di Chiara Dallavalle
Di recente mi è capitato di assistere ad una discussione tra operatori di una struttura di accoglienza per richiedenti asilo. L’argomento era la maggiore o minore aggressività degli ospiti, in termini di modalità litigiose verso gli operatori o verso altri ospiti del centro. Alcuni operatori rilevavano delle relazioni tra elevati livelli di violenza e Paese di provenienza, riferendosi nello specifico ai migranti provenienti dalla Nigeria. La domanda emersa era la seguente: esistono culture maggiormente orientate alla violenza? Si può dire che la violenza sia culturalmente declinata? Esiste un rischio implicito in queste formulazioni, ovverosia quello di attribuire caratteri “naturalmente” violenti a determinate appartenenze culturali, con l’assunto non manifesto che alcune culture, ad esempio quelle di alcuni popoli africani, siano ancora ferme alle manifestazioni più animalesche dell’aggressività.
Il tema è sicuramente complesso e finora scarsamente trattato dagli studi antropologici, che si sono maggiormente occupati della violenza legata all’appartenenza etnica in termini di massacri e genocidi. Un primo approccio tende ad indagare le basi biologiche e istintuali dell’aggressività studiate dagli etologi, che vedono nei comportamenti aggressivi dell’uomo di oggi una reminescenza dell’istinto di sopravvivenza che caratterizzava la vita dell’homo sapiens di 40 mila anni fa, quando la caccia e la difesa erano gli unici strumenti per non essere soggiogati da un ambiente esterno difficile e carico di pericoli. Secondo questa prospettiva l’apparato istintuale dell’uomo di oggi, dal punto di vista evolutivo, è ancora lo stesso del suo progenitore, ed è caratterizzato da manifestazioni aggressive determinate biologicamente. Tuttavia, questo approccio pone la violenza come collegata ad uno stato naturale dell’uomo in opposizione alla cosiddetta civilizzazione, violenza che emerge qualora gli elementi di contenimento offerti dalla civilizzazione stessa vengono a mancare (Dei 2005).
In realtà la cultura agisce non come alternativa alla violenza ma come suo elemento regolativo, codificandola e normandola all’interno di espressioni consentite da quel determinato gruppo sociale. In un certo senso la violenza che si manifesta in un certo periodo storico non è un’eccezione alla cultura ma un prodotto stesso della cultura, è un comportamento appreso attraverso il contesto sociale e culturale in cui l’individuo si muove. La cultura non va però intesa come un’entità esistente di per sé, formata da rappresentazioni del mondo immutabili e chiaramente definite una volta per tutte, ma al contrario come un processo fortemente legato alle dinamiche storiche ed economiche del periodo. Altrimenti sarebbe facile scivolare nuovamente nell’errore di attribuire a determinate culture quei tratti violenti ed aggressivi che connotano drammatici eventi quali genocidi e massacri, come prodotti culturali di popolazioni non ancora arrivate al livello di civilizzazione necessaria per bandire quelle forme di primordiale aggressività.
Al contrario, vedere la cultura come un costante processo di negoziazione tra differenti visioni del mondo che danno luogo a specifiche pratiche, permette di cogliere il suo ruolo nel plasmare gli atteggiamenti e le attitudini dell’uomo in una dimensione dinamica. L’azione violenta si carica di precisi significati e assume una valenza socialmente accettata o meno a seconda delle griglie culturali dentro cui si inscrive. E tali griglie sono a loro volta frutto di un’evoluzione storica dell’esperienza umana, che le modella e le definisce.
Pertanto, se la violenza può essere vista come una categoria astratta, la rappresentazione dei comportamenti violenti e la loro legittimazione o condanna sono declinati storicamente, così come la regolazione sociale della violenza, ovverosia tutti quei meccanismi messi a punto dal contesto sociale per controllare e regolamentare l’aggressività umana. Mi trovo molto in accordo con Roberto Beneduce quando afferma che
«parlare efficacemente della violenza in termini antropologici significa, nella mia opinione, obbligarsi a non distogliere lo sguardo dai contesti nei quali essa si produce o prende forma: fatto che mi induce a preferire l’espressione etnografie della violenza a quella di antropologia della violenza» (Beneduce 2008:10).
Banalmente la violenza esiste solo se agita e la sua pratica contribuisce a costruire nuove relazioni sociali, nuovi nessi tra le persone, nuove memorie. Tornando alla domanda iniziale, ovverosia se esistano culture più inclini alla violenza, la nostra riflessione approda all’idea di violenza non solo come qualcosa che distrugge e che annienta, ma anche come un fatto creativo, che contribuisce a strutturare nuovi immaginari collettivi e nuovi modi di intendere le relazioni sociali.
Una popolazione che vive ad esempio in un perenne stato di guerra piano piano arriva ad intendere la violenza come una modalità relazionale non solo nella pubblica arena del conflitto ma anche nei contesti privati. Si tratta di un processo quasi invisibile perché permea la quotidianità delle persone, rendendo la modalità aggressiva un’esperienza ordinaria e quindi quasi “naturale”. La violenza diventa così un’attitudine sociale ovvia per la maggior parte delle persone e perde quel carattere di eccezionalità che invece scuote le coscienze di chi non ne ha fatto un’esperienza diretta. Possiamo quindi dire che, se prestiamo attenzione alle condizioni in cui la violenza di articola e si riproduce, allora essa viene letta non più come un evento estremo, o l’espressione di uno stato d’eccezione, quanto piuttosto come un fattore che partecipa dei rapporti sociali, producendo valori ed esperienze, sino a diventare un elemento organizzatore della società stessa (Abbink 1998 in Beneduce 2008).
La riproduzione di attitudini violente nella quotidianità fino a quando esse diventano qualcosa di ordinario induce anche quella visione stereotipata dei contesti in cui questo avviene, di cui facevo menzione in precedenza. È questo il caso di molti Paesi africani, visti come cristallizzati in una condizione arcaica dove prevale l’istinto animalesco della legge del taglione, e dove questa condizione è data naturalmente laddove si parla di culture meno progredite. Questo stereotipo non indaga minimamente le condizioni storiche e socio-economiche che invece hanno prodotto forti disuguaglianze e una iniqua distribuzione della ricchezza, aumentando così il livello delle ostilità tra classi sociali.
Spesso i violenti contrasti tra gruppi, tribù o etnie sono sorti a causa di attività economiche rivolte allo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, non contrastate da adeguati meccanismi di tutela delle fasce più deboli della popolazione. L’assenza di meccanismi socio-politici di riduzione delle ineguaglianze inasprisce il conflitto sociale e questo conduce facilmente all’espressione del disagio attraverso la pratica della violenza. Gli stessi conflitti militari nascono dalla riproduzione delle disuguaglianze a livello locale, laddove le economie di piccola scala si intrecciano con il mercato globale schiacciando i settori della popolazione più vulnerabili. Per quanto riguarda i Paesi africani le dinamiche economiche del presente, che producono inevitabili tensioni sociali agite spesso attraverso il ricorso alla violenza, affondano le proprie radici nella storia stessa del colonialismo.
Possiamo quindi concludere che la violenza è un prodotto della cultura, laddove quest’ultima è a sua volta l’insieme delle rappresentazioni e visioni della realtà prodotte dall’esperienza umana in un dato momento storico. Per superare l’inefficace categorizzazione delle culture in violente e non violente torna ancora una volta utile ricorrere all’idea di una etnografia della violenza, che permetta di indagare i contesti concreti in cui la violenza trova lo spazio di essere agita e legittimata, a partire da quei meccanismi storici e politici che hanno portato alla definizione dei contesti stessi.