di Valeria Salanitro
Il tempo, come dispositivo atto a “contabilizzare” l’ontologia dell’essere e il modo di stare al mondo – inteso come Chronos – è una delle facce delle stessa medaglia raccontata nella pellicola Che ore sono. La dimensione latente, ma altresì evidenziata e auspicata, del genere mediale di cui si narra è, indubbiamente, il Kairos: il momento opportuno, il tempo scelto, l’ora più pertinente affinché si compia la rinascita di esseri umani dominati dagli umori più reconditi che la mente umana possa riservarci.
Il tempo disarticolato/ri-costituito nel film diretto dai registi Marta Basso e Tito Puglielli (entrambi ex allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo a cui è affidata la produzione, con la direzione artistica coordinata da Costanza Quatriglio), viene rappresentato iconicamente e simbolicamente dall’orologio che segna la scena iniziale, ma anche dall’epilogo della verbalizzazione patemica dei personaggi intervistati; tempo che, nelle sue molteplici declinazioni: del quotidiano, del vissuto, della memoria, del dolore, della solitudine e della sofferenza, ma anche dell’allegria e della spensieratezza, si incastra, perfettamente, con la narrazione biografica dei pazienti ricoverati presso la comunità psichiatrica (Guadagna) dell’Asp 6 di Palermo.
Fungendo da collante durante tutto il documentario, il tempo diviene volano di narrazioni eterodirette e, al contempo, auto-riferite, in cui catapultarsi attraverso il paracadute della sensibilità e del rispetto verso l’Altro, tanto stigmatizzato e allocato ai margini di una società sempre più attenta alle categorizzazioni identitarie e medicalizzanti: un viaggio introspettivo e metalessico senza filtri e senza pregiudizi.
I racconti di vita di questa comunità plurale si inseriscono in una cornice che narra microcosmi in macrocosmi. La dialettica tra pubblico e privato, dimensione interna ed esterna, nonché medico/paziente, corpo vissuto e corpo biologico, sono le determinanti di questo documentario. I registi scardinano pregiudizi e affrontano di petto il dramma della solitudine e, al contempo, la resilienza delle anime fragili e tuttavia combattive, vive, resistenti.
L’esperienza vissuta di tre personaggi Giuseppe, Ursula e Bianca, permette allo spettatore di addentrarsi nell’intimo di chi, troppo spesso, viene emarginato da una società perbenista e qualunquista. Un successo sanitario in cui si rappresenta non solo la dimensione biomedica ma anche, e soprattutto, quella del vissuto. I protagonisti di questo film hanno molto in comune, ma forniscono un contributo al pensiero critico e alla connivenza di molti attori sociali, attraverso le singole e diverse vite.
Nel dettaglio: Giuseppe è un uomo che pone all’attenzione dello spettatore la dimensione corporea attraverso i sensi dell’ascolto e dell’eros. La sua narrazione biografica passa, infatti, attraverso il corpo biologico, quando racconta agli operatori che la sua sessualità da adolescente veniva messa in dubbio dalla madre; tanto da condurlo presso una meretrice. Ma è anche attraverso la musica e le note di un pentagramma esistenziale e plurale che trova pace e, al contempo, si chiude in quel microcosmo che funge da barriera e da supporto, avverso ad un mondo misconosciuto ed ostile.
Si coglie, nell’immediato, la funzione duplice della comunità, che svela la sua natura di sistema bipolare chiuso/aperto. Il tempo del silenzio, del dolore e dell’essere, sono narrati con i codici plurali corporali: le espressioni dolcissime di un uomo buono, la dedizione con cui pettina i lunghi capelli al mattino, la spalla offerta alle donne della comunità, e il ritmo incalzante della musica che riecheggia nelle coclee di chi alla solitudine e alla sofferenza non vuol proprio cedere.
Un tempo biografico cadenzato da abbracci, farmaci, spazi e iper-luoghi, in cui ritrovare se stesso. Trascorsi gli anni, infatti, Giuseppe deve lasciare la comunità e trasferirsi in un’altra struttura. La scena è commovente. Lui e Ursula si abbracciano con quella rigidità formalizzata incorporata, che si scioglie poco dopo. Un pianto catartico in cui i due ospiti si ri-conoscono. Il tempo degli addii e dei buoni auspici segna l’epilogo di questo racconto, suggellato da un tempo tanatoprassico, in cui si annuncia la perdita di Giuseppe di lì a breve.
La figura femminile è raccontata dalle parole di due donne abitate dal dolore, nella piena dimensione di genere, con tutte le complicanze che comporta. Ursula è una donna che narra la sua “crisi della presenza” attraverso una storia concitata ed articolata. Madre di quattro figli, si ritrova sola. Le vengono sottratti, perché lei ha bisogno di tornare in vita da quello straniamento che ha subìto in età adolescenziale. Cacciata da casa giovanissima, intraprende una strada senza uscita. Si prostituisce, perché non riesce a vivere. Il corpo di Ursula è, innanzitutto, un corpo mercificato dalla necessità di sopravvivere alla esclusione dal nucleo familiare in cui non viene accettata. L’assenza di un supporto paterno fa sì che viva tra la strada e la disperazione. Le sue parole e i suoi pianti, ma anche la sua rabbia durante le riprese, narrano di una donna che ha sofferto molto la solitudine, che necessita di affetto e di attenzioni.
Dopo nove anni di permanenza nella comunità sente il bisogno di evadere da quella che per lei è una prigione, anche se è al contempo un supporto. Trova un compagno, lì dove le sue molteplici vite, di madre e di donna, vengono continuamente rinegoziate da una voglia di rinascita. La dimensione corporea anche qui diviene protagonista: un corpo vissuto, che trova una ribalta nei corsi di teatro a cui partecipa. Per superare il suo dolore della perdita dei figli, abbraccia dei bambolotti: segno evidente di un lutto materno da elaborare. Il viso corrugato, le espressioni mimiche di chi conserva tanta rabbia per avere subìto troppo, ma anche la voglia di risorgere. Ancora una volta, la musica fa da collante. Il corpo di Ursula rivendica pace e identità attraverso la danza catartica. Con il ballo, la catarsi dell’anima è compiuta. Una danza atta a scardinare pregiudizi esistenziali e identità corporee.
Bianca, la terza protagonista di questo documentario etnografico, è la donna dal viso dolce. Colta, legata al partito comunista, un’idealista che vive il dramma della solitudine e la permanenza in comunità con una certa dissonanza. Una donna in cerca di affetto, ospite della struttura per avere subìto un così forte dolore legato a questioni economiche e dinamiche familiari da spingerla a tentare il suicidio. Fortunatamente, il suo corpo è in vita e racconta di una sublime profondità d’animo, di cui Bianca è portatrice. Le chiamate dalla camera alla figlia, la voglia di andare via e di tornare a vivere in quel macrocosmo dal quale voleva escludersi e infine la rinascita. Un viatico doloroso per superare il “male di vivere” e chiedere dunque ai responsabili della struttura di tornare a casa e di lavorare. Le sue richieste saranno accettate. Il tempo narrato da Bianca è il tempo della cultura, il tempo della disobbedienza, ma anche il tempo materno; il tempo della solitudine e della voglia di rivalsa di chi non riesce a fronteggiare la quotidianità e si perde tra gli abissi della sofferenza. Ma quel tempo è superato, Bianca torna a vivere. Poco tempo dopo, morirà anche lei, ma il tempo tanatoprassico naturale non è l’epilogo di questo sogno. Bianca ha vissuto e ha addomesticato il suo dolore, portando con sé la voglia di stare al mondo. Qui, il tempo sonoro è rappresentato dagli incessanti squilli telefonici, fil rouge di quella voglia di vivere e di stare a contatto con l’esterno. Paesaggi esistenziali cadenzati da tempi sonori.
In questa descrizione densa di memorie di vita, il corpo vissuto e il corpo biologico convivono, dentro il contesto di una sanità pubblica efficiente attenta alle questioni relative all’umanizzazione della Medicina, che qui è squisitamente compiuta. Corpi danzanti, corpi afflitti, corpi parlanti. Un tripudio di corpi plurali declinati nel contesto della società liquida contemporanea.
Quindi: “Che ore sono?” É l’ora di superare i paradigmi medicalizzanti ottocenteschi, di obliterare le stereotipiche espressioni legate al mondo delle affezioni dell’anima e della mente. È l’ora di apprezzare e supportare i corpi vissuti e di non basarsi solo sui corpi medicalizzati. È l’ora di guardare in faccia la realtà, in cui l’homme blasè di simmelliana memoria, portatore sano di una società chiusa, etnocentrica e autistica, paga il peso per una colpa che non ha. É l’ora di investire nella Sanità pubblica, per far sì che realtà come questa struttura si moltiplichino nel territorio nazionale aprendo varchi infiniti e orizzonti di vita a chi subisce la pressione sempre più insostenibile della società odierna; É l’ora di decostruire approcci dicotomici e manichei. È l’ora di guardare oltre e ri-conoscersi, mettersi nei panni di chi la vita la affronta e talvolta non riesce solo perché sommerso da questioni difficili da gestire. È l’ora di superare protocolli rigidamente standardizzati e catalogare i pazienti come soggetti affetti da patologia seguendo tassonomie deterministiche legate ai vecchi manuali classificatori. È l’ora di parlare di persone e non di malattie mentali, di dialogare con i corpi vissuti e riconoscere il dato di fatto oggettivo: l’umanità è universale.
Nessuna disciplina di foucaultiana memoria può oggettivare il soggetto. È l’ora di gridare il dolore, di rivendicarlo, di cedere il posto al tempo vissuto da raccontare e da affrontare. È l’ora di abbattere le barriere dell’essere ed eliminare linee di demarcazione che stabiliscono ciò che è normale da ciò che non lo è, perché è l’ora di appaesarsi in un mondo di spaesamenti continui, in cui le crisi della presenza trovino un posto nel mondo reale e non già artificiale.
Narrare di memorie di vita è fondamentale, per supportare, per includere e per riappropriarsi della vita, tanto sofferta e tanto desiderata.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Riferimenti bibliografici
E. de Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud. Einaudi, Torino, 2023, a cura di Marcello Massenzio, Einaudi, Torino 2023
M. Foucault, L’ ordine del discorso, Einaudi, Torino 2004.
G. Pizza, Antropologia Medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma 2005.
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Valeria Salanitro, ha conseguito una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica, d’Impresa e Pubblicità (curriculum Comunicazione Sociale e Istituzionale), presso l’Università degli Studi di Palermo; nonché un diploma in Politica Internazionale (ISPI) e uno in Studi Europei (I. Me.SI.). Ricercatrice indipendente, redattrice e autrice di molteplici contributi inerenti la Politica estera, le Scienze Umane e i Gender Studies. Ha collaborato con diversi Istituti e testate giornalistiche. Il suo ambito di ricerca verte sui Visual and Culture Studies e sulla Sociologia dei fenomeni Politici; si occupa di immagini declinate in senso plurale, nonché dell’uso politico delle medesime nel contesto internazionale. Tra le sue pubblicazioni scientifiche annoveriamo: La rappresentazione mediatica dello Stato Islamico, edito da Aracne 2022 e Immagini di genere. Donne, potere e violenza politica in Afghanistan, Aracne 2023.
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