di Leandro Picarella
Segnali di vita è certamente il progetto al quale mi sento, ad oggi, intimamente e artisticamente più legato. E pensare che ho rimandato per anni la sua realizzazione. A differenza dei miei precedenti lavori ho cercato di realizzare questo film come opportunità ed esperienza, cambiando aria e lavorando sull’empatia. In questo laboratorio umano, ho potuto portare avanti la mia ricerca sul cinema del reale, partendo da una profonda connessione con il luogo. Ho sempre sostenuto l’importanza dei luoghi nella fase di ideazione di un film, perché seppur invisibili, al loro interno esistono già delle storie, che cambiano e si trasformano in continuazione. Connettersi a un luogo significa connettersi alle sue storie, e dunque alla sua essenza.
Penso di aver vissuto un’esperienza molto importante sia sul piano umano che artistico; Segnali di vita porta con sé un anno pieno di incontri, cambiamenti, rivoluzioni, emozioni pure e sincere. Non si tratta solo di fare un film, ma di entrare in una comunità e rispettarla. Ho scoperto che immergendosi pienamente nella vita di una piccola comunità, con tutti i lati positivi e negativi che la montagna e l’isolamento comportano, si partecipa anche col cinema ad una esperienza sacra, perché innanzitutto umana. Quello cinematografico è un settore lavorativo come altri ma che ha una sua componente sacra, per così dire, che ha a che fare con il processo creativo e la necessaria presenza dell’altro. Attivare un processo creativo significa lasciare sorgere un’idea e poi immergersi totalmente in essa, nella sua storia e nei personaggi – nel mio caso persone, o meglio testimoni – che si vuole raccontare; significa entrare nelle loro case, condividerne lo spazio. Vivere tanti mesi in un luogo, per coglierne l’essenza e restituirla in immagini, è un’esperienza che cambia profondamente. Si creano delle relazioni con le persone e i luoghi, dei legami sinceri. Si partecipa alla vita di una comunità a tal punto da diventarne parte.
Ho conosciuto Lignan e la valle di Saint Barthelemy nell’autunno del 2017. Luciano Barisone, critico e direttore di festival cinematografici incontrato l’anno prima a Visions du Réel, mi aveva portato a quelle altezze per farmi conoscere la valle ed alcuni amici, in particolare l’antropologa e critica cinematografica Nora Demarchi e il marito, l’astrofisico Paolo Calcidese.
Il tragitto che porta da Aosta a Lignan, è tortuoso. Ricordo bene di aver sofferto molto il viaggio in auto ma ricordo altrettanto bene che all’arrivo, il paesaggio e soprattutto le montagne si sono mostrate a me in tutta la loro potenza. Solo dopo mi sono reso conto dell’Osservatorio e della sua cupola. Così il luogo si è rivelato pienamente: l’osservatorio, il verde, le montagne, le mucche al pascolo. Così, per parlare, ci siamo detti che sarebbe stato bello girare qualcosa lì. Ma, al di là delle chiacchiere, era un’idea che non sentivo tanto nelle mie corde. Comunque, dopo un anno, alla fine del 2018, avevamo ottenuto un piccolo finanziamento per lo sviluppo del progetto e pensavo che mi sarebbe piaciuto girare qualcosa di molto osservativo, un documentario duro e puro. Nel frattempo avevo un altro film da girare. Finalizzato questo, è arrivata la pandemia.
Segnali di vita è rimasto in “criptobiosi” – come il tardigrado che si incista quando le condizioni ambientali sono avverse alla sua esistenza – per circa due anni, e quando finalmente nell’estate del 2021 sono andato a Lignan per affrontare lo sviluppo del film, Nora Demarchi è stata di grande aiuto a inserirmi nel tessuto sociale. Mi ha fatto conoscere diverse persone, alcune delle quali sono poi diventate personaggi del film. Mi ha presentato agli altri senza presentarmi fisicamente, ha raccontato chi ero e cosa ero venuto a fare, ha raccontato dei miei film, ha garantito per me, e questa è stata una cosa davvero importante. Questo imprinting non ha generato subito fiducia ma mi ha dato la possibilità di avvicinarmi, di farmi conoscere, di dimostrare le mie intenzioni, tutt’altro che bellicose o esotiche. Tutt’altro che autoreferenziali.
Ma ancora non sapevo bene cosa raccontare. Notavo questo scollamento tra l’osservatorio e la comunità. La comunità che vedeva l’osservatorio come un potere forte e straniero che si era appropriato del loro territorio, dei loro prati. Si trattava in parte di timore reverenziale, ma probabilmente, anche un po’ di complesso di inferiorità. Nonostante l’osservatorio fosse lì da vent’anni, non c’era interazione. E questo aspetto poteva essere una traccia su cui lavorare. Anche Paolo Calcidese non aveva molti rapporti con gli abitanti della valle, pur condividendo lo stesso spazio da tempo. Poi, proprio quell’estate, mentre salivo da Aosta a Saint-Barthélemy a un certo punto dalla playlist è spuntata Segnali di vita di Franco Battiato, che era morto da poco. E allora mi son detto che forse la chiave del racconto stava proprio in quei versi. Soprattutto per il momento che stavo vivendo, quella voglia di cambiare, di fare qualcosa, di dare anche agli altri la possibilità di sorprenderci… Nel giro di qualche mese, ho finalizzato lo sviluppo e proposto il progetto alle varie realtà produttive che mi hanno poi permesso di realizzare il film.
A febbraio del 2022 ero pronto per affrontare la mia personale “scalata” e così i primi di marzo ho riempito la mia auto di attrezzatura e maglioni pesanti e sono partito per questa lunga residenza, deciso a vivere quest’esperienza come un’opportunità di vita e di cambiamento. Sapevo già che avrei voluto vivere un anno tra le montagne. Un anno tra quelle montagne, un anno della mia vita. Che senso avrebbe avuto vivere quel mondo solo per fare un “lavoro” come un altro? Solo per un finanziamento ottenuto? No, mi sono detto che quella era un’opportunità non casuale, un dono che qualcuno o qualcosa mi aveva dato. La possibilità di vivere un ambiente sconosciuto e di misurarmi con me stesso prima ancora che con l’opera da realizzare. Quando tutti cercavano di tornare alla vita di tutti i giorni e dimenticare quanto vissuto nei due anni precedenti, io andavo incontro a una piccolissima comunità, al silenzio della montagna, a un inverno rigido e un’umanità diffidente. Almeno all’inizio. Desideravo partecipare delle loro vite e della vita, della valle, con i suoi riti e le abitudini: la piccola chiesa, l’osservatorio, il santuario di Cuney e la pista da fondo, i sentieri, gli allevamenti, il latte appena munto, il cibo, l’acqua di sorgente, la grappa da Giuseppe la domenica o il sabato pomeriggio e il ritorno a casa, a piedi, per godere ancora di un tramonto, di una cima innevata. Di un ultimo bagliore.
Condivido quindi il pensiero di Valeria Salanitro quando afferma che il film «racconta veramente la pratica della ricerca e quella dimensione meravigliosa nella quale ci si ritrova spesso. Non semplici numeri e deduzioni logiche, dati, numeri, statistiche o algoritmi, ma un viaggio introspettivo in cui ri-conoscersi al di là delle mis-conoscenze, che diverranno, per contro, ri-conoscenze empatiche, sociali e culturali. Uno scambio simmetrico e degno di nota, in cui l’alterità cede il posto all’essenzializzazione del Sapere».
Cinema del reale e comunità
Segnali di vita non è un documentario. Segnali di vita non è un film di finzione. Segnali di vita è un film o, se preferite, come afferma Giuseppe Sorce nel suo saggio, un antropofiction, termine che sento di sposare pienamente. E in effetti, se ci pensiamo bene, il documentario vero e proprio non esiste. Almeno il documentario cosiddetto di creazione, non certo il documentario naturalistico o didattico e che assolve alla sua funzione. Fare cinema presuppone delle scelte di carattere estetico e narrativo ma soprattutto di sguardo, di dove posizionare lo sguardo. Se pensiamo ai cortometraggi di Vittorio De Seta realizzati in Sicilia negli anni sessanta, ad esempio, è facile intendere che ogni cosa è stata pesata e scelta. Il punto di vista, la pellicola da utilizzare, il montaggio, il suono. Tutto. E queste scelte hanno contribuito a rendere queste opere d’arte documenti che ci raccontano, a distanza di quasi settant’anni, un mondo perduto.
Partendo da questa base, la sfida è stata per me quella di scegliere un punto di vista etico prima ancora che estetico, che tenesse conto delle varie realtà che sarebbero state coinvolte nel processo creativo. Avere libertà creativa, in questo senso, non vuol dire trattare luoghi e persone come meglio ci pare, purché venga fuori il risultato filmico. Tutt’altro. L’esperienza del filmare diventa atto di conoscenza e presenza, di rispetto dei luoghi e di chi li abita. Niente edulcorazione, niente esotismi, niente neorealismo contemporaneo inteso come fascinazione estetica di uno stile, ma tentativo di evocare qualcosa che con la sola presa diretta sarebbe impossibile fare. Come la vita. La vita è perché accade, non si può fermare. È per questo che ho sempre avuto difficoltà a considerare cinema lo stile dei cosiddetti “contabili della verità” come li definisce il già citato Werner Herzog, ovvero quei cineasti che filmano per ore e ore in attesa che qualcosa accada. A me interessa evocare l’inatteso, ma presente. Qualcosa che c’è ma non si vede.
In questo senso, tutto il mio lavoro sul cinema del reale, dal 2014 a oggi ha a che fare proprio con questo quesito: è possibile raccontare la vita nel cinema? Non come narrazione ma come atto che accade e che forma un’altra realtà.
In effetti, già con Triokala, il mio primo lungometraggio, saggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia, avevo approcciato questo possibile percorso. In quel periodo ero immerso nel lavoro di De Martino, ma anche di Antonino Buttitta ed Elsa Guggino. Triokala è un film ambientato a Caltabellotta, in provincia di Agrigento, paese arroccato sul pizzo di un monte. Parla di ritualità magico religiosa e di come questa sopravviva al tempo e alla contemporaneità. È stato il primo film in cui ho potuto sperimentare il rapporto lontano/vicino che in qualche modo definisce il mio modo di raccontare per immagini.
Segnali di vita ritengo nasca dall’esperienza vissuta otto anni prima. Così come la lavorazione di Divinazioni, e in particolar modo tutte le scene dedicate ai consulti che il protagonista Achille Sidoti, il mago cartomante televisivo, aveva con i suoi clienti, hanno certamente ispirato il questionario sulle misconcezioni scientifiche che Paolo rivolge agli abitanti della valle. Credo sia importante a questo punto spiegare cos’è il cosiddetto cinema del reale o almeno cos’è per me.
Partendo dai luoghi e dai suoi abitanti, costruisco un percorso che si basa proprio sulla vita delle persone coinvolte e dei luoghi che essi abitano. A volte questo percorso può prendere delle direzioni altre, coerenti comunque nella sostanza con il personaggio e con il luogo. È un adattamento che diventa linea narrativa. Paolo, ad esempio, e la moglie non volevano che si raccontasse nel film il proprio nucleo familiare, e così, ragionando con Paolo su che direzione dovesse avere il suo personaggio ho scoperto che la sua tesi di dottorato era proprio sulle misconcezioni scientifiche, sui questionari da “somministrare” alle persone comuni, ai profani della scienza. Qualcuno potrebbe affermare che si tratta di una forzatura, ma io non credo. Pur abitando la valle da tempo, Paolo non ha legato con gli abitanti del luogo, e questo ha permesso che le riprese dei questionari si esprimessero in tutta la loro verità, reazioni comprese. Così come l’intera comunità non era mai entrata in osservatorio prima delle riprese del film. Qualcosa vorrà dire. Non c’è verità o falsità, come detto prima, c’è la vita. E Segnali di vita è pieno di tutto ciò, ovvero di un percorso che ha portato gli stessi partecipanti a scoprire qualcosa di diverso da sé, a entrare in relazione con l’altro e con parte della comunità fino a quel momento non considerata.
Chiara Lanini sostiene, a ben ragione secondo me, che: «il film presenta un richiamarsi di metafore (il succedersi delle stagioni, il telescopio che cede e, naturalmente, il tardigrado in stato di morte sospesa) che ci invitano con insistenza a pensare l’evento narrato come un viaggio di andata e ritorno per aspera ad astra. Nell’ipotesi di partenza per Paolo Lignan non è che l’oblò di cui ha bisogno per tenere lo sguardo fisso alle stelle, distogliendolo dagli irriducibili conflitti e dalle contraddizioni che affliggono le questioni terrene.
Sembra soprattutto interessato al modello di comprensione del mondo che, definendosi esatto, mal tollera sfumature, opacità e contraddizioni, il procedere analogico anziché analitico, quella scienza dura che con metodi, strumenti e tecnologie adeguate (se funzionanti) sa costruire il discrimine che separa il vero dal falso, esercitando ciò che Foucault (1972) chiama volontà di verità, per imporre «la propria prepotente egemonia su credenze minori, periferiche, popolari, che vanno dall’influenza delle fasi lunari sui cicli della natura, alla fede in Dio».
E, rispetto alle misconcezioni, ritengo che Flavia Schiavo abbia centrato una questione importante quando afferma che «tali interazioni, oltre a favorire lo scambio intercomunicativo, attivando la percezione di noi stessi e degli altri, divengono, appunto, focus di una vita sociale basata su comunicazione, ascolto, empatia, coinvolgendo la pluralità dei soggetti. Anche in tal senso l’apprendimento risulta influenzato dai fattori che trascendono il piano cognitivo-astratto, virando verso un assetto in cui il fattore emozionale diviene imprescindibile». L’intero film non si sarebbe mai potuto realizzare senza le relazioni instaurate, senza il lungo periodo vissuto nella valle. Così come mi sono affidato alle montagne e alle persone che le abitano, gli stessi abitanti – del tutto estranei a logiche produttive, artistiche e cinematografiche – si sono affidati a me, lasciandosi guidare in un’esperienza lunga un anno. La necessaria diffidenza iniziale penso abbia permesso agli abitanti della valle di prendersi il giusto tempo per studiarmi, per capire che intenzioni avessi e da quali idee fossi mosso. Lo stesso uso del patois in mia presenza durante i primi mesi di residenza è stato necessario per capire quale postura assumere. Il patois è una lingua di confine che si parla tra l’Italia, la Svizzera e la Francia. È un dialetto difficile, che i valdostani, soprattutto in montagna, utilizzano anche per non farsi capire dagli altri e per mantenere una sorta di distanza. Perché è il loro linguaggio, è la loro terra. Se mi fossi sentito escluso e avessi reagito negativamente al loro modo di comunicare, probabilmente avrei perso ogni possibilità di dialogo. Avere atteso, invece, di essere invitato al tavolo della locanda e a bere vino e grappa e a mangiare della fontina insieme a loro, ha permesso un graduale avvicinamento. Ero io, insomma, a dovere essere accettato prima ancora di proporre idee o altro.
Rispetto al racconto della comunità, condivido il pensiero di Chiara Dallavalle quando scrive che questa «non è un luogo idilliaco in opposizione all’individualismo della metropoli. Al contrario, dal film appare come un luogo denso di contraddizioni, dove permangono dicotomie e assenze di significato, ma dove esiste ancora uno spazio in cui le relazioni possono sperimentarsi in forme nuove». Per raccontare la vita bisogna liberarsi da qualsiasi sovrastruttura narrativa, che possiamo immaginare come uno specchio in cui si riflettono solo alcune parti della realtà, escludendone altre. È in genere ciò che il cinema fa, soprattutto quel cinema che si basa su stilemi precostituiti e che funzionano per il mercato e il grande pubblico. Ritengo, tuttavia, che qualsiasi spettatore si trovi davanti “la vita” sullo schermo può riconoscerla come tale e partecipare emotivamente alla storia. Le storie degli abitanti di Segnali di vita sono tutte storie vere più che reali, inquadrate da una lente specifica a una certa altezza, e non penso queste scelte tecniche e narrative generino falsità o artificio, bensì risonanza. Le storie di Severino e Agnese, di Gabriele e Agata, e di Silvia e Josef risuonano negli occhi e nel cuore di chi le vede perché vicine sul piano umano prima ancora che artistico, e quindi risuonano in Paolo/spettatore che così può riassestare il suo personale telescopio interiore.
Tra scienza e credenza
La scienza gioca un ruolo fondamentale nel film, visto che l’intera storia è raccontata dal punto di vista di uno scienziato che vive e lavora in un centro di ricerca. Sia dal punto di vista delle recenti scoperte nel campo della robotica, dell’astrobiologia, dell’analisi dei dati astronomici, sia sul piano della divulgazione scientifica, Segnali di vita può essere di per sé un veicolo di informazione scientifica. Come già accennato, il film è riuscito per la prima volta a portare nelle strutture dell’Osservatorio tutta la comunità locale. Ogni aspetto dell’attività di Paolo viene raccontato nella sua quotidianità ed utilizzato come strumento narrativo. È così che i tardigradi – come giustamente notano Annamaria Clemente e Giuseppe Sorce nella loro analisi – studiati da Paolo diventano metafora della sua stessa vita nell’atto del chiudersi per le condizioni avverse alla propria vivibilità, e del riaprirsi nel momento in cui le condizioni dell’ambiente circostante lo permettono.
È così che il piccolo robot Arturo diventa personaggio del film come compagno e contraltare dello scienziato. Seguiamo Arturo nell’arco della sua programmazione, e lo stesso robot si rivela molto utile per Paolo nel suo percorso di scoperta dell’empatia.
Il ruolo chiave che assume a un certo punto del film il questionario sulle misconcezioni, ci offre, inoltre, uno spaccato significativo di due mondi opposti, che anche se descrittivi di un piccolo ambiente sono rintracciabili in qualsiasi angolo della nostra contemporaneità: da un lato la scienza e il metodo scientifico e dall’altro le credenze popolari e la cultura tradizionale. Come afferma Gaetano Sabato: «È il piano della credenza (Needham 1983) a giocare un ruolo fondamentale, un atto di fede reciproco, seppure divergente, che unisce lo scienziato e gli intervistati in un’interazione sempre più viva. Le voci degli abitanti del villaggio talvolta sono decisi contrappunti che assumono la valenza di co-narratori, invertendo i ruoli fra intervistatore e intervistati con domande (e risposte) che obbligano a riposizionamenti reciproci, tipici del fieldwork etnografico».
La scienza protagonista del nostro film non è una scienza che si trincera negli assoluti ma una scienza che, attraverso una buona divulgazione, possa accomunare e creare comunità, creare spazi, attivare «permeazioni», come dice giustamente Flavia Schiavo. Paolo, come affermato da diversi autori nei loro commenti, è costretto a fare l’antropologo e a trovare risposte che mai avrebbe pensato di trovare, forse perché semplicemente “umane”. In questo senso, il finale – con il movimento di camera che da dentro la cupola del planetario ci porta fuori, nella Valle e poi tra le stelle – vuole sottolineare proprio questo aspetto. Siamo noi esseri umani a far parte del laboratorio scientifico dell’esistenza. Voglio citare un estratto dalla recensione di Cinzia Costa, che espone perfettamente il mio pensiero: «la struttura apre le porte alla comunità, accogliendo adulti e bambini, e Paolo si impegna per spiegare ai presenti nozioni di astronomia e astrofisica, utilizzando un linguaggio comune, comprensibile a tutti, e aprendo un varco di comunicazione dal valore inestimabile. Non c’è supponenza o presunzione, ma la volontà di conoscere, di conoscersi e di capire. L’Osservatorio diventa uno spazio aperto di confronto e la scienza un patrimonio collettivo, non solo di pochi eletti».
Leggere i contributi degli autori delle recensioni su Segnali di Vita è stato molto interessante e stimolante. Se alcune pagine hanno confermato alcune idee che effettivamente ho pensato e vissuto nell’arco di tutta la lavorazione, altre invece hanno offerto spunti e riflessioni finora non considerate. E per questo ringrazio tutti coloro che hanno visto e commentato il film.
Voglio concludere queste pagine citando ancora Giuseppe Sorce: «Ciò che il film ci vuole raccontare quindi è che l’uomo e l’umanità, su cui vertono le nostre vite in quanto umani, non può vivere se non di relazioni consustanziali con la terra, il cielo, gli animali, gli altri umani».
È proprio così.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Leandro Picarella, regista, sceneggiatore e produttore nato ad Agrigento. Studia tra Palermo e Firenze, specializzandosi in cinema e letteratura teatrale italiana. Tra il 2010 e il 2014 scrive e dirige i primi cortometraggi e alcuni brevi documentari. Nel 2015 realizza Triokala – the three gifts of nature (CSC Production), che ottiene riconoscimenti in numerosi festival in Italia e all’estero. Del 2018 è il cortometraggio Epicentro (Playmaker) presentato in anteprima alla Settimana della critica della Mostra del cinema di Venezia. Nel 2020 presenta in anteprima mondiale a IDFA Divinazioni (Qoomoon con RaiCinema, Les Film D’Ici) uscito nelle sale italiane nel 2021. Segnali di vita (Qoomoon con RaiCinema, soapfactory) è il suo terzo lungometraggio, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2023 e vincitore del premio del pubblico al Laceno D’Oro Festival Internazionale di Cinema e Trento Film Festival.
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