L’antropologia e la geopolitica ci hanno mostrato come i flussi migratori contemporanei siano senza alcun dubbio connotati da una costante pluridirezionalità. Le persone non si muovono seguendo una linea retta, allontanandosi dal proprio paese d’origine per giungere, con tempi più o meno brevi, nel luogo prescelto come destinazione. Al contrario, seguono traiettorie curve, articolate, a volte apparentemente prive di senso, e con tempi spesso dettati da eventi non gestibili dal migrante stesso. Non è raro che il migrante attraversi vari Paesi prima di giungere in quello ove stabilirsi definitivamente. E non è nemmeno raro che il progetto migratorio sia sottoposto ad una costante riformulazione sulla base non solo delle scelte personali, ma anche delle condizioni geopolitiche dei Paesi in cui ci si trova a soggiornare. È questo il caso, ad esempio, di migliaia di persone provenienti da Paesi dell’Africa sub-sahariana, stabilmente soggiornanti in Libia, costrette ad abbandonarla a causa della guerra civile seguita alla caduta del regime di Gheddafi. Molte di loro sono state caricate a forza sui barconi e costrette ad affrontare la traversata del Mediterraneo, senza avere inizialmente nessuna intenzione di trasferirsi in Europa.
La circolarità caratterizza anche la fase dell’ingresso nei Paesi europei, dal momento che i migranti spesso si spostano seguendo la ricerca di un lavoro, appoggiandosi a parenti e connazionali amici. Infatti, sempre più raramente i migranti rimangono confinati all’interno di un unico Stato, preferendo invece spostarsi laddove vi sono maggiori possibilità lavorative, oppure spesso vivendo a cavallo tra più Stati tra i quali vengono create originali rotte commerciali. Anche i legami con il proprio Paese d’origine assumono una valenza differente grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, permettendo da un lato il costante contatto virtuale con chi è rimasto “a casa”, e dall’altro la creazione di un flusso continuo di persone e merci tra continenti geograficamente lontani. In questo senso i migranti assumono sempre più la veste di transmigranti1, e la migrazione viene sempre meno rappresentata come movimento univoco e unidirezionale, sostituita invece dall’immagine del circuito migratorio2,un reticolo che mette in collegamento la patria, i Paesi di transito e quello di insediamento, e che coinvolge quindi una molteplicità di siti tra vari Paesi.
I migranti contemporanei attuano nuove modalità di spostamento, seguendo non una ma molte strade e spesso esplorando direzioni alternative, come ben mostra lo studio condotto da Michel Peraldi sugli algerini in viaggio nelle città Euro-Mediterranee3. L’immagine del circuito migratorio si applica anche al caso dei tunisini di Mazara del Vallo, che non si spostano semplicemente tra Tunisia e Sicilia, bensì includono nel loro spazio migratorio altri luoghi in Italia, Francia, altri Paesi africani, l’Europa in generale, e così via. La circolarità è quindi divenuta una metafora molto efficace per rappresentare i flussi migratori contemporanei.
Nonostante essi rappresentino una categoria abbastanza particolare tra i migranti, questa stessa cornice interpretativa può essere estesa anche ai rifugiati politici, che, una volta conseguita una forma di protezione, spesso seguono le logiche migratorie degli altri migranti, sfruttando la maggiore mobilità derivante dallo status di rifugiato. Ma la pluridirezionalità e l’estrema mobilità diventa non una scelta bensì una costrizione per una ben determinata categoria di migranti forzati, denominati casi Dublino. Per “casi Dublino” si intendono i richiedenti asilo che vanno a cadere sotto la giurisdizione della Convenzione di Dublino, un accordo siglato nel 1997 tra i Paesi membri della Comunità Europea con l’intento di fare chiarezza rispetto alla individuazione dello Stato competente per l’espletamento della domanda di asilo. La necessità di un accordo del genere si era fatta sentire proprio a seguito della grande mobilità dei richiedenti asilo all’interno dell’Europa, soprattutto dai Paesi di primo ingresso verso quelli di ultimo insediamento, e quindi dal Sud Europa verso il Nord Europa. Infatti Stati quali Italia, Spagna e Grecia, proprio a causa della loro collocazione geografica che li vede alla frontiera Sud della Comunità Europea, sono spesso intesi dai migranti, e anche dai migranti forzati, come zone essenzialmente di transito. L’obiettivo migratorio è spesso quello di ricongiungersi con i propri famigliari già stabiliti in un altro Paese europeo, oppure raggiungere una comunità etnica di appartenenza, ormai storicamente stanziata in specifici territori4. Per questa ragione molti migranti forzati, una volta entrati in Europa dai confini meridionali, tendono a spostarsi verso Nord e a presentare domanda di asilo nei Paesi di lunga tradizione in fatto di accoglienza dei rifugiati.
Pertanto, negli ultimi decenni il dibattito politico tra Stati membri della Comunità Europea sul tema dei rifugiati si è sempre più caratterizzato per la necessità di livellare le differenze tra i numeri dell’accoglienza dei diversi Stati, e favorire invece lo stanziamento dei richiedenti asilo anche in quei Paesi con trascorsi migratori più recenti. La Convenzione di Dublino è proprio il frutto di questo dibattito. In estrema sintesi essa prevede che la competenza per l’espletamento della domanda di asilo sia in capo al Paese in cui il migrante fa ingresso per la prima volta in Europa. Questo principio non si limita ad essere un mero enunciato formale, ma viene attuato attraverso un complesso sistema che prevede strumenti di tracciabilità degli spostamenti dei migranti, e misure di allontanamento forzato dagli Stati non competenti. Nel concreto questo significa che un migrante proveniente ad esempio dalla Siria, sbarcato a Lampedusa e quindi sottoposto ad una prima identificazione attraverso il rilevamento delle impronte digitali, sarà rintracciabile e identificabile in qualunque altro Paese europeo si sposti, anche nel caso in cui utilizzi nomi differenti o documenti falsi. Se lo stesso migrante sparisse dal Centro di prima accoglienza pochi giorni dopo lo sbarco, riuscendo con mezzi propri a raggiungere, ad esempio, la Germania dove già si trova il fratello, e lì presentasse domanda di asilo, verrebbe istantaneamente rimandato in Italia in quanto quest’ultima costituisce per lui il Paese di primo ingresso.
Dal momento che i richiedenti asilo che non intendono stabilirsi nel Paese di ingresso rappresentano un numero considerevole, appare evidente che la Convenzione Dublino causi un movimento forzato tra Paesi europei estremamente elevato. Spesso i casi Dublino rimangono nel Paese in cui presentano domanda di asilo settimane se non mesi, in attesa che venga stabilita la competenza per la propria domanda, per essere poi trasferiti in un altro Paese dove la maggior parte delle volte non hanno né conoscenti né famigliari a cui appoggiarsi, e dove non vogliono rimanere. Ne segue che altrettanto spesso le persone ritentino di tornare illegalmente nel Paese da cui sono stati allontanati, per essere semplicemente trasferiti una seconda volta non appena nuovamente individuati. La situazione diventa ancora più drammatica nel caso in cui ad essere sottoposti a questi trasferimenti non siano adulti soli, ma interi nuclei famigliari.
Se da un punto di vista giuridico la Convenzione Dublino assolve quindi ad un compito di primaria importanza per l’Europa, in quanto mira a regolamentare i flussi e la permanenza dei rifugiati al suo interno, dalla prospettiva dei rifugiati essa sembra perpetuare le stesse logiche alla base dei meccanismi della migrazione forzata. Le persone sono infatti costrette a spostarsi contro la loro volontà e seguendo percorsi non scelti, attraversando questa volta confini interni, controllati non da un’unica entità (lo Stato-Nazione), ma da una pluralità di soggetti quali i Paesi membri della Comunità europea. La costruzione di spazi transnazionali da parte dei migranti entra quindi in rapporto ambivalente con questo nuovo regime di controllo dei confini, laddove i soggetti interessati sono di per sé già sottoposti a forme di controllo e coercizione dai Paesi di provenienza, rivivendo questo meccanismo anche laddove dovrebbero invece trovare rifugio da essi. Il paradigma della protezione, formalmente sottoscritto da tutti i Paesi europei e invocato da istanze umanitarie univocamente fatte proprie dall’Occidente, trova perciò una sua declinazione ambigua nell’esercizio del controllo degli spostamenti dei richiedenti asilo da parte dell’Europa, arrivando spesso ad un’aperta e paradossale contraddizione.
Dialoghi Mediterranei, n.5, gennaio 2014
Note
1 Glick Schiller et al. 1994, Nations Unbound. Transnational projects, post colonial predicaments and deterritorialized nation-states, Gordon and Breach Science Publishers
2 Rouse G. 1991, Mexican Migration and the Social Space of Post-Modernism, in “Diaspora: a Journal of Transnational Studies”, vol.1 n.1, 1991 8:23.
3 Michel Peraldi offre uno studio interessante sui nuovi modelli seguiti dagli algerini negli spostamenti in Europa e nel Mediterraneo, evidenziando che i percorsi migratori di questi migranti non corrispondono più a strutture territoriali, sociali e politico-economiche legate allo spazio-tempo post-coloniale, come negli anni ’70. Al contrario oggi le destinazioni sono differenti, come del resto le modalità di circolazione, le attività dei migranti e il loro status nelle società di accoglienza. (Peraldi M. 2005, Algerian Routes. Emancipation, Deterritorialization and Transnationalism through Suitcase Trade, in “History and Anthropology”, vol 16 n.1, 47:61)
4 È questo il caso ad esempio della comunità curda in Germania.