di Antonino Cusumano
Ci sono momenti e ci sono eventi che per il loro ruolo nel disegno della storia finiscono con l’assumere un significato eminentemente simbolico, un particolare valore di spartiacque, di riferimento paradigmatico. Se analizziamo più da vicino la storia della politica culturale in Sicilia degli ultimi decenni, c’è una data a mio avviso che può rappresentare emblematicamente questo punto di snodo, questa svolta, un preciso crinale temporale: è il 1977. In quell’anno crolla un muro secolare, quello che negava dignità di bene culturale al patrimonio etnoantropologico e riconosceva tutela e valorizzazione solo ai monumenti e ai documenti ascrivibili alle categorie dell’arte, dell’archeologia e delle scienze. Con la legge n.80 del 1 agosto 1977 la Regione Siciliana, con un atto innovativo e di grande rilevanza, prima fra tutte le regioni italiane, inseriva tra i beni culturali e ambientali quelli etnoantropologici, attribuendo loro pari dignità normativa e pieno riconoscimento istituzionale. La consapevolezza del mutamento implicito in questo elemento di discontinuità rispetto al passato era già nelle stesse parole dell’allora direttore generale dell’Assessorato ai Beni Culturali della Regione Siciliana, Alberto Bombace che a Gibellina, in occasione di uno dei Colloqui Europei organizzati in collaborazione tra Università, Assessorato e Comune, ebbe a dire che «con questa legge era introdotto per la prima volta nel lessico legislativo il termine etnoantropologico».
Nulla accade mai per caso e quella legge era, in tutta evidenza, il frutto maturo di un dibattito culturale che in Sicilia, più che altrove, aveva trovato accenti di grande vivacità già dieci anni prima, nel 1967, nel corso del seminario tenuto a Palermo sul tema “Museografia e folklore”. Se è vero che nella relazione tenuta allora da Cirese possiamo identificare le riflessioni fondanti delle operazioni museografiche intese come metalinguaggio, il nucleo di quell’analisi che avrà effetti dirompenti nella teoria e nella pratica dell’antropologia museale, è anche vero che la Sicilia sarà in quel decennio il luogo centrale di un clima culturale di così intenso fervore di ricerche da inaugurare una nuova fase degli studi antropologici, una nuova stagione che recuperava e innovava profondamente l’illustre tradizione pitreana. Nascono in quegli anni i due Musei destinati a rappresentare modelli e poli di riferimento fondamentali per la conservazione e la valorizzazione dei beni etnoantropologici: la Casa Museo fondata a Palazzolo Acreide da Antonino Uccello nel 1971 e il Museo Internazionale delle Marionette istituito a Palermo da Antonio Pasqualino e Janne Vibaek nel 1975.
A quanti vogliono oggi capire il senso di quel grande movimento di idee e di sensibilità nuove che maturavano in quegli anni e che preparavano intense e significative esperienze di impegno civile e culturale, si offrono come prezioso documento storico, alla stregua di un ideale manifesto programmatico, le pagine del saggio, Elogio della cultura perduta, che Antonino Buttitta ha scritto per il catalogo della mostra “Il lavoro contadino nei Nebrodi”, allestita a Palazzo Fatta a Palermo e promossa dall’Università in collaborazione con l’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari nel 1977. Si trattava della prima di una lunga e articolata sequenza di iniziative (convegni internazionali, mostre temporanee e permanenti, corsi di formazione, collane editoriali e pubblicazioni) che avrebbero dato impulso alla tessitura di una ricchissima trama di ricerche etnografiche sul territorio.
Ancora una volta, dunque, il 1977 segnava il punto di partenza, il momento di cesura, la svolta che apriva la strada ad una feconda riflessione sull’identità storica e culturale dei Siciliani, sul valore della memoria e sulle modalità di recupero e riappropriazione della cultura popolare tradizionale. «Una riappropriazione – scriveva Buttitta (1977: 216-217) – che è possibile se non si risolve nella mera raccolta e mitizzazione museografica e archivistica di forme materiali e orali di cultura, ma si dispone all’assunzione, senza compiacimenti estetizzanti e senza snobistico distacco, di tali fatti nel proprio orizzonte ideologico. Non si tratta soltanto, accettando il concetto di cultura ormai imposto dalle scienze antropologiche, di valutare questi fatti come fenomeni culturali. Si tratta di riconoscerli come momenti essenziali della nostra esistenza».
Non si rende pienamente intelligibile lo straordinario percorso di ricerca e di documentazione compiuto in questa direzione negli anni ottanta in Sicilia, se non se ne riconoscono le premesse negli orientamenti metodologici suggeriti da Buttitta in quelle pagine. Nel dibattito aperto nell’antropologia italiana su questi temi la scuola di Palermo, a ben guardare, ha occupato posizioni di primissimo piano per la vastità delle attività di indagine dispiegate sul territorio, per il rigore progettuale e la profondità dell’impegno scientifico, nonché per l’originalità delle esperienze realizzate nell’ambito degli studi di cultura materiale. L’analisi antropologica tracciata da Buttitta si fondava su un’attenta ricognizione del contesto e delle dinamiche economiche e sociali della Sicilia dall’800 agli anni settanta del secolo scorso. Nel ricostruire i sistemi di relazione tra l’apparato produttivo dell’Isola, la struttura dei ceti e il panorama intellettuale, si individuavano i tratti distintivi di una cultura popolare profondamente vissuta e largamente partecipata dalle diverse stratificazioni sociali e generazionali, almeno fino a quando i fili tenaci di un robusto tessuto connettivo hanno tenuto insieme l’orizzonte ideologico e simbolico. L’identità di questa cultura che attraversava le varie articolazioni interne della società siciliana del secolo scorso stava proprio in quel fondo comune di valori, di comportamenti, di modelli di riferimento, di codici linguistici che appartenevano alla totalità dell’universo sociale.
Negli anni del secondo dopoguerra, l’emigrazione, il forte spostamento demografico dall’interno dell’Isola alle coste, l’inurbamento e la crescita tumultuosa della piccola borghesia, l’affermarsi dell’economia capitalistica, di una modernizzazione senza industrializzazione e di uno sviluppo senza progresso, hanno destrutturato quella società contadina tradizionale, che è stata contesto economico e patrimonio culturale secolare, provocando una grave crisi nei sistemi di conservazione e di trasmissione della memoria e dell’identità. Gli impetuosi processi di mutamento del paesaggio antropologico della Sicilia sono stati da Buttitta interpretati come un etnocidio che ha imposto un modello fondato sull’assurda e mistificatoria equazione tra quantità di beni e qualità della vita e ha prodotto la crisi della cultura tradizionale, non più sentita dai suoi soggetti storici come risposta adeguata alla permanenza e alla protezione dell’orizzonte esistenziale. Da qui il rifiuto – osservava Buttitta – della propria condizione, la fuga dalla propria cultura, da qui la diffusione dei modelli culturali della piccola borghesia, di quanti inurbati si dispongono alla negazione dei valori e dei codici tradizionali e all’assimilazione passiva dei comportamenti veicolati dai moderni di mezzi di comunicazione di massa. La cosiddetta “modernizzazione” degli anni sessanta passava attraverso il pedaggio della dimenticanza.
L’attenzione di Buttitta è volta non soltanto alla riaffermazione del valore della memoria in sé, come momento essenziale della nostra esistenza, ma anche al recupero di quei segni che della memoria sono depositi, coaguli di affetti e di fatiche, degli oggetti del mondo popolare, del lavoro contadino, dei prodotti delle tecniche e dei saperi, della bellezza e dell’intelligenza artigiana. Da questa consapevolezza e in questa prospettiva muove l’interesse antropologico per la cultura materiale, per lo studio della dimensione funzionale e segnica di quegli strumenti e di quei manufatti che raccontano la storia degli uomini che li hanno costruiti e che li hanno usati, le vicende dei loro bisogni, la trama del loro universo sociale, delle loro condizioni esistenziali. Negli oggetti che portano impressi il calco della mano dell’uomo è materializzato il sapere implicito nel fare, l’opera umana di appropriazione e di plasmazione della natura, l’insieme delle concezioni della vita e del mondo. «L’informazione che gli artefatti ci danno – ha osservato Silvana Miceli (1980: 14) – riguarda il modo in cui altri uomini prima di noi – i produttori appunto di quegli oggetti – hanno concepito e organizzato il mondo e sono intervenuti su di esso. In un certo senso dunque gli artefatti sono una sorta di informazione cristallizzata, risultato tangibile dell’intervento umano sul mondo».
Aver posto al centro della ricerca antropologica gli oggetti della cultura materiale legati alla civiltà contadina che stava per sfaldarsi e per tramontare definitivamente significava restituire dignità e identità alla cultura di quel mondo che Buttitta aveva identificato come «il fondo segreto di noi stessi, spesso la nostra infanzia, in ogni caso il nostro passato culturale che giorno dopo giorno ci siamo imposti di rinnegare a noi stessi e agli altri» (Buttitta 1977: 217). La scelta di privilegiare di quel mondo tradizionale gli aspetti legati alla vita produttiva e alle tecniche del lavoro era coerente agli obiettivi di una antropologia che si affrancava dai rischi delle operazioni di mitizzazione romantica e si riconosceva all’interno di un disegno di politica culturale volto alla riflessione e alla riappropriazione critica della memoria collettiva. Conoscere il passato non significa, infatti, invocarlo nostalgicamente né tanto meno illudersi di restaurarlo. Significa, invece, comprendere meglio la società nella quale viviamo, capire ciò che va difeso e conservato, ciò che va rifiutato e criticamente superato.
Studiare il territorio e la sua storia, le comunità e la loro cultura attraverso la chiave di lettura offerta dai mezzi del lavoro tradizionale apriva nuove prospettive di ricerca, inediti processi di coinvolgimento sociale. In un luogo come la Sicilia in cui fino agli anni cinquanta era ancora in uso nelle campagne delle province interne l’aratro a chiodo, la cultura materiale del lavoro conservava in sé i caratteri strutturali della “lunga durata”, quella forza di inerzia, che è «una delle grandi operaie della storia», per usare le parole di Braudel (1977: 449). Da qui il permanere nei quadri geografici del territorio di usi e tecniche plurisecolari, il lento stratificarsi delle forme del paesaggio, il radicarsi in profondità di un preciso insieme di materie, strumenti e manufatti che identificano il tessuto connettivo di quel “quinto elemento” che chiamiamo “civiltà”. Se è vero che «la Sicilia è soprattutto storia del passaggio dell’uomo, una dimensione culturale, prima che un’identità naturale» (Lanza Tomasi 1987: 9), se è vero che nell’Isola anche la Natura è Storia, un modo forse per coglierne davvero l’identità è quello di ricondurre i luoghi ai sostrati materiali, gli spazi geografici alle tecniche tradizionali della produzione, la storia dei suoi abitanti a quella dei mezzi di lavoro. A partire da questo assunto, Bufalino distingueva più Sicilie a secondo dei colori: «Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava» (Bufalino 1988: 18).
Di queste Sicilie, dell’identità profonda delle diverse realtà produttive tradizionali, della memoria di saperi e parole, di gesti e utensili, di strategie e procedimenti empirici, che accompagnavano la vita elementare delle popolazioni, l’indagine antropologica condotta nel corso degli anni ottanta ha dato uno straordinario contributo di sistematica documentazione e di rigorosa riflessione. A riandare con il ricordo a quegli anni, nel tentativo di tracciare un bilancio di quelle esperienze, ci fu allora in buona parte della Sicilia una grande mobilitazione di attività a sostegno di una battaglia civile e culturale, un generale impeto di entusiasmi e di passioni sulla scia di interessi scientifici più o meno avvertiti o più o meno effimeri. In poche altre occasioni storiche la Sicilia è stata investita da fenomeni culturali di così larga e simultanea partecipazione popolare, in direzione di obiettivi e progetti comuni, sul terreno della ricerca etnoantropologica e delle pratiche museografiche.
Probabilmente non si è ancora riflettuto abbastanza sulle complesse dinamiche socioculturali che si sono sviluppate in quegli anni, sulle molteplici energie umane e intellettuali che si sono liberate e hanno dato vita e forma a nuove modalità di fruizione della cultura materiale, a un nuovo sentire comune da parte della popolazione sui temi della conservazione della memoria collettiva. Non è senza significato che nelle scuole di parecchi centri della Sicilia si sia registrato un vivo e inedito interesse per la cultura popolare e il mondo contadino. Da quelle esperienze didattiche sono nate non poche operazioni di raccolta dei materiali, allestimenti di mostre e, in alcuni casi, i nuclei fondanti di veri e propri musei. È indubbio che per molti degli studenti, impegnati a strappare dal silenzio delle ombre gli oggetti che avevano visto nel cortile, in soffitta, in campagna e che ora osservavano e conoscevano per la prima volta, imparando a riflettere e a stupirsi su ciò che era prima di allora abitudine o pudore, l’esplorazione e lo studio dell’universo culturale dei loro padri sono stati occasione di riappropriazione critica della memoria e dell’identità. Intelligenti percorsi di ricerca sul campo hanno promosso nei giovani la percezione di quanta scienza e quanta arte vi fosse dietro il semplice carretto del nonno, quanta fatica costasse una botte o arare con i buoi e a quale prezzo infine sia stata pagata qualche comodità in più o qualche disagio in meno.
Una scuola attenta a favorire il dialogo tra le generazioni attraverso il recupero delle cose e delle parole della vita contadina tradizionale ha senz’altro contribuito all’introduzione del concetto antropologico di cultura nelle pratiche quotidiane dell’insegnamento e, nello stesso tempo, ha avvicinato l’idea del museo a quanti erano estranei e lontani da questa antica e illustre istituzione. Quante potenzialità educative siano implicite non solo nell’uso didattico delle fonti orali ma anche nella valorizzazione del patrimonio della cultura materiale folklorica all’interno delle stesse attività scolastiche, è oggi una consapevolezza abbastanza diffusa, anche se ancora solo marginalmente applicata. Ma allora era qualcosa che sovvertiva le regole tradizionali dell’insegnare, metteva in atto una metodologia innovativa che rovesciava radicati e convenzionali punti di vista e proiettava la scuola sul territorio in un rapporto diretto con la popolazione locale.
Nella scuola, dunque, ma più ampiamente nella società, attraverso le amministrazioni comunali, sindacati e partiti politici, soprintendenze e università, libere associazioni e gruppi privati organizzati, si è assistito tra gli anni 70 e 80 ad un notevole susseguirsi di operazioni documentarie, di piccoli musei contadini, di luoghi espositivi o semplici centri di conservazione. La più parte di queste iniziative sono frutto del fenomeno dello spontaneismo, essendo promosse da non specialisti, da operatori improvvisati, da collezionisti appassionati, da emigranti nostalgici o da insegnanti volenterosi. È noto che la “museografia spontanea” non è fenomeno soltanto siciliano ma ha investito l’intero nostro Paese nel momento storico del massimo mutamento delle sue strutture economiche e sociali. Al di là dei limiti costitutivi della natura stessa di queste raccolte, a volte inficiate da frammentarietà, ripetitività e dispersione di energie, non può sfuggire, tuttavia, il valore democratico della mobilitazione popolare che le ha sostenute, la vitalità delle esperienze di aggregazione e di organizzazione territoriale che ne sono state lievito e presupposto.
In Sicilia, però, a differenza che nelle altre regioni italiane, questo grande movimento collettivo di progetti e di azioni, volto alla ricerca e al recupero delle testimonianze materiali della civiltà contadina, ha visto protagonisti soprattutto i giovani. Loro sono stati i promotori e gli operatori della ricognizione culturale più puntuale e capillare che sia stata mai condotta sul territorio dell’Isola. Loro sono stati arruolati per una delle imprese politico-culturali forse più significative del secondo dopoguerra. Ci riferiamo al censimento dei beni etnoantropologici, varato dalla Regione Siciliana nell’ambito della legge n.37 del 1978, contenente provvedimenti a favore dell’occupazione giovanile. Per dimensione territoriale e rilievo scientifico, il censimento, finalizzato in una prima fase alla individuazione degli strumenti di lavoro ed eseguito su tutti i comuni dell’Isola, è stata operazione di notevole portata culturale che ha coinvolto circa 700 giovani e ha prodotto più di 18 mila schede. A coordinare e guidare gli addetti nel loro lavoro di rilevamento e schedatura sono state chiamate le tre università siciliane, e in particolare la cattedra di antropologia culturale di Palermo, quelle di storia delle tradizioni popolari di Catania e di Messina. Questo considerevole sforzo di catalogazione, che ha consentito di ottenere un’analitica radiografia della cultura materiale tradizionale in Sicilia, rilevata a tappeto, comune per comune, dal giugno 1979 al dicembre 1980, è stato, dunque, il frutto di una felice e sinergica collaborazione tra le pubbliche amministrazioni, le istituzioni culturali e i soggetti attivi del territorio. Ancora una volta, a tirare le file della convenzione tra Assessorato Regionale, Università e Comuni era Alberto Bombace, la cui attenzione per i beni etnoantropologici è sempre stata caratterizzata da un pragmatismo lungimirante.
Il lavoro del censimento è stato preceduto da un intenso ciclo di corsi di preparazione e di seminari destinati ai giovani assunti dai comuni e predisposti a cura del comitato tecnico-scientifico. La scheda approntata era il frutto di un dibattito a livello nazionale appena avviato e di un’analisi attenta dei criteri e degli scopi dell’operazione. Rispetto al modello offerto dall’Istituto Centrale del Catalogo, la scheda siciliana inseriva alcune voci completamente omesse, quali quelle che miravano a meglio contestualizzare gli oggetti all’interno dei rispettivi cicli di lavorazione e dei relativi rapporti di produzione nonché a individuare le eventuali funzioni simboliche. Nella consapevolezza che la scheda è cosa diversa da un saggio e non è nemmeno un semplice questionario e che dietro la sua struttura sono impliciti precisi modelli descrittivi e interpretativi della realtà e dentro la sua misura va comunque costretto il continuum spaziotemporale della realtà di ciascun oggetto che è pur sempre indivisibile dagli altri oggetti che vi stanno attorno, «la difficoltà – ha annotato Janne Vibaek (1984: 636) – stava nell’elaborare modelli operativi, capaci di servire alla costituzione di una documentazione che non fosse una raccolta di mere descrizioni di oggetti ma un discorso, fatto in parte con gli oggetti, sulle tecnologie tradizionali e sulle condizioni di vita degli uomini che usavano (o usano) quegli oggetti. In altre parole, le schede dovevano assicurare l’omogeneità del materiale raccolto, al fine di consentirne la comparazione, ma dovevano anche suggerire allo schedatore un modo corretto per rilevare i dati necessari senza sconvolgere il tessuto della cultura tradizionale».
Nel disegno progettuale del censimento come nell’elaborazione della scheda di rilevamento erano, in verità, presupposte le linee guida di una strategia museografica che tendeva a rendere intelligibili non tanto gli oggetti in sé, quanto la rete paradigmatica a cui essi rinviano, ovvero il complesso dei rapporti che intercorrono tra strumenti, utensili, funzioni ed usi. In Sicilia, dunque, probabilmente prima ancora che altrove, si sperimentarono e si applicarono teorie e metodologie di un’antropologia museale allo stato nascente, quella, per intenderci, che nelle indicazioni di Cirese convertiva l’idea del “museo-collezione” in “museo-discorso”. Perché l’ansia di oggettivare non finisse col tradursi nella pratica dell’oggettualizzare, l’orientamento adottato è stato quello di non isolare dai contesti di pertinenza le singole unità oggettuali secondo tassonomie astratte o tipologie di carattere estetico-formale, e di privilegiare piuttosto l’ordinamento dei materiali schedati o raccolti all’interno dei rispettivi cicli di produzione, a partire dai quali erano illustrate le diverse articolazioni delle fasi e delle tecniche di lavorazione. Da qui la diffidenza rispetto ai tradizionali sistemi di rappresentazione museografica che proponevano la ricostruzione mimetica da bozzetto di ambienti di vita e di lavoro, e l’esigenza di «passare dal continuo della vita vissuta, che è ovviamente irriproducibile, al discontinuo, cioè alle scelte dell’osservazione e dell’analisi» (Miceli 1973: 248). La catalogazione documentaria dei cicli di lavoro più rilevanti e più caratterizzanti sul territorio (dal grano alla vite, dalla pastorizia all’olivicoltura, dalla tessitura all’apicoltura, dalla pesca all’agrumicoltura, dalle attività estrattive alla lavorazione delle pelli, del sughero, del sale, del carbone, della terracotta, ecc.) è stata pertanto progettata anche ai fini di una coerente riproposizione museografica del patrimonio schedato.
All’enorme lavoro di ricerca sul campo, che ha portato i giovani incaricati del censimento a non limitare il loro impegno alla mera compilazione delle schede ma li ha trasformati quasi sempre in soggetti propulsori e animatori sul territorio, vere e proprie figure sociali che nel serrato confronto con le comunità di appartenenza hanno assunto conoscenze specifiche e competenze professionali, alle loro capacità di intraprendenza organizzativa e di sensibilizzazione attiva devono essere ricondotte la maggior parte delle innumerevoli iniziative di piccole e grandi mostre etnoantropologiche che si sono moltiplicate e disseminate nello spazio di pochi anni in tutta la Sicilia. Alcune di esse, grazie al supporto tecnico-scientifico offerto dal Servizio Museografico della Facoltà di Lettere di Palermo e al sostegno finanziario delle pubbliche amministrazioni, sono diventate realtà espositive stabili e persino musei permanenti. La grande massa di elementi informativi che si può desumere dallo spoglio delle migliaia di schede prodotte dal censimento, attualmente depositate presso il Centro Regionale del Catalogo, pur nei limiti oggettivamente impliciti in tutte le operazioni di catalogazione, costituisce oggi un prezioso patrimonio documentario, uno straordinario inventario di oggetti e di parole, di saperi e di lessici tecnici, un contributo fondamentale per la costruzione di mappe ergologiche e linguistiche. Dal loro esame analitico e tematico è possibile elaborare carte areali e tracciare linee di diffusione e di comparazione delle denominazioni, degli usi, delle tipologie formali e delle varietà funzionali dei manufatti. Incrociando adeguatamente i risultati si possono ricavare inediti e utilissimi repertori fino a formare una vera e propria banca dati dinamicamente articolata su più livelli di utilizzazione e consultazione. È appena il caso di precisare che le potenzialità di questo significativo archivio di riferimenti conoscitivi, che attendono ancora di essere pienamente valorizzati, saranno efficacemente esaltate quando saranno sistematicamente attuate e completate le opportune operazioni di informatizzazione.
Se l’esperienza del censimento ha prodotto una così ingente mole di materiali, ciò è stato possibile anche grazie ad un’intelligente politica culturale che ha mostrato particolare attenzione per la tutela e la valorizzazione dei beni etnoantropologici. Non va infatti dimenticato che la proficua collaborazione realizzata in quegli anni tra pubblica amministrazione e istituzioni universitarie ha dato una poderosa spinta alla creazione in Sicilia di una importante rete museale e ha determinato un clima favorevole alla generale presa di coscienza dei valori legati alla cultura popolare. Da quella felice interazione di progetti politici e di interessi scientifici sono nati convegni di studi e congressi internazionali, corsi di formazione, seminari e scuole di scienze umane, iniziative tutte promosse e organizzate dalla Cattedra di Antropologia Culturale della Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo.
Tra il 1983 e il 1989 si sono svolti a Gibellina cinque Colloqui Europei che, sotto la presidenza di Jean Cuisenier e il coordinamento di Janne Vibaek, hanno sviluppato il dibattito sulla museografia etnoantropologica chiamando a discutere e a confrontarsi i massimi specialisti e operatori del settore: direttori di musei, museologi e antropologi italiani e stranieri. Ancora una volta la Sicilia è stata il luogo centrale di elaborazione delle nuove idee intorno alle strategie di raccolta, di conservazione e di presentazione delle tecniche e dei dati relativi agli oggetti di interesse etnografico. A Gibellina sono state dibattute le questioni nodali sull’identità e la specificità dei linguaggi museografici. Qui sono emerse le linee di tendenza che si sono via via affermate nello scenario dell’antropologia museale italiana, teorie e metodologie, riflessioni e suggestioni dialetticamente maturate anche nel serrato e critico confronto con le esperienze di altri Paesi. Nel piccolo centro belicino, governato da Ludovico Corrao, si sono affrontati temi e problematiche di grande rilevanza scientifica, si sono delineate tesi e posizioni anche contrastanti su proposte e prospettive museali differenti, si sono saldati progetti astratti e pratiche esemplificazioni, discorsi epistemologici e laboratori sperimentali.
In occasione di uno dei Colloqui Europei di Gibellina Alberto Maria Cirese ha ribadito e riformulato il suo modello di museo “razionalista”, essenzialmente fondato sulle costruzioni logiche della scienza che ci aiutano a capire la logica costruttiva che sta nelle cose o nei simboli che le rappresentano: una concezione museografica, per usare le parole dello stesso Cirese (2002: 34), intesa «come operazione conoscitiva in un settore che non deve ricordarci quanto grande era la fatica dei nostri antenati ma quanto grandi erano la loro intelligenza e capacità e quanto quella stessa loro intelligenza può aiutarci oggi a essere intelligenti in un settore centrale, quello della comunicazione dei segni che, rappresentando il reale, ci consentono di controllarlo». Negli stessi Colloqui Pietro Clemente, allievo di Cirese, confrontandosi su questi temi con il suo maestro, ha cominciato ad elaborare quell’idea di museo etnoantropologico come «luogo di arte applicata per la comunicazione di massa» e in quanto tale gli oggetti che vi sono esposti sono da considerare «fatti visivi al pari di altri, tutti subordinati all’impegno di rappresentare forme di vita, parti o settori di esse» (Clemente 2002: 55). A Modica, dove nel 1989 si sono trasferiti i Colloqui di Gibellina, Clemente ha parlato per la prima volta di «estetica museale», di rappresentazione come scenografia, di organizzazione degli ambienti e dei percorsi in senso teatrale, di linguaggi espositivi e percettivi: temi e concetti che svilupperà negli anni successivi e contribuiranno alla progettazione di una museografia più attenta ad esporre che a conservare, più sensibile ai bisogni del pubblico che a quelli della ricerca pura, più versata alla comunicazione piuttosto che alla documentazione.
Al di là delle semplificazioni di argomentazioni ben più complesse e di posizioni e interpretazioni, in tutta evidenza, più ampiamente articolate, il dibattito sulla museografia etnoantropologica promosso in Sicilia e ripreso in tutto il Paese ha indubbiamente prodotto una riflessione teorica abbastanza avanzata, anche se non sempre sufficientemente e operativamente tradotta in concrete e coerenti istituzioni museali. Nell’ultimo decennio, affievolito lo slancio collettivo che aveva generato la spontanea proliferazione di piccoli musei etnografici locali, dissolto o rarefatto quel contesto politico-culturale che aveva favorito una crescita della sensibilità pubblica nei riguardi dei beni etnoantropologici, si è sbiadito, certo, ma non si è spento l’interesse culturale per la museografia, i suoi orientamenti e le sue prospettive.
Nel tempo del trionfo dei media la comunicazione costituisce la dimensione e la questione fondante di ogni teoria antropologica sui musei. Nel pieno dispiegarsi della società di massa gli studiosi avvertono la necessità di spostare l’accento delle loro analisi dalle dinamiche della rappresentazione a quelle della fruizione, adeguando gli allestimenti museali alle logiche espositive delle mostre, alle forme creative dell’emozione poetica e perfino a quelle accattivanti della provocazione intellettuale. Il primato delle ragioni del pubblico sembra aver ispirato il modello contemporaneo di museo, la tendenza a enfatizzare la sua ineludibile funzione comunicativa. Del centro di documentazione o del laboratorio di ricerca di cui si evocava la progettazione negli anni sessanta e settanta non pare più esserci alcuna eco né nel dibattito né nel panorama delle esperienze realizzate. Le ricostruzioni e le riproduzioni d’ambiente proposte nei musei en plein air, fortemente criticate e stigmatizzate, in passato, per il grado di infedeltà che è implicito in ogni operazione di velleitario ricalco del reale, sono oggi in qualche misura rilanciate nelle strategie degli ecomusei e dei parchi a tema. Il sistema delle collezioni, su cui si è basata la museografia tradizionale, torna prepotentemente all’attenzione degli antropologi, che riscoprono il valore “autoriale” delle raccolte, la soggettività irriducibile di certi musei che portano impressi i segni identificativi dei loro fondatori. Si guarda con rinnovato interesse alle soluzioni originali prodotte nell’ambito del collezionismo popolare spontaneo, si rivalutano quei linguaggi espositivi che sono probabilmente privi della sistematicità e del rigore scientifico, poveri anche nella strumentazione tecnologica, e tuttavia possiedono la fascinazione narrativa, l’evocazione memoriale, a volte, perfino una carica poetica. Creatura eminentemente autobiografica, ciascuno di questi musei, che qualcuno annette nella tipologia del “selvaggio” (Kezich 1999: 51), in quanto nato fuori dell’ambiente accademico e specialistico, rappresenta un unicum, un caso esemplare, per certi aspetti una storia individuale.
A questo profondo ripensamento dello statuto museale, che ha recuperato e guadagnato alla dimensione dell’espressività quanto era prima sbrigativamente definito come semplicemente dilettantesco o “scientificamente non corretto”, ha sicuramente contributo la riflessione che più in generale ha coinvolto, negli ultimi anni, gli studiosi sulla natura letteraria e retorica del sapere antropologico e sugli stili di scrittura in cui, in ultima analisi, prendono forma i testi e i resoconti etnografici. Gli interrogativi sulle diverse modalità di raccontare gli Altri, sulle questioni dell’autorità e della soggettività e sul ruolo dell’antropologo come autore e come scrittore, mutuati da quel dibattito, si pongono all’interno delle teorie e delle pratiche museografiche, spingono ad una revisione critica dei confini e delle stesse categorie fondanti dell’istituzione. Autori e scrittori possono essere anche gli ideatori e i fondatori di musei, coloro che hanno intrapreso una sfida contro il tempo, strappando dall’oblio preziosi patrimoni di memorie materiali, inventando narrazioni attraverso le cose sapientemente raccolte, costruendo un’opera in cui tutta una cultura è riepilogata all’interno di una vita e questa si fa interprete di tutte le vicende della comunità. La natura stessa della genesi di questi musei fa di ciascuno di essi una realtà a sé stante, una “opera” firmata. Nella loro strategia espositiva la scrittura è affidata agli oggetti che costituiscono le parole di un testo del quale è riconoscibile l’autore. La sintassi è organizzata sull’articolazione di spazi, percorsi e prospettive. Prima di essere discorso le cose sono narrazione, prima di essere documento sono testimonianza.
La casa-museo di Ettore Guatelli è universalmente riconosciuta come un esempio tra i più significativi di questa tipologia museale, la cui l’identità è fortemente permeata dalla personalità del collezionista. Anche in Sicilia non mancano i musei chiaramente connotati dal carisma dei loro allestitori, come, per fare solo due esempi, quello di Nunzio Bruno a Floridia e la Godranopoli fondata da Francesco Carbone a Godrano, nel Palermitano. Si tratta di esperienze singolari che nella singolarità hanno proprio la loro cifra distintiva, il loro stile. In questi contesti l’oggetto etnografico sembra riacquistare i valori formali di quell’estetica di cui ha scritto Pietro Clemente, una sensibilità artistica versata alla messa in scena di tutte le virtualità materiche dei manufatti più umili, di tutti i loro tratti elementari ed essenziali. In alcuni casi, tuttavia, la ricerca scenografica può soffocare la leggibilità degli oggetti, può precludere la restituzione dei significati sottesi o connessi, può compromettere la comprensione e la conoscenza antropologica. Lo stesso destino di questi musei sembra essere indissolubilmente legato alla vita dei loro fondatori. Con la loro scomparsa è destinata a spezzarsi quella salda e fitta rete di relazioni che assicura ordine e riconoscibilità alla raccolta.
Così è stato anche per la Casa Museo Uccello, già casa degli spiriti, dimora della memoria e degli incanti. Anche questa collezione porta i segni inconfondibili del suo demiurgo-fondatore, tanto intimamente e profondamente che dopo la sua morte sembrava essersi destrutturato l’ordine e l’impianto compositivo, il disegno progettuale, il senso della collezione. Se è vero che ogni museo è anche in parte museo di se stesso, la casa Uccello resta oggi un modello museografico tra i più rappresentativi di un certo modo di organizzare e allestire le raccolte etnoantropologiche, nate e ordinate all’interno di una dimensione familiare, di una narrazione autobiografica, di un unicum spaziotemporale. Tenendo lontana la scrittura e ogni altro apparato descrittivo o interpretativo da sovrapporre alla lettura degli strumenti di lavoro e degli oggetti del mondo popolare e quotidiano, Antonino Uccello ha inteso affidare la comunicazione museale alla forza evocativa del theatrum memoriae che tra le pareti della casa ritrova le sue voci. L’assenza di mediazioni tecnologiche esalta la tensione assorta del silenzio che avvolge le cose, e queste sembrano chiamarci ad un dialogo diretto, come in un incontro faccia a faccia, essendo ancora compagne della nostra vita quotidiana anche quando sono consegnate ad un museo. Nella loro datità fisica, nel loro essere palinsesti simbolici della memoria, gli oggetti diventano parafrasi del mondo, forme del tempo, materia dei saperi.
Antonino Uccello non ha avuto il tempo di conoscere gli ultimi sviluppi della rivoluzione informatica che ha fatto irruzione nelle nuove frontiere della comunicazione museale. La sua lezione, la sua attenzione per le cose da conservare, tutelare e rendere visibili per la diretta fruizione, è oggi quanto mai attuale in una temperie culturale in cui la fisicità delle esperienze sembra assottigliarsi e con essa la nostra capacità di distinguere l’elemento naturale da quello artificiale, l’organico dall’inorganico, la realtà dalla sua finzione. Può così paradossalmente accadere che certi musei sembrano voler fare a meno dei patrimoni oggettuali e delle collezioni, impegnati come sono sulle loro ricostruzioni elettroniche e sulle loro rielaborazioni virtuali. Può perfino accadere di scoprire musei che si dichiarano tali semplicemente perché enfaticamente illustrati su materiali cartacei o esistenti soltanto su pagine web. A fronte di un’utilizzazione intelligente delle tecnologie informatiche che allargano l’orizzonte conoscitivo, moltiplicando l’accesso alle fonti di informazioni e stimolando procedure interattive con il pubblico, incominciano a diffondersi raffinate ed esasperate soluzioni multimediali che assumono il primato sulle collezioni fino a emarginarle e perfino a surrogarle. In certi allestimenti postmoderni dell’oggetto c’è solo la metafora, una traccia volatile, un frammento quasi invisibile. I musei di cultura materiale rischiano così di essere privati della loro stessa ragion d’essere, la materialità del bene culturale, stravolgendo la propria identità nel profilo algido e computerizzato del nuovo universo on line.
Il destino dei musei etnoantropologici non può volgere in questa direzione. Le tecniche di ricostruzione virtuale e di animazione digitale con la capacità di simulazione che riescono ad attingere devono aiutarci a penetrare il segreto delle cose e non ad allontanarcene. Devono essere utili strumenti di sussidio alla loro osservazione e alla loro analisi, formidabili dispositivi che consentano al visitatore di elaborare modelli dei processi concettuali, capaci – come scriveva Cirese già nel 1967 – di fargli «compiere o ripetere le operazioni attraverso cui il materiale documentario è o può essere elaborato». E lo studioso aggiungeva: «Non vedo la ragione per cui non dovremmo spingerci più in là, provandoci a tradurre i procedimenti concettuali in ruotismi o snodi, in sistemi di slittamenti o sovrapposizioni di tavole, in successioni o giustapposizioni di immagini, che collocano in relazioni diverse gli stessi oggetti e in relazioni identiche oggetti diversi» (1977: 53). I “ruotismi” di cui parlava allora lo studioso sono oggi ovviamente diventati i software elettronici.
Chiarita la preziosa funzione strumentale delle tecnologie informatiche applicate alla museografia, non si dà, tuttavia, alcuna rappresentazione senza la cosa da rappresentare, non si dà alcun museo etnoantropologico senza gli oggetti del lavoro, senza le testimonianze materiali dell’opera dell’uomo, senza i riferimenti forti all’identità dei luoghi. Non c’è museo più vicino al territorio di quello etnoantropologico. Ogni manufatto vi trova spazio e significato solo in quanto espressione di quella determinata area geografica. Il senso ultimo di questo tipo di musei sta proprio nella loro connotazione identitaria e nel radicamento del sentimento di appartenenza. Più di un museo in rete nel ciberspazio vale una rete di piccoli e grandi musei che interagiscono nel territorio in un rapporto di sinergia e di interdipendenza. La vera “connessione” è da ricercare probabilmente nelle sottili maglie di quel tessuto produttivo che nel modellare il paesaggio antropico lo caratterizza. In questa direzione, è un esempio di felice conversione museografica dei “luoghi del lavoro”, ovvero del patrimonio agrario e preindustriale esistente in una vasta area iblea, il Museo di Buscemi, che Rosario Acquaviva è riuscito a realizzare attraverso la creazione di un vero e proprio itinerario etnoantropologico sul territorio, articolato in una serrata sequenza di masserie e palmenti, case e botteghe artigiane, mulini e frantoi recuperati e riattivati. In un momento storico in cui le ragioni del marketing, spesso rozzamente calate nell’universo dei beni culturali, tendono a trasformare le operazioni di valorizzazione delle risorse etnoantropologiche in commercializzazione di “pacchetti” turistici da offrire o da vendere, il Museo di Buscemi rappresenta un prezioso capitale umano ed economico da investire in un vantaggioso progetto di oculato turismo culturale. Questo splendido parco museale, che ha promosso occupazione e ha fatto scoprire in molti giovani del luogo nuovi interessi conoscitivi, dimostra che è possibile trasformare il territorio con gli strumenti della nostra cultura, risparmiando alle nostre campagne lo scempio dell’abbandono o della devastazione e offrendo alle collettività occasioni di riflessione sul passato e di crescita economica nel presente.
A più quarant’anni di distanza dalla legge regionale che per la prima volta riconobbe l’esistenza giuridica dei beni etnoantropologici, parecchi di quei musei della cultura popolare germinati nel frattempo un po’ ovunque in Sicilia, con libere e spontanee accelerazioni associative, non sono oggi più attivi o vivono esperienze stentate, alcuni alle prese con i problemi dell’amministrazione e della gestione quotidiana, altri versano in uno stato di precarietà e incertezza nella transizione dalla passione dell’accumulazione alla maturità della progettazione scientifica. Ma il quadro è ben più variegato, e il bilancio complessivo decisamente positivo se si considerano le molte istituzioni museali, come quella di Modica (Il Museo Ibleo delle arti e tradizioni popolari S.A. Guastella) o di Paceco (Il Museo del sale), per fare solo due esempi, che per la ricchezza delle loro collezioni, la duttilità e l’efficacia degli impianti espositivi e per le intense attività culturali programmate hanno saputo guadagnarsi prestigio e riconoscibilità. Per tutti i musei etnoantropologici, specie per quelli più piccoli, si pone, tuttavia, la necessità di un sistematico coordinamento all’interno di una rete museale da organizzare sul territorio, che valorizzi le potenzialità e le peculiarità di ciascuna struttura locale, limiti la frammentazione e la dispersione delle risorse e, pur nella diversificazione delle proposte conoscitive, garantisca un orientamento culturale omogeneo e coerente. Il Servizio Museografico della Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo è stato per diversi anni impegnato in una costante opera di consulenze scientifiche e di assistenza tecnica
Nel frattempo, quella Sicilia descritta da Buttitta nel 1977, nelle pagine del saggio già ricordato Elogio della cultura perduta, appare in gran parte mutata nel suo paesaggio umano e antropologico, alla luce delle più recenti dinamiche sociali e per effetto dei processi di globalizzazione economica. Un fattore di grande cambiamento demografico e di vitalità culturale è oggi offerto dalla presenza di altre etnie nell’Isola, rappresentate dalle comunità degli immigrati stranieri. Questa nuova scommessa che si gioca intorno al destino dell’identità siciliana è materia di grande interesse antropologico. Se da un lato i centri storici delle nostre città perdono parole e suoni della cultura tradizionale, dall’altro sembrano oggi lentamente assorbire nuova linfa e nuovi accenti da altre storie e stili di vita, da altre lingue, dalle esperienze e dalle tradizioni prodotte dagli stranieri, dall’universo materiale e simbolico delle loro culture. Altri reticoli sociali e nuovi traffici culturali animano le strade e le piazze che nella trama quotidiana del vivere accolgono immagini e voci, odori e sonorità riconducibili alle diverse etnie degli abitanti. Quale ruolo e quale peso avranno le culture degli immigrati nella Sicilia dei prossimi decenni, molto dipenderà dai tempi necessari al riconoscimento dei loro diritti civili e, più in generale, dai livelli di avanzamento delle politiche sociali.
Nello scenario dispiegato dalla immigrazione l’orizzonte della cultura popolare siciliana è destinato, dunque, ad essere abitato e rivitalizzato da nuovi soggetti, da quei popoli che l’antropologia ha, fino a qualche anno fa, studiato nelle lontane regioni delle loro origini e che oggi sono qui vicino a noi, uomini tra di noi, come noi. Nella percezione della loro alterità siamo chiamati a negoziare e a riplasmare le nostre identità. Dentro i tumultuosi processi di ibridazione e conflitto che caratterizzano il nostro tempo, il sapere antropologico, per natura e per storia fondato e vocato al confronto con l’Altro, può e deve contribuire a costruire una museografia più attenta ai fenomeni di contaminazione culturale, più aperta alla conoscenza del mondo umano e sociale degli immigrati stranieri.
Se il museo è per eccellenza il luogo della memoria, è anche lo spazio privilegiato del colloquio tra le generazioni e, in quanto tale, dalla proiezione nel passato vuole attingere la comunicazione con il presente e la progettazione del futuro. A guardar bene, la vera sfida della modernità prefigura l’istituzione di musei antropologici interetnici, in cui delle culture siano documentate le relazioni e non solo le differenze, i sostrati e le sovrapposizioni, i meticciamenti e i sincretismi. Nel ripercorrere le vie segrete di questi contatti e nel riannodare i fili della fitta trama delle analogie e delle permanenze, è possibile individuare delle diverse tradizioni etniche le ascendenze storiche, la circolazione e i prestiti di oggetti e di segni, i processi di osmosi e di interazione, l’opera lenta di riplasmazione e di rielaborazione semantica di temi, di tecniche e di simboli. L’obiettivo di un museo che declina in una sintesi inedita universi materiali e culturali solitamente non comunicanti è certamente ambizioso, ma apre la strada ad una rinnovata museografia etnoantropologica che prepara e sostiene la costruzione di società interetniche.
L’unico museo in Sicilia che si muove in questa prospettiva strategica è il Museo delle Trame Mediterranee di Gibellina. Pur limitandosi a rappresentare la cultura figurativa artistica, prevalentemente afferente ai settori dell’abbigliamento e della ceramica, il modello espositivo a cui si ispira tenderebbe alla restituzione di quel complesso intreccio di relazioni umane e di espressioni culturali che ha interessato l’area del Mediterraneo. «Il valore portante di tale operazione – ha scritto Achille Bonito Oliva (1996: 14) – è quello della coesistenza delle differenze, (…) della coesistenza tra passato e presente, arcaico e contemporaneo, arte classica e d’avanguardia». La recente mostra “L’Islam in Sicilia”, che è stata allestita in diverse capitali del mondo arabo, ha avuto il merito di proporre alla riflessione le innumerevoli testimonianze documentali che legano la Sicilia alla civiltà islamica. Se nello sviluppo dei suoi programmi il Museo volgerà le sue ricerche anche nel campo della cultura materiale del lavoro, potrebbe coinvolgere la partecipazione attiva delle stesse comunità maghrebine immigrate in Sicilia e contribuire a favorire una più consapevole convivenza e una loro integrazione sociale e culturale, anche attraverso una corretta e reciproca conoscenza dei profondi legami che uniscono la nostra storia a quella delle popolazioni rivierasche dell’Africa.
A fronte poi di quanto la cronaca delle migrazioni contemporanee pone drammaticamente alla nostra attenzione, ci si interroga se non sia il caso di documentare nel linguaggio museografico il fenomeno che riguarda noi siciliani, storici emigranti oggi impegnati nell’accoglienza di nuovi soggetti migranti. Un museo è fondato su memorie di storie concluse, su documenti di vita e di avvenimenti che appartengono al passato. Forse proprio per questo non siamo stati ancora in grado di realizzare un Museo dell’emigrazione siciliana, non siamo stati capaci di costruire e difendere la memoria collettiva di questa fondamentale esperienza storica. O forse le difficoltà sono da ricondurre all’interno di quell’interrogativo di fondo che Antonino Buttitta (2002: 40) pose, più di vent’anni fa, in uno dei primi Colloqui Europei di Gibellina: «Come mettere in un museo le credenze, gli usi, le idee, i sentimenti, le attese che sono parte così importante della condizione umana, se non la fondamentale? È questo il vero e problematico interrogativo al quale il museografo sarà chiamato a dare una persuasiva risposta».