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Tradurre dall’arabo, tradurre l’Altro. Una questione di sguardo

tradurre-arabodi Barbara Teresi

Se tradurre è sempre una sfida (per dirla con le celebri parole dei germanisti Cosciani e Devescovi, «è impossibile ma necessario»), chi traduce dall’arabo può avere la sensazione che la sfida, nel nostro caso, sia particolarmente delicata e complessa, e non perché la lingua araba occupa uno dei primi posti nelle classifiche delle lingue più difficili da imparare, bensì perché, per una serie di motivi che esulano dalla sfera prettamente linguistica, un testo letterario arabo è, se possibile ancor più dei testi provenienti da altre aree del mondo, una materia da maneggiare con cura, con senso di responsabilità e con la consapevolezza che la traduzione è anche un atto politico. Perché, in questo tempo di presunti scontri di civiltà, tradurre dall’arabo significa tradurre l’Altro per eccellenza, tradurre “loro”, quelli che certa retorica disonesta di questi anni tenta di contrapporre a “noi”.

Stereotipi e pregiudizi, inevitabilmente presenti nell’incontro tra diverse culture, nel caso dei Paesi di lingua araba inquinano la nostra percezione di intere società, influenzando il nostro rapporto con la produzione letteraria e culturale di quei Paesi. Sembra quasi che nella letteratura araba si cerchi di tutto, tranne la letteratura: si cercano conferme o smentite degli stereotipi correnti, risposte a domande che riguardano l’attualità, la cronaca, la politica, la geopolitica, la religione, la storia recente e i più svariati fenomeni sociologici della contemporaneità sull’altra sponda del Mediterraneo e in Medio Oriente. Si cerca, tutt’al più, una chiave per comprendere una realtà che, spesso a torto, percepiamo come altra e molto distante da noi.

Si può dunque facilmente intuire come la valenza politica insita nell’atto stesso del tradurre sia particolarmente forte nel caso della nostra combinazione linguistica, perché noi – consapevoli o meno – siamo le lenti attraverso cui il lettore guarderà a quell’universo culturale.

Già dalle scelte editoriali, dalla selezione dei titoli da immettere nel nostro mercato librario, appare chiaro che la traduzione, operazione culturale che contribuisce alla costruzione dell’Alterità, non è sempre uno scambio tra pari, bensì obbedisce a un sistema fortemente gerarchizzato in cui esistono lingue e culture considerate centrali e altre considerate periferiche, addirittura “minori”, non certo per numero di parlanti, bensì per la percezione che l’Occidente ha del capitale culturale altrui.

51xkuxva1qlCiò ha portato alcuni studiosi contemporanei, primi tra tutti L. Venuti [1] e A. Berman [2], a parlare di etnocentrismo della traduzione, vista come una pratica colonialista di manipolazione del testo, attraverso la quale una cultura egemone si appropria di un’opera letteraria nata in un’altra lingua-cultura per farla rientrare nel canone estetico della lingua-cultura di arrivo.

Da qui la celebre teoria di Venuti sull’addomesticamento (domestication) e l’estraniamento (foreignization) come poli opposti cui una traduzione può tendere, laddove la traduzione estraniante rappresenta uno spazio di autentica accoglienza dell’Altro, che non viene assimilato, bensì rispettato e apprezzato nella sua Alterità.

Come si può facilmente intuire, date queste premesse, tradurre, misurarsi con un’Alterità, pone sempre anche un problema di tipo etico: certo, ci sono diversi approcci possibili a ciascun problema di traduzione, si possono adottare diverse strategie, in linea di principio si può scegliere di avvicinare più o meno un testo alla lingua-cultura di arrivo, di scomodare l’autore per condurlo dal lettore o di prendere per mano il lettore per portarlo dall’autore, ma queste scelte, che dovrebbero presupporre un’attenta riflessione (e invece spesso sono inconsapevoli), non sono scevre da conseguenze. Se si sceglie di creare una traduzione target-oriented, domesticante, si corre il rischio di adottare un approccio etnocentrico, non abbastanza rispettoso della cultura in cui è nato il testo di partenza. Se si addomestica troppo un testo, si rischia di appiattirlo, di tradirne la vera natura. Se, al contrario, si decide di rimanere il più possibile aderenti all’originale, ovvero optare per una traduzione estraniante, per quanto animati dalle migliori intenzioni si rischia di stravolgere il testo di partenza, conferendogli uno stile esotico e bizzarro e provocando nel lettore un effetto che il più delle volte il testo originale non ha. In quest’ultimo caso, non solo si rende un pessimo servizio al testo e al suo autore, ma si va, involontariamente, spesso inconsapevolmente, a rafforzare l’immagine stereotipata che in Italia (e in quello che noi chiamiamo “Occidente”) si ha dei Paesi arabi. Immagine stereotipata da cui nessuno è mai veramente al riparo, neppure il traduttore, che, specie se alle prime armi, può essere una vittima inconsapevole del proprio esotismo orientalista.

cover__id8401_w800_t1639411101-jpgSe le posizioni di Venuti e Berman, infatti, sono pienamente condivisibili su un piano puramente teorico che presupponga una percezione neutra dell’Alterità, è pur vero, come osserva S. Faiq, che «Le rappresentazioni negative delle culture “deboli” da parte di quelle “potenti” – queste ultime da intendersi per lo più come occidentali – hanno sempre fatto parte dello schema della storia. Tuttavia, nessuna cultura è stata travisata e deformata dall’Occidente quanto quella arabo-islamica» [3].

Anche per il linguista e traduttologo spagnolo O. Carbonell bisogna contestualizzare la teoria di Venuti tenendo presente il fatto che la dicotomia tra traduzione domesticante ed estraniante non può essere recepita in maniera acritica e normativa, poiché gli effetti dell’una e dell’altra strategia variano al variare delle lingue in contatto, e nel caso dell’arabo una traduzione estraniante può ottenere l’effetto contrario a quello auspicato da Venuti [4].

Uno dei nodi cruciali, per esempio, è la resa delle espressioni di derivazione religiosa, come osservato più volte da Elisabetta Bartuli, traduttrice editoriale e docente di traduzione dall’arabo (si veda, a proposito, la bella intervista pubblicata sul numero 17 della rivista Tradurre. Pratiche, teorie, strumenti [5]). Quando, per esempio, si decide di mantenere in originale la parola Allah (letteralmente “Iddio”), anziché tradurre con “Dio”, si sta evidentemente ponendo l’accento sull’alterità culturale dei Paesi a maggioranza islamica. Chi legge, e magari sa poco o nulla di islamistica, è portato a credere che la parola Allah stia a indicare il nome proprio di una qualche divinità, come Shiva o Visnù, e non lo stesso Dio venerato da tutte e tre le religioni monoteiste. Seppure nel nobile intento di essere rispettosi nei confronti dell’originale, si finisce per distorcere la realtà.

Prendiamo a esempio un’espressione di uso corrente come “A‘udhu bi-llah”, letteralmente “Cerco rifugio in Dio”, usata comunemente per scongiurare qualcosa di negativo, proprio come l’espressione italiana “Dio ne scampi”. Il traduttore si trova davanti a un ventaglio di possibilità di resa, dalla più straniante alla più domesticante (“Cerco rifugio in Allah”, “Mi rifugio in Allah”, “Cerco rifugio in Dio”, “Mi rifugio in Dio”, “Dio non voglia”, “Dio ne scampi”, “Speriamo di no”, “Non sia mai”, “Per carità”, e simili). Va da sé che una scelta non vale l’altra e che non si può decidere a priori una strategia da adottare per tutti i tipi di testo ma, per ottenere un’equivalenza funzionale tra testo fonte e testo di arrivo, vanno di volta in volta valutati l’ambientazione, il contesto, la caratterizzazione dei personaggi.

71yty6rpxll-_ac_uf10001000_ql80_Se non si possiede una solida competenza culturale, oltre che linguistica, se non si tiene in considerazione il fatto che nell’uso quotidiano molte espressioni di derivazione religiosa hanno subìto uno slittamento se non proprio semantico, almeno pragmatico, si rischia di avvalorare lo stereotipo corrente secondo cui le società arabe sono popolate da ferventi musulmani in odor di fanatismo, e non da gente tale e quale a noi, con diverse appartenenze sociali, religiose, politiche e culturali, e si rischia di affibbiare ai personaggi caratteristiche che non possiedono affatto e far dire loro cose che nell’originale non dicono. Un po’ come se all’estero, specialmente in Paesi con cui non condividiamo la cultura religiosa, un’esclamazione come “Madonna!” (usata, a seconda dei casi, per esprimere meraviglia, sorpresa, disappunto, dispiacere, preoccupazione, ecc.), venisse interpretata alla lettera, come un’invocazione che sottende un sentimento di tipo religioso, attribuendo così un’immagine di persona particolarmente devota a chi la pronuncia, quando in realtà il più delle volte il contenuto religioso non è più neppure avvertito dal parlante o comunque, nelle sue intenzioni comunicative, slitta decisamente in secondo piano.

Oltre alla complessità della questione etica relativa alle strategie traduttive, ci sono altri fattori che rendono la traduzione dall’arabo una sfida particolarmente delicata: differenze morfologiche e sintattiche, un diverso uso dei tempi verbali nei testi letterari, la resa di realia e termini culturospecifici che non hanno un corrispettivo nella nostra lingua, la traslitterazione dei nomi arabi e soprattutto gli effetti, in ambito letterario, del fenomeno della diglossia nei Paesi arabofoni. Il fatto che si scriva in una lingua letteraria standard distante dalle varianti del parlato (diverse in ogni Paese arabofono) e dalla vita di tutti i giorni può complicare le cose e far optare in traduzione per un registro alto anche laddove l’originale non lo prevede, snaturando così il testo, allontanandosi dallo stile e dalle intenzioni dell’autore e finendo per far parlare i personaggi come persone molto diverse da noi nel migliore dei casi, come alieni nel peggiore. Gente che si reca o giunge da qualche parte, si affretta in direzione di un qualche luogo, giace sul divano, pratica la fornicazione, anziché andare, arrivare, precipitarsi, sdraiarsi, andare a letto con qualcuno.

Ci sono poi autrici e autori che operano contaminazioni linguistiche avvalendosi della lingua letteraria e della variante colloquiale in uno stesso testo (accade non di rado che le battute di dialogo siano in arabo colloquiale) e per chi traduce si pone il problema di rendere questa complessità linguistica attingendo a diversi registri e al ventaglio di possibilità che fortunatamente la lingua italiana ci mette a disposizione.  

9788488326232Tuttavia, la vera difficoltà posta dal fenomeno della diglossia sta nel riuscire a riconoscere e restituire le peculiarità dello stile di un autore, considerato il fatto che l’arabo letterario è una sorta di astrazione, non è la lingua in cui l’autore parla, pensa e sogna. Ne consegue che buona parte dei testi letterari arabi presenta una lingua controllata, rigidamente normata, spesso poco incline a quegli scarti dalla norma che rappresentano la cifra stilistica di un dato autore. Eppure le grandi autrici e i grandi autori, pur nella gabbia di una lingua priva della dimensione pragmatica, sanno trovare la propria voce, e sta a noi metterci in ascolto, sentire quella voce, accoglierla e riuscire a renderla in traduzione.

Ed è che forse, al di là delle teorie propugnate dalla traduttologia, al di là della grammatica, del canone letterario e delle norme, la pratica della traduzione ha più a che fare con i neuroni specchio e l’empatia. Forse, più che l’etica e la politica della traduzione, bisognerebbe chiamare in causa le neuroscienze e la linguistica cognitiva, e ragionare sul posizionamento di ciascun traduttore non soltanto in relazione alla lingua e alla cultura da cui traduce, ma soprattutto in relazione alla singola opera tradotta. Venuti e Berman, esponenti di culture egemoni che tradizionalmente hanno avuto un approccio alla traduzione piuttosto libero e incurante dell’aderenza filologica ai testi tradotti, hanno perfettamente ragione a parlare di violenza etnocentrica della traduzione.

umbMa noi, che (nonostante il vergognoso passato coloniale del nostro Paese) traduciamo verso una lingua semiperiferica qual è l’italiano, e lo facciamo dal cuore del Mediterraneo (e nel mio caso da una cultura, quella siciliana, che dalla civiltà arabo-islamica ha ereditato moltissimo, nella lingua, nell’architettura, nella letteratura, nella musica, nella gastronomia, ed è quindi ben lungi dal vedere nei Paesi del Nordafrica e Medio Oriente un Altrove esotico e distante), dobbiamo saper ricontestualizzare le loro parole. Trovare il nostro equilibrio.

Ecco, più che in termini di gerarchie di potere, penso alla traduzione come a una questione di sguardo. Ogni testo tradotto è una lettura, è lo sguardo di un singolo traduttore su una singola opera. Tradurre è un’arte performativa, è interpretare, alla stregua dei musicisti, una melodia composta da qualcun altro, suonare con i propri strumenti e la propria sensibilità una partitura altrui. Così come uno spartito, una sequenza di note non è di per sé una melodia, finché qualcuno non la suona, dando vita a quei segni attraverso la propria interpretazione, il testo letterario prende vita ed esiste solo nel momento in cui qualcuno lo legge (e, nel nostro caso, lo traduce, essendo la traduzione una forma privilegiata di lettura), lo fa risuonare in sé. Per dirla con le belle parole di Francisco Umbral: «Il libro è solo il pentagramma dell’aria che il lettore deve cantare. […] Da quei segni, da quelle lettere stampate formicolanti e secche, la mia immaginazione innalza un mondo, un bosco, un’idea, e dalle pagine del libro escono continuamente uccelli in volo» [6].

                                                                  Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023                                                                         
[1] Venuti, Lawrence, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, Roma, Armando Editore, 1999.
[2] Berman, Antoine, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Macerata, Quodlibet, 2003.
[3] Faiq, Said, Through the Master Discourse of Translation, in: M. Taybi (a cura di), New Insights into Arabic Translation and Interpreting, Bristol, Multilingual Matters, 2016: 8.
[4] Carbonell, Ovidi, La ética de la traducción y la ética de la traductología, in: Grupo de investigación Traducción, literatura y sociedad (a cura di), Ética y política de la traducción literaria, Málaga, Miguel Gómez Ediciones, 2004: 17-46.
[5] https://rivistatradurre.it/rispettare-laltro-non-significa-tradurlo-alla-lettera/
[6] Umbral, Francisco, Rosa e mortale, Milano, Jaca Book, 1997: 83, trad. dallo spagnolo di Claudia Marseguerra.         _______________________________________________________________________ 
Barbara Teresi, traduttrice freelance dall’arabo e consulente per la narrativa araba contemporanea. Dopo la laurea in Lingue e letterature straniere ha trascorso molti anni in Egitto insegnando italiano come lingua straniera. Dal 2009 collabora con diverse case editrici italiane, tra cui Edizioni e/o, Sellerio, Utopia e Gallucci Editore. È socia di Strade (Sindacato traduttori editoriali) e collabora con il Festival letterature migranti e Una marina di libri organizzando eventi di promozione culturale dedicati alla traduzione. Insegna traduzione editoriale presso la Summer School dell’Università di Palermo.

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