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Tito o la capacità di essere nel cuore della forma

Tito, Sole caduto sulla piazza, 1979, legno, cm 180x80x15

Tito, Sole caduto sulla piazza, 1979, legno, cm 180x80x15 (ph. Stefano Fontebasso de Martino, Roma)

di Giuseppe Appella                                   

Bisogna vedere le cose come se si fosse già morti o appena nati.

Primo Conti 

Le mostre fotografiche di Fiorella Iacono prima e di Claudio Nardulli poi, sull’opera di Tito  (Tito Amodei, Colli a Volturno, 11 marzo 1926 – Roma, 31 gennaio 2018), aperte nel Complesso Monumentale della Scala Santa, proprio perché analizzano a fondo i materiali usati, mettono subito in luce le origini e la formazione dello scultore, orientato a trasporre la realtà immediata mediante un’austera disciplina e a coniugare, con perfetta coerenza e alta tensione meditativa, la vocazione sacerdotale alle più avanzate ricerche espressive del secolo appena trascorso.

Due legni del 1979, Sole caduto sulla piazza e Uccello in cima, sono indicativi in tal senso: l’oggetto insolito, il tema simbolico stilizzato, l’elemento “scena”, estrapolati dalla campagna del suo paese e lentamente sottratti alla semplicità figurativa attraverso un concorso di idee riemerse dagli abissi della memoria, vengono ricomposti con plastica musicalità, nella leggera geometria di forme librate nell’aria.

Tito, Deposizione, 1965, legno di noce, cm 135x135x30 (ph. Stefano

Tito, Deposizione, 1965, legno di noce, cm 135x135x30 (ph. Stefano Fontebasso de Martino, Roma)

L’operazione di Tito, condotta sempre per ragioni di linguaggio espressivo, è la stessa compiuta alla fine degli anni Sessanta, quando non si perde nei franchi luminismi di Rodin o di Maillol e cerca il sostegno di una adeguata invenzione formale sostenuta da una mobilità e da una prontezza di segno che richiama da un lato gli espressionisti e dall’altra i neoprimitivisti alla Barlach, ma con una vena più eccitata, a volte imponente, e un senso psicologico che attanaglia le forme grevi, di “accento potentemente rustico” e al tempo stesso domestiche, con una grande energia e un contenuto incantato di perfetto arcaismo (cfr. Il grande nudo, del 1960-1964, legno di olmo, cm 200x70x70).

Tito non vuole scivolare, proprio quando è mosso da temi sacri, nella tragica ponderosità e neppure nell’evasione dalle civiltà che l’hanno nutrito fino a quel momento. Si appoggia, perciò, a Martini e a Marino, vi infiltra ondulazioni che dal Boccioni delle compenetrazioni di piani come sviluppo di forme nello spazio e dal Melli dei volumi negativi come indicativi d’ombra arrivano a Wotruba e a Smith (cfr. Deposizione, 1965, legno di noce, cm 135x135x30), senza mai farsi irretire dal monumento commemorativo o dal rilievo decorativo.

Il bisogno di un racconto figurale, proprio del primo desiderio di essere pittore, è sempre in equilibrio con le necessità plastiche tutte linea, movimento e capacità espressive. Lo stesso disegno si iscrive entro un piano a rilievo, cerca un asse intorno a cui organizzare l’immagine che, con qualche eccentricità, dominerà lo spazio adoperando la forza che, apparentemente lontana dalla sua persona, si incanala nelle strutture e nelle direzioni speculative delle sue invenzioni tese ad esplorare ogni possibile implicazione del discorso plastico capace di coniugare accenti inediti di candore e sentimento.

Tito, Euclidea, 1990, legno, cm 190x190x100, Foto Stefano Fontebasso de Martino, Roma

Tito, Euclidea, 1990, legno, cm 190x190x100 (ph. Stefano Fontebasso de Martino, Roma)

Ciò spiega perché la maggiore aspirazione di Tito sia quella di ristabilire la continuità del volume riducendo all’estremo le forme, tenendo sempre in vista, però, la massa compatta, appena penetrata, con i contorni arrotondati, le membrature naturali, ripetute, distinguibili, quasi dovesse fermare la sua attenzione sulle possibilità di una implicazione lirica degli oggetti della quotidianità contadina, riportare in vita gli utensili di una razza estinta di giganti, le impronte archetipe di una espressione rituale (cfr. Lo specchio nel bosco, 1980, bronzo, cm 180x140x10).

La tensione alla sobrietà e al calcolo delle figure geometriche piane in un primo tempo, dei solidi poi, il marcato verticalismo, le profonde suggestioni di situazioni di spazio e di tempo, si sviluppano ampiamente lungo tutti gli anni Ottanta, avendo alle spalle la lezione di Piero della Francesca che stimola di continuo l’impegno esemplificativo e didattico aprendo ampi squarci d’indagine nella geometria proiettiva e descrittiva.

Tito fa di più, senza affrontare dichiarazioni di estetica: istintivamente cerca di identificare la pittura di un tempo con la scultura resa dimostrazione «de superficie ed de corpi degradati e accresciuti nel termine» (cfr. De prospectiva Pingendi). Rompe la compattezza della massa, rifonde il prodotto plastico di energie spaziali e temporali, invade lo spazio con grandi pareti in tensione, intreccia il sole e la terra, alza absidi, allarga paesaggi, sommuove pavimenti, articola le onde del mare, scomoda anche Euclide per ritrovarsi nel cilindro di Piero, ovvero nel corpo della struttura di cui saggia sperimentalmente la duttilità, l’estensione e l’inflessione.

Tito nello studio, con alle spalle La chioma di Narciso del 1990 (ph. Stefano Fontebasso de Martino, Roma)

Tito nello studio, con alle spalle La chioma di Narciso del 1990 (ph. Stefano Fontebasso de Martino, Roma)

Un universo inverosimile di forme, governate dalla ferrea legge del numero, si staglia come un’illusione ottica «more geometrico demonstrata» in un luogo mentale dove un gioco sottile di segni intersecati, di volumi aperti e chiusi, crea una voluta ambiguità. Che non è l’inganno prospettico di Piero recuperato da Tito solo visivamente in quanto lontanissimo dalla simbologia medioevale e, in fondo, attratto dalle equivalenze solo per ragioni di prefigurazione di forma. Infatti, la forma di Tensione (1985), che richiama le pagine di un libro sfogliato, o di La grande scultura (1986-1987), che ricorda una colonna, o di Paesaggio con il sole (1989), che amplifica l’idea di un ostensorio, o di La chioma di Narciso (1990), che suggerisce una pisside, o di Seme della forma (1992-1994), che ingrandisce l’uovo della Pala di Brera (Madonna col Bambino, Santi, Angeli e il duca Federico di Montefeltro, 1472-1474), sfrutta la foggia per caratterizzare ed evidenziare l’analogia, maggiormente distinguibili nella specularità dell’ombra segnalata nelle fotografie degli allestimenti realizzati da Tito nello studio di S. Giovanni o in occasione delle mostre nella Sala 1, nel Palazzo dei Consoli di Gubbio, nel Palazzo dei Papi di Viterbo, nella Rocca Paolina di Perugia, nella chiesa di Saint-Laurent ad Aosta, nel Complesso Vittoriano di Roma. Né è da trascurare, nella scultura, la disposizione dell’immagine, l’ordine della successione ritmica degli elementi sistemati lungo un asse verticale, coordinatore dello schema compositivo, e un asse orizzontale orientato prospetticamente e quindi decisionale per la definizione delle dimensioni della scultura stessa.

Tito, Albero nuovo, 1982, legno cm 220x50x55, Foto Stefano Fontebasso de Martino, Roma

Tito, Albero nuovo, 1982, legno cm 220x50x55 (ph. Stefano Fontebasso de Martino, Roma)

L’ossatura geometrica dell’opera, dunque, è palese, soprattutto se la si raffronta con il disegno che è sempre una ulteriore riflessione sulla forma prima di affrontare il legno, scelto quale elemento primario nella costante rappresentazione di una dimensione dell’Assoluto che non sia a tutti i costi inserita nella categoria dell’arte sacra. Anche qui, la presenza di Piero ha dato buoni frutti. I tronchi di alberi abbattuti o tagliati, che costellano le colline sullo sfondo del Battesimo di Cristo (1459-1460, National Gallery, Londra) o il primo piano del San Gerolamo penitente (1450, Gemäldegalerie, Berlino), del San Gerolamo e un devoto (dopo il 1450, Gallerie dell’Accademia, Venezia) e, in seguito l’Adorazione del Bambino  di Filippo Lippi, sono un preciso riferimento al Battista che Tito non dimentica e restituisce nell’aria mistica che circonda in ogni momento la scultura, solo che il modello, a distanza di secoli, è connotato dalla presenza di migliaia di descrizioni, di atteggiamenti, di impianti simbolici che hanno riservato l’atemporalità ai soli mezzi prospettici.

Uno sguardo alla disposizione della visione unitaria che Tito prepara, mette subito in chiaro quanto, ad esempio, lo incanti, secondo la calzante espressione di Soffici, la bella geometria di de Chirico che, volendo definire l’immagine, espande l’oggetto, lo riduce in misura costante, lo impone otticamente nella composizione d’assieme provocata da piani orizzontali e verticali improvvisamente affidati a un colore irreale e “simbolico” di grande sonorità.

Tito aggiorna il linguaggio tenendo conto del montaggio della forma, della sua compenetrazione, della sua sospensione, della molteplicità di direzioni nello spazio, del dinamismo accumulato all’incrocio delle forze (i cosiddetti segni di risonanza palpabili nei pastelli dell’ultimo decennio) in modo da creare una continuità dei vuoti e dei pieni, entrambi intesi come parti positive di una struttura plastica.

Tito, Abside, 1989, legno, cm 200x100x80 (ph.Stefano Fontebasso de Martino, Roma)

Tito, Abside, 1989, legno, cm 200x100x80 (ph. Stefano Fontebasso de Martino, Roma)

È lampante che non un movimento si perde nelle vibrazioni de La grande parete (1984, legno di abete, cm 200x300x40) e nell’improvvisa fissità degli elementi a canna d’organo di una installazione quale quella del 1989 a Fossato di Vico. Il blocco li lega tutti insieme. Tanto da predisporre un campionario di misure fuori dal consueto che, nella fase intermedia, preludono alle fusioni in bronzo e al successivo impiego dell’alluminio (Seme della forma, 1991-1993), della terracotta e del rame (Seme della forma, 1992-1994), del ferro smaltato (Dioscuro in rosso e nero, 1999).

Ogni taglio, ogni fenditura, la stessa saldatura-incastro della scultura che aggredisce lo spazio per occuparlo, o per accettarne la sottomissione, segnala il proprio peso materiale nell’aria, allude ad archetipi misteriosi, ricerca un equilibrio, opera un traslato per l’idea dei rapporti plastici e la loro abilità di sottrarsi, gradatamente, a qualsiasi raffigurazione. Il fine ultimo è quello di manifestarsi come pura immagine. Perciò la forma viene inserita nello spazio in modo che essa, offrendo i profili interni ai profili esterni, rinunci a qualunque aspetto statico e frontale e acquisisca una visuale mobilità, tanto da permettere all’aria, alla luce e allo stesso spettatore di passarvi liberamente (cfr. La Grande Scultura, 1986-1987, legno di abete, cm 400×300 di diametro, con le due lunghe aste che interrompono il cerchio e aprono un varco, non dissimile dalla stradina che si snoda nella ruota d’alberi del San Gerolamo penitente  di Piero).

La pesantezza, la gravità delle curve elasticamente vibranti, è consapevole dell’ampiezza narrativa ma anche delle modificazioni o aggiustamenti che l’accompagnano (forme compatte, contorni netti), proprio come accade nelle costruzioni religiose del passato. L’accuratezza artigiana e la vicinanza all’arte popolare, rintracciabili nei legni degli anni Ottanta, si concretizza in un pathos centrale, in un’estasi appassionata, in una sobrietà lapidaria.

Tito, Spazio-forma, 2000-2005, legno, tempera nera e cera rossa, cm 400x150x40, Foto Stefano Fontebasso de Martino, Roma

Tito, Spazio-forma, 2000-2005, legno, tempera nera e cera rossa, cm 400x150x40 (ph. Stefano Fontebasso de Martino, Roma)

Con I semi della Forma e con I Dioscuri l’attenzione viene concentrata sul nitido assetto dei vari elementi e su rapporti spaziali esatti. L’ispirazione, sempre serena, tende ormai a una forma chiara e ideale, bloccata da una impostazione non tradizionale e da un ordine armonico che nel nuovo sistema di continuità figurale, disposto per le grandi dimensioni, ritrova la vitalità necessaria per piegare la materia e continuare a intrecciare il fluire del quotidiano con il disegno divino.

Immagine-spazio (del 2000), sottratta alla decorazione architettonica, è l’abside giusto da utilizzare per i giochi simmetrici, le modulazioni delicate e le linearità preziose in atto con la serie di sculture successive intitolate Spazio-forma (2000-2005), dove l’impulso ad approntare uno spettacolo corrisponde esattamente alle teorie di Piero. Disegno e commensuratio predispongono al colorare, a quel dare i colori «commo nelle cose si dimostreno, chiari et oscuri secondo che i lumi li deveriano».

La qualità delle superfici scintillanti varia col variare dei lumi, l’esecuzione manuale collima con il concetto spirituale, tanto da vedere Tito ritrasformato nel legno la cui sostanza è palpabile dappertutto e limitata in sé, slanciata come due braccia pronte ad avvolgersi intorno alla muta presenza di un mondo materiale duro e chiuso nel proprio isolamento.     

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024   _____________________________________________________________________________      
Giuseppe Appella, lucano d’origine, storico dell’arte, si è formato a Roma dove ha insegnato e collaborato a quotidiani e periodici, da «La Fiera Letteraria» e «La Nuova Antologia» degli anni Sessanta, a «L’Osservatore Romano», «La Repubblica» e “Alias-Il Manifesto” di questi ultimi decenni. Ha diretto Gallerie d’Arte e Musei e ora si occupa del Polo Museale del suo paese di nascita, Castronuovo Sant’Andrea (PZ), a dimostrazione che non esiste più una periferia delle aree interne italiane. Dal 2006 al 2014 ha diretto il MUSMA, il Museo della scultura contemporanea di Matera da lui creato attraverso il sistema delle donazioni. Dal 2006 al 2009 è stato direttore del “Museo Fazzini” di Assisi. Dal 1979 segue le Edizioni della Cometa fondate da Libero de Libero. Ha pubblicato con vari editori molti dei volumi dedicati all’arte italiana e straniera tra le due guerre, curandone spesso mostre in istituzioni internazionali, senza trascurare l’architettura, il disegno, l’incisione, il libro d’arte, i multipli, la fotografia, i presepi, i poeti più vicini all’arte. Dal 1990 si occupa di Cataloghi Generali, gli ultimi dei quali dedicati rispettivamente alla pittura e alla scultura di Achille Perilli (Silvana Editoriale) e all’opera grafica di Guido Strazza (Allemandi). È Accademico di San Luca.

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