di Cinzia Costa
Aliano non ha fretta/di farsi trovare, lascia fare al paesaggio./Qui la terra sembra un popolo,/un altare di cardi e ginestre./Li chiamano calanchi/ma è come stare in una chiesa:/guarda come pregano/questi monaci di creta
(Franco Arminio)
607 km è la distanza che deve percorrere la nostra Punto celeste per arrivare a destinazione. Io e la mia compagna di viaggio abbiamo preparato tutto l’occorrente: una tenda da condividere, il necessario per pochi giorni di campeggio, una bottiglia di acqua fresca e buona musica per le quasi 8 ore di viaggio che ci attendono. L’itinerario è quasi definito: percorreremo tutta la Palermo-Messina, poi traghetto per Villa San Giovanni, attraverseremo tutta la Calabria fino a Cosenza, e da lì decideremo se prendere la strada litoranea per poi ritornare verso l’entroterra lucano, oppure attraversare il Parco Nazionale del Pollino. Decidiamo per questa seconda opzione ed intorno alle 18,00 del 23 agosto arriviamo ad Aliano, piccolo paese in provincia di Matera, dove dal giorno precedente ha avuto inizio la Festa della paesologia, “La luna e i calanchi” [1].
Il festival, giunto quest’anno alla sua sesta edizione, è ideato e curato da Franco Arminio, poeta, scrittore, regista, e ideatore della “paesologia”, disciplina (o per meglio dire corrente, tema, prospettiva) di cui egli stesso si fa promotore da diversi anni. L’utilizzo di questo termine e la discussione su questo tema hanno preso campo negli ultimi anni, tanto da portare l’enciclopedia Treccani.it ad aggiungere la voce «paesologia» tra i Neologismi 2017.
«paesologia (Paesologia) s. f. L’arte dell’incontrare e raccontare i paesi e i luoghi, percepiti come centri di vita associata immersi nel territorio e nella storia e interpretati fuori da ogni rigido schema disciplinare» [2].
La festa della paesologia prende infatti luogo in un paese molto piccolo, difficile da raggiungere, poco adatto ad ospitare centinaia o migliaia di persone; un paese della Basilicata che, probabilmente, pochissimi dei partecipanti alla manifestazione avrebbero mai visitato nella propria vita, se non fosse per il festival.
Il censimento demografico Istat, aggiornato al 31 dicembre 2017, conta 967 residenti ad Aliano. Il calo demografico registrato ad Aliano nell’arco degli ultimi sedici anni, che consulto sul sito www.tuttitalia.it [3], registra la perdita di centinaia di persone e nuclei familiari; è un arco di tempo piuttosto breve e che non tiene conto dei decenni precedenti, che avranno certamente registrato lo stesso o peggiore calo demografico, causato da una forte emigrazione verso altre regioni. Il ciclo di vita di Aliano è assimilabile a quello di migliaia di paesi dell’Italia centrale e meridionale e, sostituendo il nome di Aliano con quello di molti altri comuni, si potrebbe raccontare una storia paradigmatica, unica e declinabile con le dovute differenze (la regione geografica, le cause e le modalità dello spopolamento) centinaia o migliaia di volte [4].
Africo, San Lorenzo, Borgo Fantino, Armungia in Calabria e Sardegna, sono alcuni dei paesi che prima di me sono stati raccontati su Dialoghi Mediterranei da autori, come Emanuela Filomena Bossa, Pietro Clemente e, soprattutto, Vito Teti, che da tempo dedicano la loro attenzione e il loro lavoro al tema dei paesi in abbandono. La rubrica Il centro in periferia, curata da Pietro Clemente, ha infatti negli ultimi mesi accolto moltissimi contributi di autori che hanno esplorato la vita, o più spesso il declino e la fine, di paesi italiani che rischiano di diventare, o sono già, carcasse, vuote di persone e piene di storia, dove catastrofi naturali e umane hanno segnato un destino e confermato una tendenza storica che sembrano essere ormai irreversibili. L’antropologo Vito Teti, calabrese di nascita, si occupa da decenni ormai dei paesi in abbandono e di quell’ambito di studi che osserva lo spopolamento e l’emigrazione non dalla prospettiva di chi parte, come di solito si fa, ma di chi resta; ciò che egli, in uno dei suoi più celebri lavori, Pietre di Pane, 2014, ha definito l’antropologia del restare.
«Mi sono trovato, quasi per caso, come capita nella magica imprevedibilità della scrittura, ad adoperare, a inventare almeno in una nuova accezione, la parola “restanza”. L’ho fatto in continuità e per assonanza con termini come erranza e lontananza. Perché restanza denota non un pigro e inconsapevole stare fermi, un attendere muti e rassegnati. Indica, al contrario, un movimento, una tensione, un’attenzione. Richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Un sentirsi in viaggio camminando, una ricerca continua del proprio luogo, sempre in atteggiamento di attesa: sempre pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati. Un avvertirsi in esilio e straniero nel luogo in cui si vive e che diventa il sito dove compiere, con gli altri, con i rimasti, con chi torna, con chi arriva piccole utopie quotidiane di cambiamento» [5].
“Restare” a vivere nella proprio città o regione natale, è un’espressione che un milanese non si sognerebbe mai di utilizzare, perché denota quel senso di ostinazione, di sopravvivenza alle ostilità del proprio paese, in ultima analisi, quel senso di resilienza che è estraneo a chi non è cresciuto vedendo la propria regione svuotarsi di amici, forze, capitale umano e vitalità. Restare in un luogo significa sceglierlo, e non per questo rassegnarsi all’immobilità cui il Meridione, per condizioni economiche o per biasimo di una narrativa nazionale, spesso condivisa dalla politica, è stato condannato da decenni ormai.
È in questo senso che l’attenzione verso un’Italia poco nota, spesso considerata improduttiva e arretrata, quella appunto dei piccoli paesi del Meridione, ha iniziato a farsi strada da diversi anni e si è manifestata con la nascita di movimenti culturali, iniziative e festival [6].
I fenomeni sociali di cui il Mezzogiorno italiano è stato allo stesso tempo scenario e protagonista, mi riferisco in questo caso alla disoccupazione in primo luogo, ma anche all’investimento sul settore industriale a discapito di quello agricolo, alla diffusione delle mafie che nei decenni scorsi hanno impedito o ostacolato la costruzione di infrastrutture adeguate, hanno prodotto forti squilibri economici e sociali tra “Le Italie” del Nord e del Sud, del centro e della periferia, e hanno avuto, in tempi dilatati, gli stessi effetti delle catastrofi naturali, terremoti, alluvioni e frane, che nel giro di pochi giorni o mesi hanno svuotato interi paesi dell’Umbria, dell’Abruzzo, delle Marche o della Sicilia.
I paesi abbandonati o in abbandono del Sud Italia sono luoghi rurali, difficili da raggiungere, che accolgono poche attività produttive o commerciali, dove la popolazione media è molto anziana e i giovani non esistono quasi più. Gli abitanti di questi luoghi sono sopravvissuti ad una catastrofe in corso, come un’emorragia inarrestabile; continuano a perdere parenti e amici, in un terremoto relazionale che con microscosse spalmate nel corso di decenni crepa il tessuto generazionale e sociale delle comunità. I 967 abitanti di Aliano, come quelli di centinaia di altri paesi del Sud, sono terremotati, che assistono giorno dopo giorno allo sfaldamento della propria comunità. Ciononostante quest’Italia secondaria, dimenticata da tutti i governi, di qualsiasi colore, assente nelle manovre finanziarie e nelle riforme sulle infrastrutture, è tutto fuorché vuota; essa è piuttosto un’Italia ricca e resiliente che ha ancora oggi molto da raccontare e da offrire a “quelli di Roma” [7] o a coloro che vivono nella frenesia delle grandi metropoli.
Ciò che Aliano ha da raccontare è scritto prima di tutto tra le pagine di Cristo si è fermato a Eboli, il famoso romanzo autobiografico di Carlo Levi, nel quale lo scrittore e pittore piemontese racconta il periodo di confino a Gagliano (Aliano) tra il 1935 e il 1936, sotto il regime fascista. Il paese vive ancora oggi della memoria di Levi: è emozionante per chi ha letto il libro passeggiare per le strade, visitare la casa dello scrittore, rivivere le scene raccontate tra le pagine, immaginarsi gli altri confinati passeggiare per le vie del paese lucano e guardare negli occhi gli anziani seduti al bar o in piazza, che forse un tempo, bambini, conobbero Levi e che anche settant’anni dopo hanno gli stessi lineamenti, le stesse espressioni descritte nel romanzo [8].
Quando nel 1945 la casa editrice Einaudi pubblicava Cristo si è fermato a Eboli, il libro diventava un caso letterario e politico e la descrizione, o per meglio dire denuncia, delle condizioni della vita contadina nel Meridione squarciavano il velo del perbenismo degli intellettuali e dei politici di sinistra [9], forte shock per tutta la società. Cristo si è fermato a Eboli è infatti uno dei capisaldi di quel meridionalismo realista e antropologico che accomunò diverse figure dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta: da Carlo Levi a Rocco Scotellaro, da Danilo Dolci a Pierpaolo Pasolini. Questa corrente fortemente politica eppure mai spersonalizzante, mossa spesso da personaggi che meridionali non erano, per lo meno di nascita, diede vita a dei movimenti sociali e culturali che seppure non provocarono mai un reale cambiamento sociale, sono ancora oggi molto conosciuti e sentiti, poiché cercavano di capire la realtà vista dagli ultimi, senza mai giudicarli, e mettevano in primo piano la dignità delle persone in quanto tali, e non in quanto contadini, meridionali, etc [10].
Ecco, questa dignità e questa attenzione alle persone per ciò che sono e che hanno da offrire, invece che per ciò che gli manca, è quello ancora oggi può ridare vita a delle comunità agonizzanti, prossime allo smembramento, ma che ancora molto hanno da raccontare. È questo il senso delle iniziative che in molti paesi del Sud e del Centro Italia mirano a dare nuovamente vita alle comunità locali.
“La luna e i calanchi” rientra in questo movimento culturale e sociale, gruppi di cittadini e associazioni del territorio promuovono feste e occasioni di incontro per parlare, in diverse forme, attraverso l’arte visiva e più spesso la musica popolare o la poesia, com’è il caso di Aliano, del «senso dei luoghi».
«Non ricordo bene quando ebbi per la prima volta la sensazione che i luoghi avessero un loro senso, un loro sentimento; immagino sia accaduto molto presto, nella mia infanzia. Nel paese della mia fanciullezza i luoghi avevano un nome, ed erano tutti speciali. Avevano un segreto. C’era il luogo delle fragole, quello dei funghi, il luogo delle castagne e quello delle ciliegie, i luogo dell’acqua e quello delle sabbie. Ognuno intratteneva un rapporto particolare con un determinato luogo. […] I luoghi ci si rivelano, ci scelgono. I luoghi rispondono con generosità al legame che con essi decidiamo di intrattenere» (Teti, 2004:3).
Una “comunità provvisoria”, come la definisce Franco Arminio, di avventori, amici e familiari per l’occasione, solidali e complici per cinque giorni, si lasciano inglobare dal paese, condividendo sensazioni, canti, pasti e poesie. Tutti luoghi urbani e naturali del paese sono coinvolti, tutta la vita della comunità è scombussolata, piazze piene di gente che balla, canta o legge, a qualsiasi ora del giorno e della notte, case aperte e bar affollati. Le signore del paese preparano già mesi prima enormi quantità di gnummareddi, gli involtini di interiora tipici del luogo, da vendere durante il festival nei baracchini e i ragazzini, a volte insieme alle loro mamme, partecipano all’organizzazione, fornendo indicazioni e gestendo la pulizia degli spazi comuni. Tutti sorridono e chiacchierano anche se non si conoscono. I poeti leggono poesie e un gruppo di persone ascolta, qualcuno imbraccia una chitarra o una cupa cupa [11] e intona un canto popolare, e gli altri lo seguono. Un passante che si ferma ad ascoltare chiede di provare a suonare lo strumento.
Il programma del festival è diviso in “laboratori”, “azioni visive” e “azioni paesologiche”. Un programma fittissimo e curiosamente vago, fluttuante e pronto a cambiare alla proposta di chiunque suggerisca un’idea diversa. Albe e tramonti condivisi, ore piccole e molta leggerezza. Sembra incredibile, ma nei pochi giorni di festival si assiste ad un piccolo miracolo. Giovani e persone adulte, provenienti principalmente da diverse aree del Sud Italia, condividono un’esperienza rivoluzionaria, nella sua banalità: lasciare che un piccolo paese periferico e difficile da raggiungere, dimenticato dalla politica e dalla fiumana della società, diventi un grande centro di propulsione culturale, in cui la collettività esprime sé stessa, al di fuori delle convenzioni sociali e culturali.
Laddove infatti la grande macchina della produzione culturale pensa generalmente i festival e le manifestazioni come grandi macchine economiche, che richiedono molto denaro e un’offerta culturale da destinare ad un pubblico di utenti, che ne fruisce (un’idea di produzione culturale, che molto si ispira al modello di economia capitalista), le piccole manifestazioni come “La luna e i calanchi” lasciano che siano le persone a costruire e a produrre cultura, a stabilire relazioni interagendo tra loro e con i luoghi, che più di tutti hanno da raccontare storia, cultura materiale, gastronomia, odori e sonorità, che altrimenti andrebbero perse, mettendo in atto quelle «piccole utopie quotidiane di cambiamento» di cui Teti parla a proposito della restanza.
Il festival di Aliano è cresciuto negli anni, tanto da arrivare nel 2018 ad ospitare personaggi noti anche a livello nazionale, da Chiara Gamberale ad Enzo Avitabile, da Rocco Papaleo a Chiara Civello, che comunque, nella maggior parte dei casi, hanno partecipato alla vita di comunità, più come amici, che come guest star dell’occasione. Una delle iniziative più interessanti a cui ho avuto modo di partecipare, per esempio, oltre ai laboratori di poesia, ai concerti improvvisati e alla lettura di poesie, è stata una piccola ma ricchissima mostra che raccoglieva manifesti politici e gadget dell’Italia, dalla nascita della Repubblica al Movimento cinque stelle. La mostra curata da una storica del luogo e realizzata grazie alla collezione di un appassionato alianese, raccoglieva manifesti rarissimi ed esplorava l’evoluzione della propaganda e dei simboli nella politica italiana, con un livello di approfondimento storico e sociologico di un altissimo valore culturale.
Chi resta, chi torna, chi arriva ad Aliano, lo fa con un rispetto del luogo e del paesaggio, completamente differente da quello del turista. È una devozione al luogo, che si fa coscienza civica, dal forte peso politico, e che, richiamando l’attenzione dei centri, delle metropoli e del vortice dell’economia invisibile, dei grandi palazzi della finanza, vuole riportare in luce i piccoli gesti concreti del quotidiano, che diventano l’unica vera rivoluzione in atto nel Meridione, che in silenzio ha sempre operato: passeggiare, impastare il pane a mano, sorridere, ascoltare un anziano che racconta storie, leggere una poesia, riscoprire una ricetta antica [12].
Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
Note
[1] https://www.lalunaeicalanchi.it/