A partire dalla grammatica simbolica delle ritualità alimentari nelle diverse culture, le pagine che seguono prenderanno in esame, attraverso un’ottica antropologica, le trasformazioni che nella postmodernità l’alimento pasta ha avuto nei vissuti quotidiani. Da totem alimentare dell’identità italiana, nel corso degli ultimi decenni la pasta è diventata un alimento transculturale e globalizzato che ha subìto ibridazioni sia nell’uso che se ne fa nelle cucine dei vari Paesi, sia come pratica alimentare che ha assunto su di sé il valore della sostenibilità ambientale e nutrizionale, invertendo stereotipi, pregiudizi e rimodulando gusti e valori condivisi.
Ritualità e convivialità
Nel corso della vita di ogni cultura, si sono articolate, sedimentate, sviluppate ritualità e universi simbolici intorno al bisogno da parte delle comunità umane di alimentarsi. Le abitudini alimentari e le ritualità ad esse connesse aiutano a riflettere su quello che accade ogni giorno intorno a noi, nel nostro rapporto col mondo, con gli altri, con noi stessi. Diverse sono le dialettiche e le relative dicotomie che emergono e che in ogni caso integrano inesorabilmente due elementi: la sopravvivenza e la responsabilità etico/estetica di continuare a vivere attraverso le alimentazioni, delineando orizzonti sociali e simbolici.
Il cibo plasma il corpo ed è fondamento della più radicale contrapposizione dialettica che attraversa le culture nel rapporto mente/corpo. Questa dicotomia può essere declinata su diversi piani: quello delle astratte categorie teoretiche delle filosofie occidentali e non, e quello delle utopie alimentari delle diverse culture nelle quali la felicità consiste nell’eliminazione del bisogno alimentare con l’orgia alimentare che ne deriva. Potremmo assumere simbolicamente i due estremi di questa contrapposizione: per un verso il Simposio di Platone, banchetto filosofico a cui manca il cibo e per l’altro versante la festa della Cuccagna a Napoli a chiusura dei riti del Carnevale che si concludeva con l’“assalto” indiscriminato al banchetto allestito nell’attuale Piazza del Plebiscito in cui i lazzari erano i protagonisti (Scafoglio, 2001).
Si tenta inoltre in queste pagine di costruire geografie alimentari che ci condurranno a dimensioni glocali. L’alimento e il nutrimento diventano principi materialistici di un’arte di vivere senza Dio e senza dèi. Come sottolineava Foucault nella sua Storia della sessualità e dei piaceri la diet-etica «è un’arte senza museo, una maniera di stilizzare la libertà» (Foucault, 1976: 111), ma è al tempo stesso anche una strada che conduce al divino e ad un approccio alimentare mistico-religioso-sciamanico destinato a ribadire attraverso l’omofagia il potere del principio che attraversa tutte le creature e che si trasferisce in noi attraverso il rito del crudo della vittima. Tutto è in tutto, tutti gli elementi sono contenuti in ogni cosa e pervadono ogni cosa: così per esempio nel pane v’è carne e nella verdura v’è pane, perché in tutti i corpi semplici e frugali attraverso invisibili pori penetrano particelle che diventano altre particelle e si convertono in vapore (Diogene Laerzio, ed. 1998).
Come il linguaggio, la cucina contiene ed esprime la cultura di chi la pratica, è depositaria dell’identità di gruppo. Ma è anche il primo modo per entrare in contatto con gli altri: più della parola, il cibo si presta a mediare tra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a incroci e contaminazioni. In qualsiasi ambiente, in particolar modo per gli italiani (ed è questo che incuriosisce gli stranieri), e con qualsiasi compagnia, basta nominare un piatto e subito c’è chi ricorda pranzi passati, chi elenca come in un rituale magico gli ingredienti di una ricetta, e non mancano i riferimenti alla storia e alla cultura nazionali, spesso intriganti. Chi spiega una preparazione tipica rimanda con mille suggestioni al proprio territorio d’origine o d’affezione, e chi preferisce gli spaghetti alle penne o ai paccheri lisci o rigati, non è solo per una questione di gusto personale.
Di cibo sono poi intrisi il linguaggio (“rendere pan per focaccia”, “divorare” un libro, ecc.) e l’immaginario collettivo, cosicché ogni affermazione nasconde abissi di senso. Ma perché tutto questo? Perché mangiare dà gioia tanto quanto gustare il sapore delle parole, perché il codice culinario avvicina e appassiona, perché così si può resistere all’influenza omologatrice del fast food e del consumismo. Il rischio attuale, specialmente nel nostro Sud, è quello della foklorizzazione del nostro patrimonio culturale culinario, che molto spesso è ridotto a sagre, palii, mascherate. Si rinuncia alla progettazione culturale autonoma, magari per rientrare in presunti circuiti di spettacolarizzazione (Di Nuzzo, 2009). Si ha invece sempre più bisogno di affermare il proprio punto di vista per rendere autentico ed efficace l’incontro con l’altro, con lo straniero.
La dieta mediterranea è il grande ideale culinario che si sta sedimentando, ormai da diversi decenni, come immaginario simbolico e concreto, comune a tutti i Paesi del Mediterraneo. Nel nostro meridione, nel corso del tempo, si è verificata una combinazione di prodotti vegetali e animali, di piante antiche e nuove, rendendo possibile un raccordo tra cucina quotidiana e cucina festiva, cucina popolare e cucina d’élite. Il campo che si apre è naturalmente infinito. È possibile in queste pagine soffermarsi solo su alcuni momenti di queste ritualità legate all’alimentazione muovendo dal mondo classico, con qualche puntata al primo Medioevo, fino alla cultura tradizionale contadina per approdare alla nascita di un’identità italiana alimentare con Artusi (2017) [1] che codificò la cucina italiana in pieno Romanticismo.
Il cibo diventa oggetto di cerimoniali ben precisi: è offerta riparatrice, assume su di sé la responsabilità di essere “vittima sacrificale”; diventa strumento di guarigione del corpo, di salvezza dell’anima o, al contrario, di possibile dannazione; infine, è il protagonista delle numerose relazioni con l’appetito sessuale. Dividere il pasto con qualcuno conferisce immunità, partecipare ai banchetti cementa la comunità e la pone in comunicazione con gli dèi perché la tavola è fonte di vita.
Nel mondo greco-romano la convivialità è affidata al banchetto, a cui donne e uomini partecipano stando distesi, mentre nei primi secoli della repubblica a Roma i pasti erano consumati in piedi; solo successivamente subentrò, nella sala da pranzo (triclinium), l’uso di un tavolo, ovale o rettangolare, con attorno i lecti tricliniares, specie di ampi sgabelli a forma di divano che permettevano ai commensali di consumare pasti stando comodamente sdraiati alla maniera asiatica. Il banchetto era tutta un’arte, si pranzava con clienti ed amici di ogni livello, tanto che la distribuzione dei letti era accuratamente studiata. Senza letto non c’era festino.
La parte più lunga della cena era quella in cui si beveva, ed è durante il banchetto che ci si aspetta di ascoltare teorie generali, conversazioni di alto livello e se il padrone ha un filosofo come precettore gli fa prendere la parola. Il banchetto/simposio era ed è una manifestazione sociale, un momento di piacere della mondanità, ma anche della vita culturale e non può non implicare, nel suo essere manifestazione sociale, il legame col sacrificio religioso tanto da far pensare che si sacrificavano animali per poterli poi mangiare. C’era così una domesticità del sacrificio legato al banchetto e ad una sua dimensione pubblica. Ogni sacrificio era seguito da un pasto in cui si mangiava la vittima immolata, dopo averla fatta cuocere sull’altare a coloro che assistevano. Gli avanzi, quando era un sacrificio pubblico, si lasciavano sull’altare per i mendicanti. I sacerdoti si procuravano guadagni rivendendo questa carne ai macellai e la si vendeva come carne di vittima.
Durante l’Alto Medioevo, si radica anche in Italia e nel nostro Sud l’abitudine gallica di mangiare seduti intorno a un tavolo; queste nuove abitudini renderanno poi possibile successivamente l’uso del cucchiaio e del coltello anche se resta a lungo l’abitudine di mangiare con le mani. Anche alla base di questi banchetti e festini medievali c’era inevitabilmente un fondamento religioso pagano, rafforzato poi dal cristianesimo. La devozione del tempo, attraverso queste ritualità alimentari, intendeva far sentire che le gioie materiali della vita e l’esuberanza spirituale non sono che una cosa solo nell’armonia del rapporto mente/corpo. In tal senso si spiegano le utopie alimentari popolari legate al Carnevale e alla Cuccagna che, specialmente a Napoli, ma in tutta l’Europa mediterranea, erano diffusissime. Cibo, sesso e un mondo senza privazioni di alcun genere era il vero paradiso popolare.
«Il cibo è in ogni luogo e in ogni epoca un atto sociale» (Barthes, 1988: 281). In tutto il Mediterraneo nel corso del tempo la grammatica alimentare e conviviale si ibrida con processi d’acculturazione e métissage. Se si pensa al pane, alla pita araba che diventa la pizza napoletana, all’anice che si usa nell’aperitivo in Francia, in Grecia, nell’Arak arabo, il cibo unisce e accomuna le diverse civiltà, comunità e religioni. Cristianesimo, Ebraismo ed Islamismo hanno tutte origini mediorientali, stessa cultura e stesse tradizioni alimentari. Il riconoscimento della Dieta Mediterranea a patrimonio culturale immateriale dell’umanità Unesco, modello nutrizionale e culturale al tempo, espressione della comune identità mediterranea, non è casuale. Se il cibo è fonte di vita è anche simbolo del dialogo con la divinità e segno della relazione con Dio. L’area per così dire geografica è dunque il nostro Mediterraneo, quel Mediterraneo che Fernand Braudel (2017) aveva identificato con la triade grano-vite-ulivo, che tuttavia si è contaminata con altre popolazioni vissute nell’area mediterranea. A quella triade già individuata per definire “la natura” del mondo mediterraneo, vanno sicuramente aggiunti due prodotti elaborati da quel frumento e da quel grano: il pane (pizza) e la pasta.
Bisognerebbe raccontare il romanzo del pane, come ha scritto Vito Teti, cibo e simbolo che è presente in tutte le culture del meridione e delle isole, bisognerebbe raccontare la fatica, le ansie, i sogni, le fantasie delle persone che ripetono “voglio pane” (Teti, 2019). Al romanzo del pane non può essere disgiunta la lunga vicenda storica della pasta, la sua lavorazione, la sua evoluzione. «Poche cose al mondo sono così italiane come la pasta e la pizza. Soprattutto poche cose definiscono come queste l’identità italiana agli occhi degli stranieri» (Galli della Loggia, 1998: 2)
La pasta totem alimentare
In alcune zone della penisola, la produzione della pasta caratterizza la vita e la trasformazione del territorio, una sorta di foodscape [2], fin dal Medioevo. In particolare, a Napoli i maccheroni sono menzionati ufficialmente per la prima volta in una prammatica del 1509, un vero codice annonario del viceré Don Giovanni d’Aragona, Conte di Ripacorsa, che intimava:
«[..] quando farina saglie per guerra o carestia, o per l’indispositione de stagione de cinque carlini in su el tumulo non si debbano fare taralli, susamelli, ceppule, maccarune, trii, vermicelli, ne altra cosa de pasta excepto in caso di necessità de malati» (Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli, 1803: 166).
A voler consultare, però, gli atti privati, a Napoli, già nel 1295 si parla di maccaroni per un acquisto fatto dalla madre di Carlo d’Angiò a corte [3], e in un trattato di terapia delle febbri del maestro salernitano Giovanni Ferrario I, signore di Gragnano, che nella prima metà del secolo XII prescriveva vermicelli per guarire i tisici e ne parlava come di un cibo di uso corrente (Condorelli, 1968: 453). Il primo documento che ci fornisce l’elenco completo degli arredi di una bottega di vermicellaio è un atto notarile romano del 1630, un piccolo trattato sull’arte della pastificazione illustrato da due tavole che ci mostrano arredi ed utensili identici a quelli descritti un secolo prima, nella perizia notarili (Gargiulo, 1983). Ci testimonia la vita di una bottega di vermicellai, un’istantanea delle abitudini di vita e degli ambienti di lavoro, di come doveva essere l’aspetto della bottega del vermicellaio (il maccaronaro nel Napoletano) già a partire dal sec. XVIII, quando la produzione di pasta si fa più diffusa ed inizia la concentrazione nel Napoletano di un notevole numero di manifatture.
La bottega completa era composta da un laboratorio, una camera per la vendita, un cortile per l’essiccazione e una stanzetta da letto per l’operaio di guardia la notte. Nei comuni di Torre Annunziata, Gragnano e Castellammare di Stabia (Di Nuzzo, 2017) che hanno dato vita ad uno dei distretti più produttivi delle paste alimentari in Campania, iniziano quest’ attività produttiva a rimorchio di quella ben più importante della molitura del grano. La piccola fabbrica artigiana poteva essere un ambiente qualsiasi al piano terra dell’abitazione, il locale per la vendita un semplice bancone all’ingresso della casa, il posto per l’essiccazione delle paste il cortile o più spesso la strada.
Durante l’Ottocento poi si radica nell’immaginario un aspetto tipico della napoletanità che collegherà, per sempre, la città alla pasta con la relativa identificazione plebe/pasta. Per avere buoni maccheroni era decisivo l’impasto di semolato ed acqua calda che veniva lavorato con la forza delle gambe e dei piedi in una madia di legno o di ferro: un uomo in piedi sull’impasto coperto da un panno, reggendosi ad una fune per mantenere l’equilibrio, pestava con forza e velocità, con cura e competenza; erano «uomini cenciosi nel modo più ributtante, e senza veruna cura e politezza» (Spadaccini, 1998: 24).
Nella postmodernità, la pasta ha avuto profondi mutamenti a partire dai vissuti quotidiani. «Un’idea a cui sono particolarmente affezionato – scrive Montanari (2004: 75) – è che le pratiche di cucina non solo costituiscono un decisivo tassello del patrimonio culturale di una società, ma in molti casi rivelano meccanismi fondamentali del nostro agire materiale e intellettuale. La cucina può così essere assunta come metafora della vita, a meno che non ammettiamo che la vita stessa sia metafora della cucina».
La cucina è stata paragonata al linguaggio: come questo, essa possiede vocaboli (i prodotti, gli ingredienti) che si organizzano secondo le regole di grammatica (le ricette), di sintassi (i menù, ossia l’ordine delle vivande), di retorica (i comportamenti conviviali). L’antica cucina galenica ordina e riequilibra i quattro elementi (fuoco, acqua, aria, terra) e viene intesa come arte combinatoria, perché erano pochissimi gli alimenti a cui si attribuiva una natura perfettamente equilibrata.
Nel corso degli ultimi decenni, la pasta è diventata un alimento transculturale e globalizzato che ha subìto ibridazioni sia nell’uso che se ne fa nelle cucine dei vari Paesi, sia come pratica alimentare che ha assunto su di sé il valore della sostenibilità ambientale e nutrizionale, invertendo stereotipi, pregiudizi e rimodulando gusti e valori condivisi. Dire “pasta” in Italia, però, non vuol dire solo parlare di quella fatta con la farina bianca o con la semola di grano duro; nel nostro patrimonio gastronomico, infatti, esistono 50 tipi di pasta ripiena e ben 350 formati diversi.
Nel corso del tempo le culture hanno elaborato un bisogno facendolo diventare piacere e desiderio. Parafrasando Onfray (1991), oggi l’orizzonte alimentare rappresenta un nuovo edonismo per affrontare il desiderio: dall’etica alla diet-etica, un bisogno primario sempre più sublimato e plasmato fino all’elaborazione di un percorso di felicità e di costruzione di sé, ovvero “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. Tutto questo mette in gioco violente dicotomie, orizzonti sociali diversi, rituali suggestivi. Lo strutturalismo antropologico di Lévi Strauss sintetizza il tutto mirabilmente nella dicotomia crudo/cotto (Lévi Strauss, 2016) e Michel Onfray a sua volta definisce «una dialettica diet-etica» (Onfray, 1991). Per entrambi si configura una logica fatta di opposizioni a volte dissacranti e rivelatrici di sistemi simbolici e dall’intricato rapporto natura /cultura. Una dialettica che si diverte a contraddire e ridefinire, attraverso le contrapposizioni povero/ricco; cotto/crudo; indigestione/digestione; digiuno/abbondanza; dissipazione/conservazione, onnivoro/vegetariano, le nuove/antiche coordinate ovvero si potrebbe dire con Nietzsche, dell’eterno ritorno dell’uguale dell’alimentazione.
É attraverso il cibo e la complessa rete di significati che l’arte culinaria di ogni cultura elabora, che si definisce il piacere di appagare “sublimando” bisogni primari e si rende palese l’intimo rapporto tra corpo sociale e corpo naturale. Si fa strada così il bisogno di sentire il proprio corpo agito da sollecitazioni diverse e stravaganti o ataviche e rassicuranti. In questa nuova gaia scienza alimentare, la scelta di un alimento e la realizzazione di un piatto diventa un percorso di conoscenza, una scelta esistenziale attraverso la quale si accede alla costruzione del sé. Una genealogia della dietetica che rivela mondi di appartenenza. Sarebbe per esempio un’ingenuità credere che l’abbondanza di cibo e bevande fosse privilegio dei ricchi, e che la vita religiosa monastica fosse solo digiuno e preghiera. Così come la frugalità è un imperativo dietetico per il pensiero razionale e mistico-filosofico, mentre è invece una necessità per le classi povere.
Il discorso sul cibo e sulle molteplici strategie su cui ciascuna cultura ha investito, si arricchisce di significati quanto mai complessi e stratificati. Significati che, nel loro rapportarsi con coerenza e funzionalità agli assetti sociali, economici ed ecologico- produttivi espressi dalle differenti società storiche, hanno consentito di rubricare il cibo come un campo globale dell’esperienza in relazione al quale la vita intera viene organizzata e dotata del suo senso più completo. Se nel suo configurarsi in termini di puro vitto è quanto permette all’uomo di assolvere ai processi biologici vitali, nel suo rappresentarsi in termini di “fatto gastronomico” è ciò che gli consente di assurgere a se stesso identitario, ad essere esclusivo in relazione ad altri percepiti come diversità assolute e radicali. Il cibo, inoltre, recupera lacune affettive, economiche, sociali, appaga solitudini e placa sconforti, esalta condizioni di privilegio sociale o economico, manifesta gerarchie socio-familiari e di genere, sottolinea eventi; tutto ciò lo rende una tra le più importanti categorie del corpo, della mente e dell’esistere.
Tra le maglie di questi articolati percorsi emerge all’interno dei diversi sistemi alimentari la costruzione di veri e propri totem identitari come quello della pasta per l’Italia. Ma quanto è ancora possibile oggi considerarla cibo etnico di appartenenza regionale e meridionale? Il dato quantitativo ovvero del consumo di pasta pro capite (23 kg pro capite) si coniuga perfettamente con la costruzione dello stereotipo di “mangia maccheroni” (Sereni, 1958), in particolare per gli abitanti del Sud e più in generale degli italiani. Due icone che incarnano questa definizione sono Pulcinella, che a partire dal Seicento prende la scena come sintesi della vita mediterranea, vera figura di trickster che sconvolge e sostiene ordini sociali e assetti identitari, e poi nella contemporaneità l’immagine di Totò che mangia spaghetti tirati fuori dalle tasche nel film Miseria e Nobiltà.
Ma è durante l’Ottocento che la pasta diventa elemento di forte connotazione dell’unità italiana nel bene e nel male, e diventa oggetto di accesi dibattiti e riflessioni di stampo antropologico. Due tra gli innumerevoli esempi sembrano dare prova della vivacità e della partecipazione nel definire aspetti inconsapevolmente antropologici della questione: il primo è riferito ad Alessandro Dumas, ad un breve carteggio intitolato Lettere sulla cucina ad un sedicente buongustaio napoletano (Dumas, 1997), in cui cerca di mettere in crisi il primato italiano e aprire a rivendicazioni transculturali di identità alimentari, scrive:
«Si crede che il lazzarone viva di maccheroni: è un grande errore che va finalmente rilevato. È vero che i maccheroni sono nati a Napoli (questo come si vede era il comune giudizio), ma oggi i maccheroni sono una pietanza europea, che ha viaggiato come la civiltà, e che, al pari della civiltà, si trova molto lontano dalla sua culla. D’altra parte i maccheroni costano due soldi la libbra, il che li rende accessibili alla borsa dei lazzaroni solo la domenica e i giorni festivi. Negli altri giorni il lazzarone mangia pizza e cocomero: cocomero l’estate, pizza l’inverno» (Dumas, 1851: 20-21).
Le riflessioni di Dumas nel suo stile divulgativo e aggressivo tentano di invalidare un’eccellenza italiana, per assimilarla invece ad una dimensione di europeismo che lo pone quasi come antesignano di un transculturalismo ante litteram.
Nel secondo esempio, Giacomo Leopardi, rafforzando uno stereotipo a proposito del sud e dei napoletani, ironizza su come sia totalizzante il culto della pasta e ingaggia una battaglia satirica e politico-alimentare tutta nostrana con i napoletani che non combattono sufficientemente per gli ideali unitari e politici. E così scrive, in un carme satirico commentato argutamente da Croce, che Napoli si arma solo quando viene attaccata nel suo cibo e non per gli ideali risorgimentali e
«s’arma Napoli a gara alla difesa de’ maccheroni suoi; ch’a ‘maccheroni anteposto il morir, troppo le pesa. E comprender non sa, quando son buoni, come per virtù loro non sian felici, borghi, terre, province e nazioni» (Leopardi, 1933: 20 e seg.).
Nello stesso periodo, era assai diffuso un opuscolo dal titolo Capitoli berneschi in lode de’ maccheroni e de’ pomodori di Antonio Viviani che recitava: «Di maccheroni sol si cibi e si sciali che con la lor virtù miracolosa sanar tutti i mali». Acquista una natura coraggiosa chi mangia maccheroni: «e sempre arride fortuna alla gran’opra gloriosa. Mille nemici con un colpo ancide….Chi contra i Maccheroni dicesse un motto sarà di qualche stirpe traditora» (Viviani, 1933: 24)
La pasta più della politica e dei moti risorgimentali rappresenta il rimedio contro le ingiustizie, e promuove il ben-essere; è la vittoria contro l’indigenza e la fame, vince la putrefazione, era ed è semplice, essenziale: è il grano, il Mediterraneo, frugalità e abbondanza, digeribilità, nazione, tradizione.
Il Novecento vede il tentativo di sovvertire questa radicale appartenenza alimentare e distruggerne il valore per tentare di ridefinire l’identità italiana e superare presunti localismi. Qualcosa cambia, si fanno strada a proposito di italianità affermazioni di un nazionalismo nuovo, «fuori dalle secche di una tradizione ingessata», intesa come provincialismo.
Il futurismo di Marinetti forse ci conduce paradossalmente a scenari post nazionali fino a Dubai. La gastronomia diventa lo strumento di una volontà assoluta di cambiamento: il furore negativo dei futuristi si abbatte sulla pasta nemica dell’Italia e del domani. In quanto cibo rappresentativo dell’Italia, combatterla significa scalzare l’edificio stesso della civiltà italica. Secondo Marinetti, la pastasciutta «lega con i suoi grovigli gli italiani di oggi ai lenti telai di Penelope e ai sonnolenti velieri in cerca di vento» e di seguito ammonisce: «Ricordatevi poi che l’abolizione della pastasciutta libererà l’Italia dal costoso grano straniero e favorirà l’industria italiana del riso» (Marinetti e Fillìa, 1986: 26). La rivoluzione culinaria futurista coinvolge anche il modo di mangiare; mani e dita sono nuovi strumenti del piacere, una rivoluzione del gusto in cui le nuove miscele, apparentemente assurde, danno vita a delle opere d’arte. Il tatto è privilegiato così come lo sguardo e l’odorato, solleticato anche con l’ausilio di profumi esterni e di diffusione di effluvi musicali. Ma in ogni caso bisogna sistematicamente eliminare la pasta; l’ingestione di pasta produce un corpo massiccio, impiombato da una compattezza opaca e cieca.
Le nuove virtù marinettiane sono leggerezza e agilità e per realizzarle bisogna abolire quella religione gastronomica della pasta che inceppa la spontaneità, produce scettici, ironici e sentimentali. La cucina futurista deve liberare dalla vecchia ossessione del volume e del peso e abolire la pastasciutta che rende lenti e pessimisti. Nuove ricette come il brodo di rose, sono il frutto di una sperimentazione sfrenata e del rimescolamento dell’ordine galenico della cucina “natura”. Si può e si deve invertire e rivoluzionare questo ordine: rose, garofani profumi entrano nella grammatica alimentare dello stupire e trasgredire. Ma alla fine della Seconda guerra mondiale l’immagine è tutt’altra dalle macerie della guerra e del nazionalismo devastante, la pasta continua a rassicurare sulla continuità della vita, sul ben-essere e si confronta con le altre dialettiche culinarie uscendone vincitrice. Il famosissimo monologo di Alberto Sordi nel film Un americano a Roma davanti al piatto di spaghetti ne è una immagine esemplare.
Tuttavia, il futurismo aveva individuato e profetizzato quella spettacolarizzazione del cibo che è diventato elemento pervasivo della globalizzazione. In questi ultimi anni, il cibo è ormai un grande affare mediatico, assistiamo alla nascita e al proliferare incontenibile di trasmissioni televisive nelle quali siamo catapultati in “cucine da incubo”, in cui chef stellati diventano implacabili giudici aguzzini. Si è passati dalla seduzione del cibo alla prestazione, dalla flanerie del degustare, al ritmo incalzante della riproduzione del piatto e dell’accanimento agonistico. In compenso, accanto a questo, si fanno strada altri elementi distintivi come l’eco-sostenibilità dei prodotti alimentari e l’etnicizzazione ibridata, fino a far diventare il cibo un costrutto etico, per discriminare ciò che è giusto e sbagliato nella vita quotidiana e per trasmettere valori normativi. Oltre al piacere del gusto-giusto e della visione-spettacolarizzazione, proviamo a riformulare le dicotomie già individuate, in chiave glocale e a percorrere le nuove logiche globali e il trans-culturalismo che sempre più definiscono le dinamiche alimentari e i totem ad esse connessi, in particolare per la pasta.
Da cibo etnico alle dinamiche globali della pasta
Possiamo assumere come evento simbolico, quale avvio dell’apertura globale nella postmodernità al prodotto pasta da simbolo dell’italianità, ovvero da totem di appartenenza etnica a totem universalmente condiviso, il megaevento del World Pasta Day celebrativo della produzione record di pasta che sfiora i 15 milioni di tonnellate negli ultimi anni. Secondo i dati diffusi da AIDEPI (Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiana) e IPO (International Pasta Organicazioni), promotori dell’iniziativa, siamo vicini a doppiare i 9 milioni di tonnellate di pasta prodotti nel 1998, anno di avvio dell’evento: il mondo intero celebra il simbolo del made in Italy a tavola, la pasta, inclusi gli Stati Uniti che finalmente non temono più i carboidrati.
Durante il recente lockdown relativo alla pandemia del 2020 e secondo i dati DOXA/ Unione Italiana Food e ICE, i consumi globali di pasta sono cresciuti del 24%, specie in Italia, che con 23,1 kg pro-capite annui precede Tunisia (17 kg) e Venezuela (12 kg) sul podio dei pasta lovers. In 20 anni l’amore per la pasta italiana e per la dieta mediterranea è raddoppiato: il mondo ne consuma quasi 16 milioni di tonnellate (erano poco più di 7 nel 2000). I festeggiamenti sono stati condivisi sulle tavole e sui social per celebrare la pasta e la Dieta Mediterranea: la kermesse “Al Dente” ha portato 200 ricette mediterranee di pasta nei 200 ristoranti di tutto il mondo e un social pasta party è stato condiviso nei cinque continenti. La campagna We Love Pasta ha promosso la cultura della pasta, simbolo del made in Italy, sulle tavole di tutto il mondo per rendere tutti partecipi di un patrimonio culturale immateriale dell’umanità.
Era 1998 quando si festeggiava, a Napoli, la prima giornata mondiale della pasta, con l’intento di raccontare e celebrare la storia di questo cibo. Si è così verificato quanto auspicato non solo per una campagna di promozione mediatica, ma soprattutto per la sua capacità di diventare protagonista nell’alimentazione mondiale del futuro in quanto alimento accessibile e sostenibile, sia dal punto di vista economico che da quello ambientale. Da allora, con cadenza annuale, l’appuntamento si è rinnovato, toccando diverse città, in Italia e nel mondo (Barcellona, Buenos Aires, Città del Messico, Istanbul, New York, Mosca, Rio de Janeiro, San Paolo del Brasile), fino all’edizione 2018 nella “città-mondo” Dubai su cui mi soffermerò a breve.
In 20 anni la produzione mondiale di pasta è aumentata del 63%, passando da 9,1 a 14,8 milioni di tonnellate. Secondo i dati di IPO sono 40 i Paesi che ne producono in quantità superiori alle 20 mila tonnellate. Allora come oggi, l’Italia guida questo mercato. Un piatto di pasta su quattro, mangiato nel mondo, è fatto con pasta italiana. Secondo le elaborazioni di AIDEPI, sono aumentati i Paesi destinatari (oggi quasi 200, +34%) ed è più che raddoppiata la quota export, da 740mila a oltre 2 milioni di tonnellate, il 56% della produzione. In questa nuova geografia alimentare vale la pena di soffermarsi su alcuni effetti di ibridazione trans-culturale a partire dagli USA, dai Paesi Arabi fino a Dubai e all’Africa.
L’atteggiamento degli americani nei confronti della pasta è stato negli ultimi decenni fortemente ambivalente, anche se poi ci sono stati testimonial d’eccezione che ne hanno veicolato le doti nutrizionali, l’eccellenza del gusto e la convivialità propositiva. Ora la pasta è il nuovo trend d’America, è una scelta salutare e accessibile a tutti, a New York è boom dei ristoranti fast-casual, specializzati nella pasta insieme ad un trend chic e griffato dei ristoranti delle grandi città americane come Chicago. Alimento simbolo del Made in Italy è addirittura diventato un piatto mainstream. Secondo i dati della National Pasta Association, l’americano medio consuma quasi 9 kg di pasta all’anno e specialmente per le famiglie la pasta rappresenta un’opzione nutrizionale più economica, grazie ai prezzi contenuti e alla lunga conservazione e, dunque, continua a crescere l’export della pasta negli Stati Uniti. Apprezzata nelle tradizioni culturali di tutto il mondo, poiché facilmente adattabile a ingredienti stagionali e nazionali/regionali, la pasta si presta ad una flessibilità culturale e del gusto delle grammatiche culinarie che incontra. Riconosciuta universalmente come salutare, è destinata a diventare il cibo del futuro in quanto alimento sostenibile. L’International Pasta Organization ha dichiarato che il trend di vendita della pasta in America è influenzato dai comportamenti di acquisto dei consumatori, che mostrano un maggiore interesse sia per un’alimentazione salutare che per una produzione sostenibile.
La pasta acquista pertanto un valore simbolico che attraversa le specifiche abitudini alimentari e diventa elemento condiviso di dieta-etica Negli ultimi anni è cambiata la percezione che il mondo ha della pasta e dei carboidrati: dal 2002, anno in cui il New York Times conia il neologismo “carbophobia” e circa 26 milioni di americani, a partire da Bill Clinton, abbandonano del tutto pasta, pane e patate, sono cambiate molte cose: diversi autorevoli studi dimostrano che la pasta non fa ingrassare e una dieta a base di carboidrati allunga la vita, specie se inserita nel quadro di un modello alimentare mediterraneo. Risultato è che negli USA, il 41% della popolazione americana consuma abitualmente carboidrati, il 25% in più rispetto a dieci anni fa. Non è un caso che un’altra inquilina della Casa Bianca, Michelle Obama, si è fatta immortalare qualche anno fa (2015) con un piatto di spaghetti, per promuovere stili di vita salutari e sostenibili.
Il prodotto- pasta diventa flessibile anche dal punto di vista dei produttori ed assume diverse connotazioni. I pastai stanno rispondendo alle nuove esigenze del consumatore globale puntando su innovazione e diversificazione dell’offerta: pasta integrale, gluten-free, bio, fortificata, con farine di legumi e superfoods a rapida cottura. Queste innovazioni la rendono sempre più prodotto ecosostenibile. In questi anni, grazie al miglioramento dei processi e a contratti di coltivazione che puntano sulla sostenibilità e buone pratiche agricole, i pastai hanno ridotto sensibilmente i consumi d’acqua e emissioni di CO2 connessi alla produzione di pasta. Questo alimento ha un impatto ambientale estremamente basso (l’impronta ecologica per porzione di 1m² globale). La pasta continua ad essere protagonista incontrastata di tanti piatti anti-spreco che valorizzano gli avanzi, come nella cucina povera e contadina di un tempo, trasformandoli in pietanze sostanziose e prelibate, ed è in grado di attirare anche consumatori attenti al futuro del pianeta come i Millenials e la generazione Z.
Dunque le logiche alimentari e il prodotto pasta sono collegati alle dicotomie del profondo della cultura umana che hanno elaborato bisogni naturali e necessari in appartenenze, in dinamiche sociali e territoriali, non ultima l’etnicizzazione del paesaggio. La pasta assume su di sé una flessibilità unica e riesce a declinare tutte le dicotomie fin qui indicate; è diventata elemento glocale funzionale alle vicende che sottendono a questa riplasmazione. Ha vinto da sempre la sfida conservare/imputridire, ostentazione/dissipazione, vegetariani /onnivori o meglio carnivori, obesità/denutrizione, povero/ricco. La pasta è conservazione ma è dinamica, può essere riciclata ed è per sua natura aperta alle contaminazioni.
Come sostiene Grignon (1989), la pasta interpreta e coniuga al meglio i gusti di libertà delle classi egemoni e i gusti di necessità dei ceti popolari. Rende possibile i rapporti interculturali tra i due gusti, favorendo prestiti e compromessi. Secondo Bourdieu nell’alimentazione si verifica un’autentica circolarità che supera gli steccati della teoria dei tre livelli culturali (gusto legittimo, gusto medio, gusto popolare) e produce condivisione trasversale. Il gusto popolare della necessità diventa, nelle attuali élite culturali, la ricerca della genuinità come riscoperta, e la frugalità ritorna come ben-essere, come adesione alle filosofie vegetariane. La pasta diventa protagonista di questa logica e con la sua ecletticità ci mette di fronte al dilemma di fondo dell’onnivoro che è davvero la sintesi della condizione antropologica-esistenziale in una società del rischio come quella attuale (Beck 2013).
Assumendo il cibo assimiliamo il mondo e di conseguenza l’atto di mangiare «è sia banale, sia carico di conseguenze potenzialmente irreversibili» (Fischler, 1992: 279). Fischler individua in ciò il paradosso dell’onnivoro: l’uomo è preso tra due fuochi; da un lato il bisogno di variare, diversificare ed innovare la dieta, dall’altro l’imperativo d’essere cauti perché ogni cibo sconosciuto è un pericolo potenziale (ibidem). Non solo, e non tanto, per paura di un “avvelenamento” fisiologico, quanto per questioni ontologiche legate alla soggettività. Incorporare gli alimenti significa farli diventare parte della nostra sostanza intima; perciò l’alimentazione è il campo del desiderio, dell’appetito, del piacere, ma anche della diffidenza, dell’incertezza, e dell’ansietà. La dicotomia che ne deriva è una sorta di schizofrenia alimentare oscillante tra neofilia esasperata che ci spinge a provare di tutto oltre i nostri limiti culturali fino a degustare “alimenti estremi”, e neofobia quasi paranoica, secondo la quale possiamo fidarci solo del cibo che crediamo di conoscere, quello che cuciniamo noi, di cui conosciamo la provenienza, il modo con cui è stato lavorato. Dunque, tradizione e sperimentazione si contendono il campo.
In questo contesto la pasta è il trend chic e griffato per un verso dai ristoranti di New York, ma è anche il food programma per la denutrizione e la lotta alla fame e al contrasto all’obesità dopo la lotta sferrata dai dietologi ai carboidrati; è l’alimento più diffuso nelle carceri perché è digeribile e sviluppa endorfine e combatte obesità/denutrizione, mettendo davvero insieme gusti e necessità del mondo.
L’esperienza di Dubai
In questa dinamica globale, assume particolare rilevo ciò che si sta realizzando a Dubai che rappresenta forse la megalopoli in cui si stanno sperimentando relazioni e interconnessioni legate ad un presente che è già futuro prossimo. Nel 2018 è stata festeggiata la giornata mondiale della pasta ed anche lì c’è la massiccia presenza di ristoranti italiani, ma anche la più forte inclinazione alla contaminazione nelle pietanze, nel modo di cuocerle e servirle. Ritorna il contrasto neofilia/neofobia ed è la sfida che produttori di tutto il mondo lanciano proprio da Dubai, capitale mondiale della ristorazione dove la cucina italiana è la preferita dal 48% dei residenti e il numero dei ristoranti italiani è secondo solo a New York nel mondo.
Il governo locale consiglia di mangiare pasta almeno una volta a settimana per sconfiggere l’obesità infantile e addirittura quando viene servita nei ristoranti a Dubai è possibile eccezionalmente accompagnarla con un bicchiere di prosecco in deroga alle prescrizioni religiose. La scelta di Dubai, del resto, è un omaggio al contributo della cultura araba all’invenzione del formato di pasta più famoso. Nella Sicilia araba del IX secolo sono nati infatti gli Ittriyya, sottili fili di pasta essiccata che, perfezionati dai “vermicellari” italiani, diventeranno i moderni spaghetti. Sette sono i piatti in cui la pasta incontra le culture alimentari più rappresentate nel Paese arabo. La Curry Pasta Salad (Sudafrica), Pasta e Kosheri (il tipico piatto unico egiziano con legumi, salsa di pomodoro, spezie e cipolle), Mac n’cheese (maccheroni al forno con formaggio, direttamente dalla East Coast americana), Vermicelli Dawood Basha (dove la pasta si sposa con le polpette di carne speziata in salsa di pomodoro libanese), Vermicelli Upma (con gli spaghetti che incontrano la tipica colazione speziata con verdure del sud dell’India), e in versione agrodolce, la pasta con Balaleet (ancora gli spaghetti cucinati alla maniera emiratina, con uova, cardamomo, zafferano e acqua di rose) e i Vermicelli Kheer (popolare budino indiano a base di latte con burro chiarificato, cardamomo, noci e uvetta). Sembra realizzarsi quella innovazione e inversione della tradizione di cui parlava Marinetti; in ogni caso si presenta come il cibo perfetto per tutti, vero e proprio alimento del futuro, che unisce gusto e convivialità.
La pasta, che vuole affermare i suoi plus nutrizionali per alimentare un mondo diviso tra sovrappeso e malnutrizione, trova a Dubai uno spaccato delle contraddizioni del nostro tempo e si propone come soluzione. Secondo l’OMS, negli Emirati Arabi Uniti è alta l’incidenza di malattie croniche cardiovascolari, tanto che una persona su 5 soffre di diabete e un bambino su 3 è sovrappeso o obeso. Per il Ministero della Salute di Abu Dhabi tra i bambini in età scolare il tasso di obesità è di 1,8 volte superiore rispetto ai pari età negli USA. Per arginare il fenomeno sono in corso campagne di educazione alimentare in tutte le scuole del Paese. Nelle linee guida per le mense scolastiche del Food Safety Department of Dubai Municipality si raccomanda il consumo di pasta, specie se in versione integrale, almeno una volta a settimana. Fatto sta che negli Emirati Arabi Uniti stanno cambiando, in meglio, le abitudini alimentari.
Su altre rotte alimentari globali la pasta resta protagonista. Così è nel continente africano. Ci sono iniziative (in Senegal e in Sudan) di chef che poi partecipano a progetti umanitari contro la denutrizione. A Khartoum i menu italiani vengono presentati in alcuni fra i migliori ristoranti nell’ambito dell’iniziativa “Sapori italiani”, uno degli eventi principali di “Italy in Sudan”. Si insegnano i segreti della pasta e della cucina italiana in corsi di formazione professionale, organizzati dalla Dalfood, colosso della farina e della pasta sudanese. Allievi sempre più numerosi, seguono i corsi e sono soprattutto donne interessatissime ai segreti della pasta e della cucina italiana.
La pasta si inserisce perfettamente nella lotta alla denutrizione e alla fame nel mondo. Secondo un rapporto congiunto delle Nazioni Unite, la fame nel mondo è tornata a crescere negli ultimi tre anni, attestandosi ai livelli di un decennio fa e mettendo a rischio l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile di Fame Zero entro il 2030. Ottocentoventuno milioni di persone soffrono la fame e oltre 150 milioni di bambini hanno ritardi nella crescita. Per questo i pastai italiani e di tutto il mondo si sono impegnati nell’iniziativa benefica globale “The power of pasta”, con la quale verrà donata ad Associazioni locali impegnate nella lotta contro la fame un quantitativo di prodotto sufficiente a realizzare circa 2 milioni di piatti di pasta.
La pasta è dunque alimento e totem transculturale aperto alla diversità e disponibile a coniugarsi in più mondi e orizzonti di senso. Da semplice può diventare complessa, può essere sia dentro le diete vegetariane, vegane che onnivore, aperta al dialogo e all’accoglienza come nella nota pubblicità di Giovanni Rana che dice: «io volevo conoscere e dare un piatto a ciascuno di voi ma forse è complicato in ogni caso, venite voi da me c’è posto per tutti alla mia tavola». Nessuno dimentica che la pasta sia l’Italia ma tutti ne condividono le infinite declinazioni.
Globalizzazione come perdita o come ricchezza? Gli incontri/scontri di culture nel mondo globale sono ancora dettati da rapporti di acculturazione /inculturazione.
Alla luce di quanto appena detto, il problema resta aperto: è ancora lecito parlare di queste categorie nel mondo globale? In linea con gli attuali fenomeni glocali, sarebbe più opportuno parlare di transculturazione; del resto il Seed&Chips Summit sulla food innovation, evento giunto nel 2019 alla quinta edizione, nasce per creare un ecosistema globale che renda possibile l’unione e il coinvolgimento di tutti gli attori della filiera agroalimentare, sostenibilità e tecnologia, dando voce soprattutto alle idee dei giovani. Un confronto globale, senza distinzioni anagrafiche e geografiche, sui grandi temi che riguardano da vicino tutti noi: il cibo e la salute, accomunato dagli obiettivi posti dai Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite (SDGs). Finiti i momenti di esaltazione assoluta del modello eurocentrico, finiti i momenti di senso di colpa occidentale, forse è giunto il tempo di parlare di transculturazione tra Occidente e culture-altre; un modo per dare opportunità al pianeta di riconoscersi tra le trame delle alimentazioni possibili e mai definitive di cui la pasta continuerà ad essere protagonista indiscussa.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Il suo ricettario costruì l’identità italiana ottocentesca dell’alimentazione. Con le sue 790 ricette, raccolte con paziente passione nel giro dei lunghi anni e innumerevoli viaggi, “l’Artusi” è il libro più famoso e letto sulla cucina italiana, quello da cui tutti i grandi cuochi hanno tratto ispirazioni e suggerimenti.
[2] Foodscape prende le mosse dagli -scapes individuati da Arjiun Appadurai e si può definire come paesaggio del cibo ossia, in modo molto succinto, come concretizzazione dell’intersecarsi e del mescolarsi di fattori economici, politici, sociali e culturali concernenti le fasi di produzione, preparazione e consumo del cibo in un dato territorio e/o presso un certo gruppo sociale.
[3] In Luigi Sada Spaghetti e compagni, Bari, 1982. Dall’archivio storico di Napoli: reg. Conc. Angioina 1295Ef.65, risulta che il 20 settembre 1295 la regina Maria, madre di Carlo Martello d’Angiò, fece pagare ai creditori quattro once di Maccheroni ed altri forniti negli ultimi dodici giorni d’agosto ai nipoti orfani Caroberto, Beatrice, e Claementizia.
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale e di Geografia delle lingue e delle migrazioni presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’Ateneo di Salerno, fa parte del gruppo di esperti del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale e il turismo diretto da Simona De Luna della stessa università; ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani. È autrice di numerosi studi e socio fondatore del Centro Interuniversitario di Studi e ricerche sulla storia delle paste alimentari in Italia dal 2015 (CISPA). Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: La morte, la cura, l’amore. Donne ucraine e rumene in area campana (2009); Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati (2013); Il mare, la torre le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile (2014). Minori migranti, nuove identità transnazionali (2020), Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio. Etnografie transculturali (2020).
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