per non ricominciare
di Davide Accardi
Nell’immaginare il mondo post pandemico che ci attende, un ruolo dominante viene dato alle retoriche del ri-inizio, poiché ci sembra evidente che il mondo post covid-19 non possa essere lo stesso nel quale abbiamo vissuto fino ad un anno fa. Calata nel mondo della cultura, tale spinta innovatrice dovrebbe, in teoria, modificare le modalità di produzione (il termine utilizzato non è casuale, come vedremo in seguito) culturale. Per capire quale e quanta strada debba essere compiuta per raggiungere tale scopo, occorre quindi capire a fondo come il sistema culturale funzioni al giorno d’oggi. Come ha brillantemente sottolineato da Francesco Faeta,
«La cultura non è esente dall’organizzazione gerarchica, anzi ne è oggi condizionata in modo determinante. Vi è innanzitutto una gerarchia dei valori, che è ordinata su base globale, come ricorda Michael Herzfeld. Vi sono le cose che contano e quelle che non contano; vi sono ordini di priorità del discorso fissati in modo rigido […] Segue poi una gerarchia degli attori della cultura. Nessuno che non sia al vertice di tale gerarchia (il che significa che ha accettato e fatto brillantemente sua la gerarchia globale dei valori di cui sopra), può ambire a comunicare. La comunicazione, la condivisione intellettuale del proprio pensiero, è inibita se ci si scosta dal vertice […] Infine una gerarchia delle agenzie produttrici della cultura. Chiunque sia ammesso oggi a parlare, lo è in nome di una di tali agenzie che rappresenta, a prescindere dalla legittimità che essa può avere nella produzione di quel particolare discorso. Grandi concentrazioni mass-mediatiche, agenzie d’informazione e testate giornalistiche, fondazioni e istituzioni private, emanazione più o meno diretta di potentati economico-finanziari, istituzioni accademiche; esse autorizzano il discorso, ne garantiscono la legittimità» [1].
Il capitalismo ha, quindi, introdotto logiche di mercato anche in un ambiente da sempre refrattario come quello della cultura la quale, essendo diventata un bene di consumo, viene prodotta. Ne consegue che vi sia un’ampia fetta di popolazione consumatrice di cultura, disposta ad investire risorse economiche pur di ottenerne una porzione.
È evidente, insomma, che la produzione di cultura debba rispondere ai gusti del consumatore. La risposta che l’industria della cultura ha dato ai gusti dei consumatori non è stata però, come non lo è nel mondo dell’industria moderna, passiva: i gusti dei consumatori possono essere orientati ed indotti, creando dal nulla un bisogno di cultura.
A rimanere fuori dall’ interesse dell’industria culturale sono quei prodotti che non raggiungono l’interesse del consumatore o non ne hanno il potenziale. In questo modo, ad occhi poco attenti, potrebbe sembrare che la produzione di cultura sia effettivamente nelle sole mani dei moderni potentati economici descritti da Faeta, ovvero istituti privati, fondazioni, accademie, università, mass media. La realtà è ben diversa.
Riprendendo la sintesi critica del pensiero demologico moderno elaborata da Cirese e dalla scuola antropologica di Cagliari, possiamo ancora oggi gramscianamente affermare che le caratteristiche della cultura siano determinate in ogni formazione sociale dal modo di partecipazione delle diverse classi e dei diversi ceti alla produzione, alla ripartizione e all’appropriazione dei beni materiali e spirituali [2].
Da questa osservazione scaturisce l’idea, suffragata dai fatti, che non si possa parlare di una sola cultura, bensì di culture al plurale. Quella a noi più familiare, dunque, non è l’unica cultura prodotta nel nostro Paese ma solo quella prodotta dalle istituzioni culturali, per venire incontro al nostro gusto, quest’ultimo legato alla classe sociale alla quale apparteniamo. Ne consegue che esiste una cultura, quella popolare o subalterna, della quale il consumatore medio-borghese non conosce l’esistenza, “censurata” dalle regole del mercato, spesso confusa nel concetto di folklore.
Come teorizzato da Gramsci, in realtà, la cultura popolare è diversa dal folklore poiché la prima è qualcosa di simile a una morale, a una filosofia in grado di produrre effetti politici (di consenso o di opposizione) e di muovere l’azione storica, anche quando questa filosofia non sia articolata sistematicamente. Nel caso dei ceti subalterni, infatti, questi ultimi non possiedono intellettuali in grado di produrre costruzioni culturali complesse e formalizzate. Il folklore è invece una concezione implicita del mondo e della vita, propria di determinati strati della società. La cultura popolare, e non il folklore, è in grado di esprimere «una serie di innovazioni, spesso creative e progressiste, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o semplicemente diverse, dalla morale degli strati dirigenti» [3].
Il problema della concezione capitalistica dell’industria culturale è quello non solo di aver oscurato, con la cultura egemone, quella popolare, ma anche quello di non saper creare un dialogo proficuo, non unilaterale con essa. Ne è un esempio un fatto di cronaca avvenuto recentemente a Napoli.
Dopo l’edificazione, ai Quartieri Spagnoli, in Vico Salato, di edicole votive in onore dei baby-rapinatori Ugo Russo e Luigi Caiafa morti durante delle tentate rapine, si è scatenata una viva polemica tanto che il Procuratore Generale e il Prefetto hanno chiesto la rimozione delle opere inneggianti alla criminalità, anche su pressante denuncia del consigliere regionale di Europa Verde, Francesco Emilio Borrelli.
Si calcola che nella sola Napoli siano stati censiti quasi 500 edicole sacre e 100 murales dedicati a personaggi legati al mondo della camorra e della criminalità. La rimozione di tali edicole da parte delle istituzioni, quindi della cultura egemone, può essere letta anche come un’occasione mancata di confronto e studio di un fenomeno complesso, antichissimo e subalterno; quello connesso alla costruzione e al culto di questi piccoli monumenti votivi alla memoria. La loro realizzazione è un fenomeno che trova attuazione con certezza in epoca romana. Erano infatti presenti all’interno delle case o ai crocicchi delle strade, altari dedicati agli antenati. Questa forma di “esaltazione di un individuo sopra gli altri” ci aiuta a tratteggiare una società romana profondamente permeata da questo attaccamento alla vita oltre la morte, nel ricordo degli uomini attraverso l’immagine individuale e mediante la costruzione di sepolcri monumentali o, se i mezzi non lo permettevano, con le piccole edicole sacre [4].
In seguito, con la diffusione del Cristianesimo, soprattutto grazie all’editto di Teodosio I del 397 d.C., la pratica di costruire altari e spazi votivi si è evoluta, rappresentando adesso importanti temi e figure cristiane. Nel corso dei secoli tali edicole hanno assunto forme architettoniche del tutto originali in quanto, essendo un fenomeno socialmente trasversale, ad edicole rettangolari a nicchia o a tempio (come quella di Santa Maria la Nova) spesso in marmo e riccamente decorate tipiche dei ceti più agiati, se ne affiancano numerosissime altre (specie nella zona dei Quartieri Spagnoli e di Pizzofalcone) molto più modeste, con cornici ovali sporgenti plasticamente sagomate e prive di decorazioni sfarzose, costruzioni rappresentative dei ceti popolari [5]. Queste ultime sono ben più numerose delle prime. Nella città partenopea qualunque cittadino, ordine, associazione (religiosa e non) poteva innalzare un’edicola votiva, senza dare giustificazioni, né sottoponendosi al giudizio o all’esame del clero locale, allo scopo di ottenere una grazia contro malattie, carestie o povertà che all’epoca rappresentavano un fardello, per soddisfare un bisogno di vicinanza e umanizzazione del divino.
Vi è però un’altra motivazione. Nella prima metà del ‘700, sotto il regno di Carlo di Borbone, a Napoli, non esisteva ancora un sistema di illuminazione moderno ed efficiente e quei pochi lampioni presenti erano situati presso i luoghi più importanti e iconici della città e nei quartieri più benestanti. Di conseguenza, le innumerevoli vie strette e antiche del centro storico diventavano scenario di frequentissime rapine. Per ovviare al problema, il domenicano padre Gregorio Maria Rocco propose ed ottenne l’edificazione di centinaia di edicole sacre presso i quartieri più poveri, affinché le vie fossero maggiormente illuminate [6]. Infine, sulla scia della tradizione del mondo classico, alcune edicole chiamate “ex voto” o “anime pezzentelle” vennero edificate non con immagini di santi ma a suffragio dei parenti morti in tragiche circostanze.
La presenza di edicole sacre in onore di ex camorristi o criminali, non può dunque essere derubricata così velocemente come monumento ad esaltazione della violenza (che è comunque e resta assai presente nella cultura napoletana), semmai ad espressione culturale propria del ceto popolare o, al limite, come grido d’aiuto di una classe sociale dimenticata dallo Stato.
D’altronde, e a Napoli è ancora più vero: “la morte è una livella” come recitava Totò lo si è visto anche in occasione della morte di Maradona al quale, ovviamente, sono state innalzati numerosi altarini di culto nonostante in generale non sia sempre stato esempio massimo di virtù. La rimozione da parte dello Stato delle edicole sacre dedicate ai criminali è, quindi, un’occasione persa di confronto, di dibattito, dialogo e interscambio tra la cultura egemone e quella subalterna.
Lontano dai propositi di ricostruzione del mondo, e di quello culturale in particolare, post pandemico, tanto “rumorosi” quanto impossibili da realizzare, forse sarebbe più utile, più semplice ma non meno radicale trovare il coraggio di non rispondere alle logiche di mercato imposte dagli istituti privati, le accademie, le fondazioni, le università, anche a costo di vendere meno, di produrre meno profitto.
Come scrive Faeta, si tratta di tornare a produrre cultura dove più necessario, in Largo Domenico delle Greche a Tor Bella Monaca o ai Quartieri Spagnoli e non nei salotti borghesi ai quali siamo abituati. Perché quella in mano ai potentati finanziari non è che una minima parte di tutta la cultura prodotta, la più rassicurante.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Francesco Faeta, Appunti per non ricominciare. La cultura. in “Dialoghi Mediterranei”, n. 47, gennaio 2021.
[2] Alberto Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palermo Palumbo, 1971.
[3] Antonio Gramsci, Quaderno 27, 1975, vol. III
[4] Ranuccio Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Milano, Rizzoli, 1969
[5] Maria Rosaria Costa, Le edicole sacre di Napoli, Roma, Ed. Newton e Compton, 2002
[6] Elena Manzo (a cura di), Edicole sacre. Percorsi napoletani tra architetture effimere, Napoli, Clean edizioni, 2007
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Davide Accardi, ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Lo stato d’eccezione. Ha, in seguito, conseguito la laurea specialistica in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università di Palermo discutendo una tesi dal titolo L’identità nazionale nei territori di confine. Scrive e si interessa di cinema, in particolare sulla relazione tra spazi e vuoti in Antonioni e sull’influenza della psicanalisi in Kaufman.
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