, quelli del bastone e dell’agguato, della corruzione e dell’illecito. L’antagonismo si fa espediente letterario: l’eclettico Lussu tratteggiato da Fiori mediante lo stesso impianto dell’opera – un capitolo per ruolo idealmente o praticamente ricoperto – assumerà la guida dell’opposizione a colui che, nel 1922, otterrà di avocare a sé le prerogative elencate dallo stesso cavaliere dei rossomori per definirlo dittatore, che così risuoneranno antiteticamente.
Non credo, dunque, vi sia troppo da sindacare sull’empietà della guerra e sull’idiozia di concetti come “guerra giusta” et similia: è questa, mi pare, una delle sedi per ribadirlo, soprattutto alla luce di queste ore sanguinose. Ben più complesso e importante, infatti, è stabilire quale sia il punto di arrivo di conflitti che, come quello che inermi osserviamo, ottengono di distruggere vite innocenti. In tal senso, la vita di Lussu sembra insegnare che è nell’aperta e coraggiosa condanna dell’empietà umana che si genera la crescita civile; anche e soprattutto per chi la guerra non l’ha chiesta e rischia, secondo dopo secondo, di morirne.
Il re è nudo: simbologia letteraria e radici semantiche dell’icona Lussu ne Il cavaliere dei rossomori
Le sapienti pagine di Giuseppe Fiori sono intrise di simboli, come diversamente non potrebbe essere raccontando la figura, poliedrica e instancabile, di Emilio Lussu. Simboli un po’ per sé e un po’ per noi lettori di ieri e di oggi, più o meno attenti e responsabili, senza i quali non potrebbe esistere una coscienza di “popolo”, un comune senso di appartenenza sulla scia degli sforzi primordiali del protagonista di questo viaggio giunto alla sua quinta edizione. Questi segni, queste figure ricorrenti e meno nel dettato, si inseriscono nell’elaborato e scrupoloso narrato tentando di connettere quell’altrove culturale – frequente nelle nostre narrazioni – al nostro presente politico in un’isola che ci sfugge, tant’è complessa.
Sperava tanto, l’Emilio Lussu di Giuseppe Fiori, per essere un sardo di oggi, questo certo più prudente (e disilluso), ed è innegabile che la speranza, pervasa com’è da una prelogica tensione, già simbolizzi, in un gruppo, la coscienza di un’appartenenza comune, di una teleologia sacra da difendere e preservare intatta, di una quasi fatalistica missione.
Missione che, evidentemente, si ammanta del simbolo più potente, nei secoli recenti, per chi dica Stato o nazione da queste parti: il vessillo dei “rossomori”, incessantemente risemantizzato a seconda dell’aria che tira, che si lega indissolubilmente al volontaristico passato di sangue e sopruso della Sardegna oramai quasi assurgendo a slogan o dichiarazione d’intenti in qualsiasi dialogo coinvolga il destino amministrativo dell’isola. Come conferma, d’altra parte, la scelta del neonato Partito Sardo d’Azione di farlo proprio (1921). “Rossomori”, di fatto, come la bicromia che si staglia contro il bianco di una bandiera concepita, come ormai accertato dagli studiosi, dalla stessa Corona d’Aragona vittoriosa in battaglia contro quei “mori” che, «come nemici della fede cristiana, venivano dunque proposti dall’iconografia medievale in modo quasi diabolico, per far meglio risaltare i loro aspetti negativi», nota Luisa D’Arienzo, cui si rimanda per approfondire [7].
Più precisamente, è nel divario ideologico tra industriali ed operai, Lussu in testa, che si inscrive la scelta dell’ingrata etichetta, da attribuirsi a Ferruccio Sorcinelli, dei primi esponente nel settore minerario. L’atmosfera civile e politica, invece, è quella del “secondo momento” del fascismo isolano, dove il principale nemico è ora l’operaio.
Già prima d’allora, a ben vedere, è durante la tragedia umanitaria della Grande Guerra che Lussu e i suoi primi compagni d’azione – assieme all’intero corpo militare impegnato a morire nelle glaciali trincee alpine e forse alla maggioranza silente dei sardi – prendono atto della delusione verso la figura dell’allora sovrano, Emanuele III Re d’Italia, del quale i sassarini del 151° reggimento potranno solo constatare l’imprevisto: «Una delusione. È risaputo: noi sardi siamo di piccola statura. Ma il re era ancora più piccolo. Un re così piccolo!», scriverà Lussu. La corporeità, modesta nel re, è un simbolo centrale nei rapporti di potere e nella costruzione di un’egemonia personale [8], e sembra diventare cruciale nelle prime interpretazioni reazionarie del soldato di Armungia, quel «remoto villaggio tra i monti del Gerrei, Sardegna sudorientale» in cui, nel 1890, vedrà la luce, da un padre già nato «in lenzuola ricamate», Emilio.
I Lussu, infatti, sono “patrizi d’alto rango”, come li definirà Fiori, ovvero armamentari-cavalieri-cacciatori, fra le altre cose distinti dai ranghi inferiori per la dimestichezza con l’arte del cavalcare: che non è equitazione, preciserà Antonello Satta, ma «l’arte di andare a cavallo a staffa lunga» [9]; nel loro caso, si tratta di agiati proprietari terrieri visceralmente legati al lignaggio e al suo onore, costantemente all’erta nel preservarlo dalla perdita di prestigio magari indotta dalla scarsa dimestichezza dimostrata con cavalcatura o perizia nel tiro. Emilio Lussu crescerà in una comunità patriarcale e mascolina, dedita a pastorizia e agricoltura e secondo i dettami impliciti di quel “codice patrizio” che viene a simboleggiare, forse non troppo arbitrariamente, le ataviche meccaniche riconosciute a larga parte della Sardegna rurale e così bene allacciate al dibattito nazionale nelle descrizioni gramsciane del rapporto tra culture egemoniche e culture subalterne; inevitabilmente, è nel grembo di queste che si plasmerà il physique du rôle del “fante-pastore-contadino” che, certo non a caso, diventerà uno fra i più compositi che i sardi potessero vantare.
Nelle scrupolose trame del ricamo narrativo, fra le cui righe si apprezza costantemente la maniacale precisione del cronista che vive nel (e per il) suo tempo valutandone soprattutto il respiro politico, Armungia e la sua appartenenza culturale è solo uno dei mondi simbolici nei quali si espleta la poliedricità del Lussu tratteggiato da Giuseppe Fiori. Uno su tutti, ora speranzoso simbolo di un altrove bramato ed ora di un incerto domani, è proprio l’infinita frontiera, per molti casa, che separa quel piccolo angolo di terra familiare in un’aspra Sardegna dai palcoscenici nei quali avverrà la vera e propria gestazione del Lussu che riecheggia nelle righe dei suoi biografi: il mare, instancabile divaricatore di mondi, dove Emilio si avventurerà, 13 maggio 1915, a bordo del transatlantico America, già nominalmente proteso verso una mitologia che la lente socio-antropologica ha potuto rievocare nell’indagine del Mezzogiorno d’Italia durante i primi decenni del Novecento e fino almeno alla sua metà.
Da Armungia alla cima dell’Aventino, fra i colli che slanciano la Capitale, si profila la principale direttrice culturale dell’Emilio Lussu capofila – e icona – dell’antifascismo, lassù dove trarrà la sua linfa simulacrale lo scollamento politico e civile noto come secessione dell’Aventino, cui ricorsero i dissidenti che, come l’armungese e i suoi compagni, si opposero all’ormai deliberatamente totalitario regime fascista, all’indomani dell’omicidio di Giacomo Matteotti, decidendo di proclamare l’impossibilità di riprendere i lavori della Camera finché un nuovo governo non avesse ristabilito l’assetto e le relative libertà democratiche. Non servirà a nulla, sebbene i secessionisti avessero agito in un momento di grande difficoltà del regime: in risposta, il 3 gennaio del 1925 Mussolini pronuncerà un discorso destinato a rappresentare l’inizio formale della vera e propria dittatura; Lussu e compagni, inizialmente decisi a formare un vero e proprio antiparlamento, vennero dichiarati decaduti dal mandato.
Sono pagine commoventi, ora. Il miglior Fiori, nel condensarvi la non comune capacità analitico-descrittiva del giornalista unitamente alla straordinaria propensione narrativa, dipinge mirabilmente il Lussu dei tempi più cupi, stoicamente catartico nella consapevolezza di baluardo antifascista che ne dirige gli sforzi, irrimediabilmente inviso ad un regime che non esita, alla prima occasione, ad armarsi per tentare di ucciderlo. Il casus belli è il fallito attentato a Mussolini dell’ottobre del 1926, dove il Duce, a Bologna per una parata, viene sfiorato da un proiettile esploso da Anteo Zamboni, appena sedicenne, che di lì ad appena qualche secondo giacerà inerme dopo quattordici pugnalate e un colpo di pistola. Il capo del fascismo, spaventato e furente, ordinerà la più muscolare delle reazioni censorie e punitive, rivolta a complici e generici nemici del regime, Lussu su tutti.
Con questi propositi, intorno alle 22:45 del 31 ottobre la casa del leader sardista, affacciata sulla centralissima Piazza Martiri d’Italia di Cagliari, è presa d’assalto, ma a perdere la vita non sarà lui bensì Battista Porrà, 22 anni, ferroviere: Lussu spara un colpo per difendersi, uccidendolo. Quella sera, pochi minuti prima, attraversava la via Manno, su cui la piazzetta insiste, anche un diciassettenne Giuseppe Dessì, che si imbatterà nel Lussu «solo davanti alla folla, [dei fascisti diretti a casa sua, ndr] […] col suo lungo passo da montanaro. Non v’era in lui niente di spavaldo, ma solo calma e disprezzo».
È l’inizio di un calvario lacerante, prima da prigioniero poi da confinato a Lipari, dal 1927. Segno indelebile di questa devastante odissea è la malattia, innescata dall’esperienza carceraria e che fiaccherà cronicamente Lussu per il resto della sua vita. Ne risentirà indirettamente anche sua madre, fiaccata da un figlio malfermo, che scriverà invano al Duce per invocare la sua clemenza; sarà grande il disappunto di Emilio, risoluto nell’accettare un destino ingrato:
«Considero mio nemico personale chiunque voglia interferire nella mia posizione di confinato politico per provocare qualunque provvedimento di clemenza».
La malattia, nel suo pervasivo potere alienante, sembra avvalorare in Lussu l’iniquità della prigionia e poi del confino, ristabiliti nei tratti umani del sacrificio salvifico e della tempra da onorare. Sardo d’altri tempi, direbbe qualcuno davanti alla paternalistica prudenza degli antropologi.
Dal confino fuggirà nel 1929 per approdare esiliato in Francia, giunto attraverso Tunisi a bordo del motoscafo Dream V, salpato da Lipari. «Sto benissimo. Baci. Emilio», scriverà poi a sua madre, anch’ella malconcia, il 1° agosto di quello stesso anno, appena sbarcato a Marsiglia.
Lipari consente di estendere la presente riflessione agli ultimi tratti simbologici che mi sembra pertinente affrontare: quelli implicati dall’esilio e dal confino, quindi della privazione e della lontananza e, in tal caso, delle meccaniche di associazionismo segreto favorite dalla vita nell’isola, monitorata da scagnozzi fascisti e personaggi d’ogni tipo. A questo proposito, è stupefacente la scrittura quasi antropologica che Giuseppe Fiori ne offre, ed è facile fantasticare su quale indagine scientifica si sarebbe potuta condurre di simile contesto, con una organicità etnografica sua propria e delle dinamiche spazio-temporali, relazionali e sensoriali – meticolosamente descritte dall’autore – direttamente incidenti sui modi di esperire e gestire lo spazio e quindi organizzare la fuga tentata più volte da Lussu e compagni fino a quella, decisiva, verso Tunisi, tappa intermedia verso la Francia.
Nuovamente proteso verso un altrove oltre il limite del mare, Lussu è ora anelante alla libertà; solo pochi anni prima, vi era invece sospinto in quanto confinato da quella patria che anni addietro, speditolo al fronte, ne acclamava il sacrificio sull’altare della storia. Sarà la Francia a suggellare la missione intellettuale e l’anelito iconico di Emilio Lussu, che situerà il suo attivismo politico nel crocevia delle culture mitteleuropee, minacciate dall’ombra nazista e per questo bisognose di un ancora più gravoso e lucido impegno associativo, fra simili che condividono le medesime paure e le medesime speranze. Fra le altre cose, comincia a scrivere regolarmente per mantenersi, esplorando un ulteriore livello umano accordatogli dal suo biografo e, nello stesso 1929, darà vita, assieme ad altri esuli antifascisti, al movimento Giustizia e Libertà, apparentemente dalle alterne fortune ma decisivo, pure nella sua disomogeneità, per la costruzione di un immaginario della Resistenza in Italia; “continuato”, qui, dal Partito d’Azione, nato nel 1942 e della cui esistenza Lussu verrà a conoscenza solo l’anno successivo.
La condizione geografica del leader sardista risulta quindi, in certo modo, decisiva per una lettura complessiva del fenomeno fascista, che ormai imperversava, ancora più brutalmente tradotto, nel cuore dell’Europa, e Giuseppe Fiori è nuovamente abile a restituire sia la specificità del fatto politico o generalmente culturale che, con la stessa precisione, l’afflato generale di una concatenazione di vicende misurabili solo all’interno di un quadro complessivo, quello dell’Occidente europeo degli Anni Trenta, dilaniato da tragedie e tensioni. Proprio una di queste, l’ennesima, motivata da ragioni che possiamo ben definire di spionaggio, condurrà da Emilio Lussu a Joyce Salvadori, compagna di una vita intera, 22 anni più giovane ma con altrettanta consapevolezza: lotta e resistenza diventeranno, per sempre, un fatto di coppia. Del ritorno in Italia dopo quattordici anni esule, il 12 agosto del 1943, per il valico legale, ci dirà con parole di straordinaria evocazione lo stesso Emilio Lussu:
«Quando arrivai a Ventimiglia, mi volli fermare, farvi un giro e visitare il mercato dei fiori. Tutti parlavano italiano! Mi sembrava una meraviglia, un sogno! Ne provai tanta emozione che stentai a tenermi in piedi, e dovetti appoggiarmi a una colonna per non cadere. L’Italia!».
Joyce, lasciata con la promessa di ritrovarsi a Roma, gli sarebbe andata incontro, in treno, dalla Capitale: si ricongiungono ad Imperia.
Del sardismo o del sentirsi sardi oggi
Quando, da specialisti, tentiamo letture del pensiero altrui, implicitamente cerchiamo di situare il nostro rispetto a quelle posture; certo, questo indubbiamente riferisce di quel senso scientifico del dovere e del ruolo accordatoci dalla società, ma, a volte, di questa scordiamo di essere parte noi stessi. Nello scrivere di quel che diciamo sardismo, di coscienza nazionale sarda o di qualsiasi atteggiamento riferisca di un senso comune, di un’identità collettiva, dell’appartenenza ad un qualcosa di condiviso e non perfettamente circoscrivibile, ad esempio, mi rendo conto di come la società sarda appaia intorpidita nel sentimento e maldestra nei modi del dibattito, stritolato a vantaggio di partite ben più mediaticamente poderose.
Eppure, alla soglia dei 32 anni, coetaneo del Lussu degli anni ruggenti, fra lotte di piazza e strategie parlamentari, montante il fascismo nell’Isola, realizzo di non avere mai davvero fatto i conti e né rilevato, ancorché frequentatore di ambienti sensibili, un sentimento di condivisione collettiva, di “distribuzione morale” che sfoci o quantomeno contempli seriamente e concretamente un assetto effettivamente autonomista o un sistemico slancio operativo almeno in tal direzione orientato. Per un “giovane” sardo del 2023, insomma, il termine “sardismo”, sebbene anticamente ritenuto unico depositario di istanze di auto-determinazione, comunque le si intenda, può assumere dei contorni fumosi, spesso corroborati da linguaggi criptici e anacronistici, non in grado di interpretare semanticamente il momento storico. Può dunque apparire come un qualcosa di pittoresco, bizzarro, che diremmo folcloristico.
Allo stesso tempo, però, non ci si può non rendere conto di quante partite si stiano giocando all’interno della sfida autonomista, intrisa di implicazioni economiche e di welfare, e da essa abbracciate in quanto decisive per il futuro della Sardegna. L’invasione eolica, ad esempio, per dire la più attuale, su cui insistono ecologisti ed indipendentisti sardi qualificando e codificando la vicenda con espressioni come “colonialismo energetico”, è uno degli scontri più aspri sulle tavole rotonde provinciali e locali, già discusso nella vivace sede di Dialoghi Mediterranei [10]. Non solo: si tratta di una dinamica che facilita, in certo modo, la comprensione del cambiamento negli spazi e nei modi materiali di espressione delle idee e suggestioni sardiste, al momento più vivaci nel contesto localizzato della minaccia – secondo comizi, esigue assemblee e manifestazioni più formali che sostanziali ma non certo per questo meno valide, anzi – e attive, in più larga misura, nell’ecosistema digitale sardo tra blog, raccolte fondi e continue dichiarazioni d’intenti da parte di politici in odore di elezioni o amministratori isolati.
A mio avviso, un grande ruolo simbolico riveste, nell’economia del nostro discorso, il corteo svoltosi, a Barumini [11], all’ombra di una dei più monumentali simulacri del panorama archeologico sardo, Su Nuraxi (Il Nuraghe), indiscusso riferimento monumentale e significante di quella storia dei sardi a cui si accorda il ruolo di panorama semantico e particolarmente cosmogonico dal quale attingere legittimazione e riconoscimento, spesso in sede politica. L’esempio, mi sembra, è quello dell’incontro fra le esigenze dell’istanza resistenziale – e di condanna della minaccia paesaggistica – e quelle patrimoniali, simboleggiate dall’imponente nuraghe alle porte del paese; l’evento, insomma, sembra declinare in chiave cerimoniale il connubio tra la più attuale e pregnante causa in materia di auto-determinazione e l’identificazione subregionale del Noi minacciato nelle sue possibilità territoriali (e quindi di tutela del patrimonio).
Dal canto suo, la dimensione del patrimonio culturale, stabilmente ai primi posti fra gli argomenti clou del dibattito pubblico, si è ormai stabilmente codificata come uno degli ambienti di confronto più frequentati soprattutto virtualmente, dove un peso mediatico considerevole è assunto da figure sicuramente avulse dalle dinamiche istituzionali ma non meno capaci di efficacia comunicativa. Mi riferisco, in particolar modo, a ragazzi sardi come Sara e Domenico, che ho recentemente avuto modo di conoscere e che sono singolarmente impegnati, da diverso tempo, a raccontare il patrimonio isolano nei suoi lineamenti materiali ed immateriali, esplorandone l’uso (socio)politico e connettendone – a mio avviso con grande capacità comunicativa – le esigenze della tutela con quelle della sua migliore conoscenza finalizzata alla presa d’atto, soprattutto nell’ottica delle comunità, del ruolo apicale che la valorizzazione degli oggetti culturali ricopre nelle tassonomie territoriali. Senza dubbio, oggi è nei palinsesti digitali che trova la più plurale traduzione e adesione quello spirito del fare per essere (e dell’essere per fare) fino ad oggi eminentemente riguardante contesti produttivi e materiali di tipo industriale, artigianale o istituzionale e che le dinamiche della comunicazione somministrano ad altissimo regime. Fra i suoi gangli compulsivi, infatti, si rivela ugualmente possibile una attitudine al fabbrile ed alla manualità-per-creare, e si tratta di contestualizzarne l’esito materiale e funzionale.
Nel suo magistrale lavoro sulle “donne eccellenti” della Sardegna rurale, Paola Atzeni si preoccupa di indagare in profondità i modi con cui queste fanno sé stesse nelle dimensioni della matericità e materialità nelle quali operano attivamente per rispondere alle contingenze della marginalità entro la quale sono inserite. Chiarisce, dunque:
«L’agire individuale, capace di affrontare e di superare le crisi, conteneva la forza culturale “del sé”: ne era insieme la prova e il continuo esercizio produttivo di sicurezza e costitutivo di valore. In questo senso, la demartiniana presenza riguarda l’umana potenza culturale agente, trasformatrice e auto-trasformatrice, capace di dar valore alle cose e al sé nell’affrontamento e nel superamento delle crisi esistenziali» [12].
Non senza una pessimistica audacia, è comunque possibile scorgere i segni concreti di una simile, attuale, crisi della presenza, sorta di indifferenza culturale rispetto a modi presenti di stare al mondo, in Sardegna, secondo i crismi di questo tempo storico; un’indolenza ravvisabile, soprattutto, in una cospicua fetta del paesaggio giovanile isolano, comunque non indifferente a certi tipi di impegno che diremmo “culturale” e che si ritrova declinato largamente in forme di presenza alternative, possibili attraverso competenze di natura informatico-digitale e, in genere, riferite a quanto diciamo “promozione” e “divulgazione” (di natura audiovisiva), sempre più frequentemente validate come impegno civile anche a detta degli interessati.
Sembra innegabile, al proposito, che parte di queste tendenze si inscrivano in una cultura estetica, immaginifica e conoscitiva mai così potente e favorita, appunto, dai mezzi digitali, ma è altrettanto vero che una certa cura delle cose di Sardegna – probabilmente la più pervasiva – sia unicamente affidata (e affidabile) a simili mezzi, incaricati di governare quella bulimia visiva nella cui cangiante compulsività scopriamo una così mitigata e palliativa rassegnazione per le condizioni del patrimonio culturale e delle sue possibilità operazionali e strumentali (ché quello serve: essere attivi, meglio se professionalmente, in esso e per esso).
L’Emilio Lussu raccontato di Giuseppe Fiori, brillantemente in grado di restituirne l’eclettismo che lo ha consacrato come uno dei personaggi più influenti del Novecento europeo, acquista un valore inestimabile per spiegare il senso di essere presenti nel proprio tempo, come si diceva, dove il mantra della versatilità è semplicisticamente accettato – oltreché confuso col dover fare – come una virtù degna di prestigio, mentre sottende ben più complesse dinamiche storiche (lavoro, servizi, geopolitica) e, appunto, antropologiche (immaginari, relazioni, strumenti, attitudini). Con lo stesso vigore di un tempo fosco, nelle pagine di Fiori rivive un Lussu che sembra chiedere al resto dei sardi: quanto abbiamo imparato e stiamo imparando da noi stessi? Per quanto ancora accetteremo che l’applicazione di sintesi deterministiche nutra l’obnubilamento della nostra coscienza critica e istituzionale collettiva e inibisca le nostre possibilità di abitanti nel corso delle generazioni? Sbaglia di grosso chi infiocchetta simili istanze col nastro del sardismo, tenacemente utilizzato per sminuire posizioni non mainstream: essere presenti è una cosa seria.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] Sebbene oggi il concetto di sardismo sembri caratterizzarsi per un certo dinamismo semantico, in riferimento all’accezione puramente politica sarà senza dubbio utile la lettura di Ortu G. G., L’intelligenza dell’autonomia. Teorie e pratiche in Sardegna, CUEC, 2018;
[2] «Oggi Cagliari è capitale d’Italia, con orgoglio. Auguri a chi crede nella Nazione e grazie a chi è caduto per la nostra libertà».
[3] L’edizione consultata per il presente contributo è Fiori G., Il cavaliere dei rossomori. Vita di Emilio Lussu, Laterza, Bari, 2023;
[4]https://www.dire.it/04-11-2023/974855-cagliari-no-forze-armate-armi-basi-palestina/
[5] Ortu 2018: 14
[6]https://www.italia-liberazione.it/portalenuovo/60moliberazione/PAGINE/REL_28.HTM
[7]https://www.deputazionestoriapatriasardegna.it/public/files/638/default/darienzo-stemma-deputazione-ass.pdf: 13
[8] Si consiglia, a tal proposito, la lettura di M. Mezzanzanica, Corpo, potere e rappresentazione. Figure della sovranità tra teologia politica e antropologia, Mimesis, 2020, che contiene anche una panoramica dei principali autori che si sono concentrati sul tema, fra cui Marc Bloch ed Ernst Kantorowicz;
[9] Satta A., Alcuni tratti caratteristici dell’identità dei sardi in Emilio Lussu scrittore, in Emilio Lussu e la cultura popolare della Sardegna, Nuoro, 1983: 122, op. cit. in Fiori 2023: 6;
[10]https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/sardegna-quale-energia-il-dibattito-sul-piano-di-riconversione-energetica/
[11]https://www.sangavinomonreale.net/2023/04/12/la-marmilla-in-corteo-contro-leolico-selvaggio-a-pochi-passi-dal-sito-unesco-su-nuraxi/
[12] P. Atzeni, Corpi, gesti, stili. Saper fare e saper vivere di donne eccellenti nella Sardegna rurale, Illisso, Nuoro 2023: 205.
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Nicolò Atzori, consegue una laurea triennale in Beni Culturali (indirizzo storico-artistico) con una tesi in Geografia e Cartografia IGM e una magistrale in Storia e Società (ind. medievistico) con una tesi in Antropologia culturale, presso l’Università di Cagliari, ottenendo in entrambe il massimo dei voti. Altresì, è diplomato presso la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Cagliari. Dal 2017 lavora, per conto di CoopCulture, come operatore museale e guida turistica presso il Museo Villa Abbas e il sito archeologico di Santa Anastasia di Sardara (SU), luoghi dei quali, fra le altre cose, cura la comunicazione e, nel primo caso, gli aspetti museografici. Sta frequentando il master di Antropologia Museale e dell’Arte della Bicocca.
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