il centro in periferia
di Rossano Pazzagli
Nel corso del Novecento, con l’affermarsi del modello industriale e della società urbanocentrica basata sui consumi, gli italiani sono scesi a valle, discesi inesorabilmente verso le pianure e il mare. Soprattutto dopo la metà del secolo il grande esodo, descritto magistralmente da Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti, ha visto il massiccio trasferimento di persone dalle pendici e dalle vallate verso le aree urbane, dove la fabbrica fordista e l’organizzazione taylorista del lavoro rendevano indispensabile la manodopera per l’Italia del boom. Il fenomeno ha assunto dimensioni sempre maggiori e diffuse nel corso dei decenni successivi, con l’abbandono di parti significative del territorio italiano, prevalentemente collinare e montuoso, generando forme di disagio apparentemente contrapposte, ma convergenti nel determinare lo spopolamento delle aree interne e l’intensificazione urbanistica e sociale delle città e delle coste. Si è finito per generare, dal Nord al Sud, una grande periferia italiana come contraltare dei fenomeni di urbanizzazione e di litoralizzazione della popolazione e delle attività produttive.
Periferia non si nasce, si diventa. Non è colpa del destino, né della natura. Si è trattato di un aspetto nazionale del “grande saccheggio” o della “miseria dello sviluppo” [1]. I paesi e le valli, i villaggi aggrappati sulle pendici hanno perso popolazione e attività. Non si è trattato solo di un fatto fisico, materiale, ma anche culturale e morale che ha investito l’intera penisola accrescendo le disuguaglianze.
La contrapposizione tra la vita e la morte, ancorata allo scenario epidemico andato in onda nella primavera sospesa del 2020, è una potente metafora per descrivere la situazione delle aree interne italiane, dei paesi e delle campagne ingiustamente marginalizzate dal processo di sviluppo contemporaneo e che oggi, proprio in conseguenza della crisi, vedono una possibilità per tornare al centro dell’attenzione. Esse hanno dimostrato, infatti, di essere luoghi più sani, a differenza delle grandi aree urbane e delle zone economicamente più forti. L’Italia interna sembrava moribonda, invece è viva e “bella dentro”: lontana, marginale e fragile, ma allo stesso tempo sorprendentemente viva e innovativa [2]. Un Paese fatto di campagne e paesi.
Anche se hanno subìto lo spopolamento, i paesi non sono contenitori vuoti, ma un deposito di patrimonio territoriale, di stili di vita e di servizi ecosistemici, e anche di virtù civiche che nell’insieme possono rivelarsi utili non solo per loro stessi, ma anche per sperimentare un diverso modello di sviluppo. Dopo il coronavirus potranno finalmente riacquistare la voce perduta ed essere i punti di una rinascita su altre basi, a condizione che se ne prenda coscienza da subito a livello sociale, economico e soprattutto politico.
Oggi le aree marginali rappresentano uno dei nodi cruciali più attuali e urgenti del governo del Paese: una questione nazionale [3]. «Se c’è una cosa che l’epidemia fa emergere, questa è l’importanza del territorio», ha affermato di recente il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano. Può sembrare elementare, ma è un’affermazione rilevante che rovescia la prospettiva fino ad oggi dominante, cioè quella dei centri ordinatori (poche aree forti a grande concentrazione) e di una vasta periferia costretta a subìre processi economici e sociali di abbandono e di marginalizzazione. Le aree forti si sono rivelate fragili di fronte al virus, per cui la ripresa dovrà cambiare strada, possibilmente da subito, rompendo il meccanismo della direzionalità dei grandi agglomerati urbani
È necessario aprire una fase nuova, nella quale sperimentare nei paesi forme alternative di vita, di economia, di cultura. Occorre capire e riabitare l’Italia nella sua diversità, nel suo policentrismo territoriale, antropologico, sociale e culturale [4]. In tanti, sotto le paure del male e di fronte al fallimento del capitalismo urbanocentrico, si sono accorti di una ben altra emergenza, che alcuni di noi andavano denunciando da tempo: quella dell’abbandono e della depressione di tanta parte del territorio italiano, campagne e borghi che costituiscono l’ossatura e la maggioranza del corpo del Paese, una maggioranza di superficie e di risorse naturali, un deposito di valori ambientali e di servizi ecosistemici.
Ora i paesi non possono più restare un argomento per addetti ai lavori, per professionisti delle aree interne spuntati come funghi negli ultimi anni, ma devono diventare terreno d’azione delle comunità locali, degli abitanti e degli amministratori diretta espressione di quelle comunità, un possibile teatro della rinascita. Devono soprattutto essere visti come una questione politica, un terreno di pianificazione e di investimento. Qui è più facile, quasi spontaneo, il distanziamento fisico, che non dovrebbe mai tradursi in distanziamento sociale contrariamente a quanto si è andati ossessivamente affermando nei mesi dell’epidemia. Ma servono misure differenziate, che riaprano alla vita proprio a partire dalle aree interne, rurali o rururbane, dai sistemi territoriali locali [5]. E affinché ciò possa avvenire bisogna ripartire dai servizi e dal lavoro: dall’agricoltura, dall’allevamento, dal turismo sostenibile, dal commercio di prossimità, dai trasporti, dalla sanità e dalla scuola.
Tematiche e ambiti di intervento che discendono tutti dai fondamentali principi costituzionali: il lavoro, la salute, l’istruzione, la mobilità. L’agricoltura produce cibi sani, i servizi ecosistemici di cui sono naturalmente depositarie le aree interne consentono stili di vita più aderenti ad un equilibrato rapporto tra uomo e natura e possono rappresentare la base della ricostruzione del rapporto città-campagna. Quello tra uomo e natura e quello tra rurale e urbano sono da tempo due rapporti in crisi, da ricostruire, come ci ha insegnato la diffusione di questo moderno contagio.
Ripartire dai luoghi, dunque, con politiche placed-based, senza interferenze burocratiche, più snelle e flessibili per i piccoli comuni, che riprendano il solido impianto originario della SNAI (Strategia nazionale per le aree interne) ma si liberino dei troppi passaggi, che mettano direttamente in comunicazione l’approccio bottom-up con quello top-down, rivedendo ad esempio il ruolo intermedio delle regioni che spesso si è rivelato un elemento di complicazione e di appesantimento burocratico. Investire sui paesi, recuperare il patrimonio edilizio abbandonato, sistemare le strade per arrivarci, evitando che continuino ad essere le vie della fuga, dotarli di servizi e di reti veloci. Sarebbe un grande programma nazionale, creatore di lavoro, di qualità, di bellezza.
Ma per vivere nei paesi delle aree interne servono soprattutto servizi, servizi essenziali, altrimenti nessuno tornerà e pochi resteranno. Non basteranno gli appelli. Nell’ottica di un riposizionamento delle aree interne italiane, considerate come ambiente salubre e laboratorio di nuovi stili di vita, le regioni più appartate – quelle remote della montagna come quelle più basse ma egualmente lontane dai flussi vitali – possono ritrovare una nuova centralità in vari settori, nella costruzione di una vera sostenibilità ambientale e sociale come preludio alla sperimentazione di nuovi modelli economici. Le scuole di paese, l’organizzazione di una sanità territoriale e la mobilità interna ed esterna, sono la base di una rinascita, ora più possibile che mai; anzi, ormai necessaria e anche urgente. In campo sanitario la pandemia ha evidenziato la strettoia della rete ospedaliera, fortemente razionalizzata secondo logiche economicistiche e aziendali, l’inadeguatezza delle politiche sanitarie e la necessità di rilanciare un sistema che riconosca una primaria importanza ai servizi sanitari e socio-assistenziali diffusi e alla loro integrazione con la sanità ospedaliera.
Le strategie Snai già approvate prevedono una serie di azioni che vanno in questa direzione: infermieri di comunità, ostetriche di comunità, farmacie rurali come punti di servizio, reti di soccorso e altri servizi di prossimità, compreso un ripensamento del modello RSA per assistere gli anziani, valorizzando strutture e modalità diffuse in modo che i paesi diventino anche borghi del benessere, come è avvenuto ad esempio in alcuni comuni del Molise come Riccia e Castel del Giudice. Il riferimento al Molise non è casuale. Con la Basilicata, la Calabria, la Sardegna e porzioni significative di diverse altre regioni della penisola, può essere considerato come l’emblema delle aree interne italiane, lo specchio dei processi di spopolamento e di abbandono e, al tempo stesso, l’ambito privilegiato per l’applicazione di programmi di rinascita territoriale che poggino innanzitutto su una rivitalizzazione culturale e sociale.
Nell’orizzonte della crisi epidemica, espressione della vulnerabilità del modello di sviluppo dell’ultimo secolo, breve ma anche troppo lungo, il raffronto tra la condizione delle aree cosiddette forti (urbanizzate, industrializzate, finanziarizzate, inquinate) e le aree interne del Paese (abbandonate, isolate, spopolate, sane) ci dice che è tempo di cambiare rotta e di uscire finalmente dalla infelice dicotomia tra sviluppo sbagliato e sviluppo mancato, rimettendo al centro il territorio e i paesi con le loro comunità: paesi vivi, non più soltanto patrie lontane dove tornare a visitare i propri morti o a coltivare ricordi, ma luoghi da riabitare rigenerando comunità [6]. Qui c’è spazio, uno spazio grande che non è più un vuoto, un’assenza. Lo spopolamento e l’abbandono hanno creato distanze e separazioni, fratture. Il distanziamento delle persone e dei luoghi, esito dei processi di declino delle aree interne, può diventare ora un vantaggio su cui investire in termini culturali e politici, uno spazio aperto in cui sperimentare nuove relazioni e stili di vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari, 2008; Id., Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari, 2011.
[2] L. Martinelli, L’Italia è bella dentro. Storie di resilienza, innovazione e ritorno nelle aree interne, Altreconomia, Milano, 2020.
[3] Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani, a cura di M. Marchetti, S. Panunzi, R. Pazzagli, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017.
[4] Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di D. Cersosimo e C. Donzelli, Donzelli, Roma, 2020.
[5] G. Dematteis, A. Magnaghi, Patrimonio territoriale e coralità produttiva: nuove frontiere per i sistemi economici locali, “Scienze del territorio. Rivista di studi territorialisti”, n. 6, 2018: 12-25.
[6] A. De Rossi, L. Mascino, Rigenerazione, in Manifesto per riabitare l’Italia, cit.: 201-206.
Rossano Pazzagli, docente di Storia moderna e Storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise, esponente della Società dei Territorialisti, è stato direttore del Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini. Dirige la Scuola di paesaggio “Emilio Sereni” presso l’Istituto Alcide Cervi e fa parte della direzione di varie riviste, tra cui “Ricerche storiche” e “Glocale”. È autore di numerosi articoli e libri; con Gabriella Bonini ha recentemente pubblicato il volume Italia contadina. Dall’esodo rurale al ritorno alla campagna (Aracne).
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