Quel che sta accadendo nella stagione delle grandi intese è, a dir poco, inquietante. Stanno succedendo una serie di episodi di inaudita gravità, che messi in fila disegnano un quadro di mortificazione se non di vera e propria violazione della struttura costituzionale del nostro Paese.
Il primo caso è emerso nell’ambito della discussione su come trovare le risorse per invertire il processo recessivo dell’economia e avviare un itinerario virtuoso di crescita. In tre mesi da quando è nato il cosiddetto governo delle grandi intese, con la regia del Capo dello Stato, non si fa che parlare di coperta corta, che viene tirata da una parte e dall’altra, nell’incapacità o nella non-volontà del governo di volere smuovere niente. Tornerò dopo su questo discorso.
In questa ricerca di soldi da reperire è stato proposto, da rappresentanti dell’opposizione e di movimenti, di cancellare l’acquisto degli F 35, come ha fatto il Canada o comunque di sospenderli come hanno fatto altri Paesi europei, in primis la Gran Bretagna, ma anche la Polonia ed altri. Ma il nostro Capo dello Stato, il garante della Costituzione e anche capo del Consiglio supremo di difesa, si è premurato di dire che si tratta di questioni tecniche di cui il Parlamento non può decidere. Ma se la nostra è una Repubblica parlamentare e le funzioni del Presidente della Repubblica, enucleate nell’art. 87, prevedono che anche la dichiarazione dello stato di guerra può essere fatta soltanto previo deliberazione delle Camere, com’è possibile che le Camere non possano decidere su un atto politico così importante come un impegno di spesa di armamenti? Che democrazia è?
C’è poi la strabiliante deriva del caso Kazaco, con l’espulsione di Alma Shalabyva e la figlia minore, rispettivamente moglie e figlia del leader dissidente Albyazov. Una vicenda incredibile, che ci ha screditato e resi ridicoli agli occhi del mondo intero. Di fronte alla gravità della vicenda, che configura una violazione dei diritti umani, garantiti dalla nostra Costituzione e da quella europea e di cui ci chiede spiegazioni sia l’Unione Europea che l’ONU, il vice-premier e ministro degli interni Angelino Alfano non si è neanche dimesso, giustificandosi con l’ormai celebre formula scajolana “a mia insaputa” e scaricando la responsabilità sui vertici della burocrazia. Ammesso e non concesso che i vertici politici non sapessero, la cosa sarebbe ancora più grave, perché significherebbe che essi non controllano gli apparati burocratici. D’altronde, l’art. 95 della Costituzione è molto chiaro in proposito: “I ministri sono responsabili individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Una mozione di sfiducia, presentata da SEL e dal M5S, è stata respinta dalla strana maggioranza.
La terza questione riguarda la caccia alle streghe seguita alle rivelazioni di Edward Snowden circa una sorta di panopticon, un potere invisibile che ci spia e scheda tutti, operato dagli Stati Uniti. La subalternità del governo italiano all’Impero lo ha spinto, piuttosto che a protestare, a bloccare nell’aeroporto di Vienna l’aereo di Evo Morales, presidente di uno Stato sovrano (Bolivia), in dispregio al diritto internazionale.
Infine, last but non least, è in atto un pericoloso tentativo di stravolgimento della nostra Costituzione. Il disegno di legge costituzionale n. 813 prevede modifiche all’art. 138 della Costituzione, che disegna una procedura rigida di revisione costituzionale, attraverso una doppia votazione di ciascuna Camera a intervallo non inferiore a tre mesi con la maggioranza di due terzi dei suoi componenti; nel caso di maggioranza assoluta, il disegno di legge costituzionale deve, invece, essere sottoposto a referendum popolare, quando ne faccia domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecento mila elettori o 5 Consigli regionali. Non è casuale che i nostri costituenti abbiano scelto, nel 1947, una procedura rigida, consapevoli che la Costituzione rappresenta l’ossatura fondamentale dello Stato e che eventuali modifiche debbano essere adeguatamente soppesate, dando, ai singoli rappresentanti del popolo, l’opportunità di una lunga pausa di riflessione tra una prima votazione e la seconda. Ora si vuole rendere più flessibile tale formula, introducendo, all’art. 2 del citato disegno di legge, il presidenzialismo, modificando, per tale via, la forma dello Stato e del governo, dimezzando i termini tra le due votazioni da tre mesi a 45 giorni, mentre non viene affrontata l’unica riforma urgente, quella di una nuova legge elettorale che sostituisca quel mostro giuridico che è il Porcellum, che sottrae ai cittadini la scelta dei propri rappresentanti per delegarla alle segreterie dei partiti.
Tutto ciò sta avvenendo nel silenzio del Capo dello Stato, che è il garante della nostra Costituzione. Se si allarga, poi, lo sguardo oltre i nostri confini, si comprende che c’è un disegno più ampio a livello internazionale e che fa capo sempre allo stragrande potere della finanza mondiale. Emblematico è, a tal proposito, un rapporto riservato del 28 maggio 2013, redatto dal potente gruppo finanziario americano J. P. Morgan, una di quelle società tra le maggiori responsabili della crisi dei derivati iniziata nel 2008 e della quale piangiamo ancora le conseguenze. Gli Stati non solo hanno dato i soldi pubblici, cioè dei cittadini, ai grandi colossi finanziari ma loro hanno addirittura rialzato la testa e dettano legge ancor più di prima. Nel suddetto rapporto si afferma, tra l’altro, testualmente che: “I sistemi politici dei Paesi del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”… Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste… presentano esecutivi deboli nei confronti dei Parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori…la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo”.
Tutto ciò può fare capire la subalternità dei nostri governanti alle politiche liberiste e come, dalla rielezione di Napolitano e con la successiva costituzione del governo delle grandi intese, l’Italia sia, di fatto, una Repubblica presidenziale, come il Parlamento abbia perso il suo ruolo rappresentativo e la sua sovranità sia passata al Presidente-monarca.
il governo Letta-Alfano, allestito con la regia di Napolitano e subordinato all’agenda Berlusconi, lontano dal dare risposte ai bisogni delle persone, alla recessione economica, alla disoccupazione soprattutto giovanile, incapace di cambiare subito la legge elettorale per poi ritornare al voto, si proietta, invece, in una durata di legislatura con il pericoloso intento di volere stravolgere la Costituzione, imputando all’architettura costituzionale quello che è il prodotto dell’inettitudine dei partiti. E invece il vero problema è quello di applicare concretamente la Costituzione nei suoi principi fondamentali e modificarla, casomai, laddove confligge con i cambiamenti determinatisi con la globalizzazione e allo scopo di risparmiare sulla spesa pubblica.
Con la globalizzazione, infatti, gli Stati-nazione hanno perso sovranità e tutto ciò che è globale incide sul locale, come questo si riflette sul globale. Non a caso Ralf Darhendorf ha coniato il termine glocalizzazione. Di conseguenza, non solo non hanno più senso le province ma neanche le regioni. Occorre puntare sull’autonomia e sulla democrazia comunale, lasciando allo Stato centrale funzioni di sicurezza interna ed esterna e di orientamento, controllo e garantendo unità e indivisibilità, senza che abbisogni neppure una modifica dell’art. 5 della Costituzione, ma semmai il titolo V, laddove si parla di Regioni e province, artt. 114 e ss.. Il Comune è la realtà dove viviamo, uno dei luoghi fondamentali della nostra identità e dal cui buon governo deriva la nostra qualità della vita, l’istituzione più vicina ai cittadini e dove è possibile la coesistenza della democrazia rappresentativa insieme a quella partecipativa. Con tale riforma si prenderebbero due piccioni con una fava: da un lato si risparmierebbero centinaia di miliardi, abolendo tutto il sottobosco che ruota intorno ai 20 piccoli stati, con i loro governatori, i loro sottogoverni ed enti inutili e consigli di amministrazione; dall’altra si potrebbero impiegare quei miliardi, insieme a quelli derivanti dalla lotta all’evasione e alla corruzione, per la redistribuzione della ricchezza attraverso la leva fiscale, per riduzione del debito e per investimenti per rilanciare l’economia e l’occupazione, per ridurre le tasse e stimolare così la domanda complessiva.
Se sul fronte della politica e dell’economia le cose non inclinano alla speranza, diversamente Papa Francesco, nelle sue prime uscite fuori dalle mura del Vaticano, con lo stile di semplicità e immediatezza che lo caratterizza, irradia, speranza, aria di cambiamento, di fratellanza, pulizia e solidarietà.
Significativa che la prima tappa di Francesco sia stata Lampedusa, questa porta dell’Europa, dove in questi dodici anni del terzo millennio sono già sbarcate 200.000 mila persone, simbolo, nel contempo, di un dramma umano, ma anche di un’accoglienza e di un ponte tra due mondi, quello dell’opulenza occidentale e quello della disperazione africana. Da questo estremo lembo d’Italia, Francesco ha rivolto una dura condanna all’indifferenza di fronte alla tragedia degli immigrati morti in mare, all’atteggiamento spesso ipocrita dei cattolici, all’insensibilità e alla sofferenza degli altri, all’illusione del futile, che ha portato alla globalizzazione dell’indifferenza. Il Pontefice ha di fatto invitato a un esame di coscienza collettivo.
Sull’ipocrisia cattolica, sulla religione dell’esteriorità, della ritualità, piuttosto che sulla fedeltà al Vangelo, è tornato il Papa anche nei suoi discorsi nella favela brasiliana Varginha. Una grande atmosfera di festa e di gioia ha accolto il Papa, il quale ha dichiarato che il suo desiderio “era di visitare tutti i rioni di questa nazione…Avrei voluto bussare a ogni porta, dire buongiorno, chiedere un bicchiere di acqua fresca, prendere un cafesinho e anche un bicchiere di cachassa, parlare come ad amici di casa, ascoltare il cuore di ciascuno, dei genitori, dei figli, dei nonni. Ma il Brasile è così grande! E non è possibile bussare a tutte le porte, allora ho scelto di venire qui”. Richiamandosi alle parole di Gesù ha detto: “Il vostro parlare sia: sì, sì; no, no”, ed evidenziando il nesso tra verità e amore, Francesco ha voluto condannare l’ipocrisia specificamente cristiana, condensata nel noto detto: “Predicare bene, razzolare male”. Importante è anche la sottolineatura di laicità avendo citato il detto di Gesù:” Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”. Non poteva mancare la notazione di Francesco sulla povertà della Chiesa, ricordando che “San Pietro non aveva un conto in banca” . Rivolgendosi poi ai giovani, ha regalato parole di speranza “Non scoraggiatevi mai, nonostante la corruzione di persone che, invece di cercare il bene comune, cercano il proprio interesse. Non spegnete mai la speranza. La realtà può cambiare, l’uomo può cambiare, cercate per primi il bene comune”… Il popolo brasiliano, in particolare le persone più semplici possono offrire al mondo una preziosa lezione di solidarietà. Una parola spesso dimenticata o taciuta, perché scomoda…. Vorrei fare appello a chi possiede più risorse, alle autorità pubbliche e a tutte le persone di buona volontà impegnate per la giustizia sociale: non stancatevi di lavorare per un mondo più giusto e più solidale. Nessuno può restare insensibile alle disuguaglianze che ancora ci sono nel mondo!”. Dignitad- grida più volte il Papa- auspicando una Chiesa che lotti contro ogni esclusione, soprattutto dei giovani e degli anziani e ammonendo che Gesù si prende per intero e non a secondo le convenienze. Un’apertura, infine, è venuta dal Papa sull’omosessualità richiamandosi all’ammonizione di Gesù: “Non giudicate e non sarete giudicati”.
Ma, mentre Papa Francesco invoca un mondo di verità, di tolleranza, di uguaglianza e giustizia sociale, sottolineando che non ci può essere pace senza giustizia, il Mediterraneo è sconvolto dalla guerra civile in Egitto e in Siria, da gravi tensioni in Tunisia. In Egitto si parla di una vera e propria guerra civile, alimentata anche dalla mano dura dei militari, che sono i veri detentori del potere e che sparano sulla folla dei seguaci del presidente arrestato Morsi.
In Tunisia, dopo l’uccisione, sei mesi fa, del dirigente Chokri Belaid, il Fronte popolare ancora una volta viene colpito a morte con l’assassinio del deputato e coordinatore del nuovo partito Corrente popolare Mohamed Brahmi, un omicidio attribuito al partito islamico al potere Ennahda, il quale però lo condanna e invita alla calma. Nel frattempo continua la guerra civile in Siria, dove si contano già 100 mila morti.
Purtroppo, alla base dei conflitti e delle tensioni in quest’area del mondo, più che rivendicazioni sociali, vi è sempre una visione dogmatica della religione, che tende a essere usata come ricetta miracolistica per tutte le questioni che riguardano una società: dall’economia alla politica, dalla forma dello Stato ai diritti sociali e civili.
Mentre stavamo già impaginando la rivista, è arrivata la condanna definitiva di Silvio Berlusconi per frode fiscale, con la conferma, da parte della Suprema Corte, della “tendenza a delinquere” dell’imputato eccellente. Si è subito scatenata la canea mistificatoria e propagandistica dell’anomala destra italiana, con la quale si capovolge la realtà, facendo del “delinquente” la vittima, perseguitato da una magistratura politicizzata. Anche qui una deriva anticostituzionale, con inammissibili attacchi alla magistratura, minacce, ricatti e manifestazioni di piazza, accompagnati dalla solita tiritera dei tanti processi subiti. E cosa dovrebbe fare la magistratura se si viene a trovare di fronte a un soggetto con la tendenza abituale a delinquere? non applicare la legge?
L’anomalia è tutta italiana, grazie a un partito padronale, in cui i rappresentanti vengono scelti in base alla fedeltà assoluta al capo. Nelle democrazie consolidate del centro-Nord europeo , deputati o ministri si dimettono anche e soltanto per una leggerezza adolescenziale, come, per esempio, avere copiato la propria tesi di laurea .
Dialoghi Mediterranei, n.3, agosto 2013