di Simone Casalini
Nella segmentata rivoluzione tunisina il 25 luglio 2021 s’iscrive come l’ennesimo sbalzo di un cammino non lineare. La rivoluzione, intesa come trasformazione radicale e destrutturazione dello status quo, si ciba di contraddizioni, di profonde lacerazioni, di umori incerti. Kaïs Saïed ha creduto di interpretarli, forse, sospendendo il parlamento e congedando il governo (contestato) guidato da Hichem Mechichi.
Il presidente della repubblica, il costituzionalista conservatore il cui sottile sibilo meccanico gli è valso l’etichetta ilare di “Robocop”, ora ha in mano il destino di un popolo e di una transizione – inedita e osservata speciale nel mondo arabo – avviata dalle fiamme che hanno avvolto il corpo di Mohamed Bouazizi il 17 dicembre 2010 e incenerito il regime di Ben Ali, almeno nelle sue geometrie apicali.
Hamadi Redissi, professore di Scienze politiche all’università di Tunisi, co-fondatore dell’Osservatorio tunisino sulla transizione democratica che decifra ogni passaggio della primavera sbocciata per le strade della periferica Sidi Bouzid, è uno degli intellettuali più conosciuti e impegnati nel processo che ha superato i dieci anni di vita. Nelle sue parole non c’è una verità, ma la rappresentazione di una transizione complessa e aperta ad ogni esito che ricalibra anche riconnettendo la Tunisia con la sua storia, anello di congiunzione spesso derubricato nell’emotività dell’analisi occidentale.
Professore Redissi, il 25 luglio il presidente della repubblica tunisina, Kaïs Saïed, ha sospeso il parlamento e ha assunto su di sé il potere esecutivo, licenziando il primo ministro Hichem Mechichi. Saïed ha giustificato la liceità della sua decisione citando l’articolo 80 della Costituzione. Si è trattato di un colpo di Stato, come hanno gridato nelle prime ore gli islamisti, o di un passaggio all’interno della transizione democratica ammesso dalla Costituzione?
«Si deve esaminare la questione dal punto di vista giuridico e politico. Sul piano del diritto, i pareri sono discordanti. Ma cosa dice prima di tutto l’articolo 80? Disciplina lo stato di eccezione. E prevede che il capo di Stato possa adottare dei provvedimenti eccezionali in caso di pericolo imminente che minacci le istituzioni del Paese, la sicurezza e l’indipendenza, ostacolando il regolare funzionamento dei poteri pubblici. Prende tali provvedimenti dopo aver consultato il capo del governo e il presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo. Durante questo periodo, l’Assemblea è considerata in sessione permanente e non può essere sciolta dal presidente della Repubblica. Questo è quello che stabilisce l’articolo 80. Ora c’è chi sostiene che si sia trattato di un colpo di Stato osservando che mancava, per attivare l’articolo 80, una condizione: quella del pericolo esterno (una guerra, una catastrofe naturale, un’invasione…). E il governo è stato rimosso e l’Assemblea congelata senza che l’articolo 80 concedesse questa possibilità. I sostenitori della percorribilità dell’articolo 80 affermano, invece, che il pericolo imminente è interno con particolare riguardo al caos e alla violenza che regnavano nell’Assemblea e all’incapacità del governo di far fronte alla pandemia dal momento che la Tunisia era classificata, prima del 25 luglio, come uno dei Paesi al mondo più colpiti dal Covid. Il parlamento non è stato sciolto, ma è momentaneamente congelato. Nessun islamista è stato arrestato, nessun partito è stato messo al bando, nessun media ha cessato la sua attività. E allora cos’è successo? Credo si possa definire un atto di forza, ma si varcherà definitivamente il perimetro giuridico disegnato dall’articolo 80 in caso di scioglimento del parlamento o di sospensione della Costituzione. Con la previsione di misure eccezionali l’articolo 80 instaura quello che Karl Schmitt definisce “stato di eccezione”: il Sovrano emana le norme al di fuori dell’ordine giuridico. Mi spiego meglio: la Costituzione è stata blindata dall’interno. Non prevede che il capo dello Stato possa dissolvere la “sovranità”, ma la condiziona a procedure che dipendono dalla volontà del parlamento. Non si può dunque riscrivere la Costituzione o cambiare il sistema elettorale alla base della crisi politica».
Dal punto di vista politico cosa cambia invece?
«I provvedimenti sono giustificati. Il popolo li attendeva e, anzi, ha chiesto per mesi lo scioglimento del parlamento e il cambio della Costituzione e del sistema elettorale. Il che spiega l’esultanza popolare conseguente all’azione del presidente Saïed»
Qualche giorno dopo il colpo di mano, Jeune Afrique ha titolato un suo articolo: Kaïs Saïed, uomo della Provvidenza o presidente autoritario? Lei cosa risponde?
«È un’alternativa fuorviante. Perché non è escluso che un uomo “provvidenziale” sia un presidente autoritario. In realtà, la democrazia ha bisogno di istituzioni soprattutto nella sua fase di consolidamento, non ha necessità di un uomo della Provvidenza. Tutt’al più può accettare il carisma di una persona ma inserito nel quadro delle istituzioni. Credo che Kaïs Saïed sia un dirigente populista, un capopopolo. È quello, peraltro, che abbiamo largamente dimostrato nel testo La tentazione populista. Le elezioni del 2019 in Tunisia [curato dallo stesso Redissi con H. Chékir, M. Elleuch e S. Khalfaoui, ndr]. Ora, però, il populismo dimora nel quadro democratico. Se ne esce diventa definitivamente un potere autoritario. Ci sono segnali che portano in entrambe le direzioni».
Si è scritto che il presidente Saïed si sarebbe consultato con l’omologo egiziano Al Sisi durante la crisi. Da più parti, soprattutto nella pubblicistica occidentale, si è evidenziato il rischio di una subalternità tunisina o di un’inclinazione al modello autoritario egiziano.
«Non ho informazioni in merito a queste consultazioni. La Tunisia non sarà mai asservita anche se una cosa è certa: il Paese è oggetto di pressioni. L’Egitto è probabile che cerchi di apportare il suo contributo nel contrasto agli islamisti. E poi buona parte dei Paesi arabi osserva in modo critico la democrazia tunisina. Temono i suoi effetti contaminanti. Questo spiega l’intensa attività diplomatica araba intorno alla Tunisia. Un asse Egitto-Arabia Saudita-Emirati arabi uniti sostiene la ripresa del controllo (civile o militare) della Tunisia contro un asse Qatar-Turchia che agisce al servizio di Ennahda. Si confrontano quotidianamente in Tunisia per interposti agenti. La Tunisia pare, però, sfuggire all’influenza storica dell’Europa. Gli occidentali sembrano eclissarsi o forse cercano di riservarsi un ruolo diplomatico più discreto, ma più efficace».
Perché Saïed seduce i giovani e il popolo?
«I giovani si sono mobilitati per lui. Al primo turno delle presidenziali del 2019 lo hanno votato prioritariamente. Tra i 26 candidati Saïed è stato il primo nel voto della fascia d’età 18-25 anni (37%) e 26-45 anni (20,3%). Retrocede al quarto posto nella fascia 46-60 e in quella oltre i 60 anni. La percentuale incrementa sensibilmente se analizziamo il livello d’istruzione. Ha ricevuto il 7,6% del consenso tra gli elettori non scolarizzati, il 12,3% di chi ha frequentato le scuole primarie, il 20,6% tra i diplomati e il 24,7% tra i laureati. E così al primo turno ha realizzato un 18%. Al secondo turno ha scavato un solco raggiungendo il 72% dei voti raccolti in tutte le fasce sociali con il sostegno della quasi unanimità dei partiti e della schiacciante maggioranza degli elettori contro Nabil Karoui, il “piccolo Berlusconi tunisino”».
Perché dunque i giovani?
«Perché vedono in lui un modello di integrità contro un’élite politica corrotta. Fondamentalmente, sono il 28% dei giovani diplomati disoccupati molto attivi sulla rete che hanno fatto la differenza. Saïed disponeva di trenta siti Facebook animati da giovani. Queste generazioni credono che la rivoluzione del 2010 sia stata raggirata dalle élite e dai partiti. Da questo punto di vista i giovani costituiscono ciò che Karl Mannheim definisce nell’opera Il problema delle generazioni (1928) una classe sociale, un “insieme generazionale” che condivide la stessa situazione»
E le generazioni adulte? Qual è stato il loro atteggiamento alle urne e dopo l’atto di forza del 25 luglio?
«Lo hanno sostenuto in entrambe le circostanze. Al secondo turno delle presidenziali è stato votato dal 68% degli elettori dai 45 ai 49 anni e dal 49% oltre i sessant’anni. Un voto che ha respinto Karoui, giudicato il rappresentante delle oligarchie politiche corrotte. Dopo il 25 luglio Saïed ha ricevuto un plebiscito: il 91% dell’opinione pubblica era con lui dopo che, nella fase successiva al voto presidenziale del 2019, la sua popolarità era crollata al 39%. Le ragioni per le quali gli adulti sostengono Saïed sono differenti da quelle dei giovani. Lo appoggiano perché pone fine alla dominazione di Ennahda e al governo Mechichi. Promette di combattere la corruzione. Questa unanimità minaccia persino la libertà d’espressione: un’opinione pubblica “fanatizzata” trascina nel fango tutti coloro che criticano Saïed».
La decisione di Saïed è stata sostenuta dalla maggioranza dei partiti. E soprattutto dalla cultura laica e di sinistra. Ma Saïed non possiede una sensibilità di sinistra e, al contrario, rappresenta il pensiero tradizionale (sull’Islam, l’omosessualità, la pena di morte, eccetera). Saïed non è Bourguiba né Beji Caid Essebsi. Perché allora questa ampia convergenza? È un orientamento collegato ai conflitti con Ennahda e l’universo islamista?
«Sì, è vero. Saïed è un conservatore. E di certo non nasconde il suo orientamento È una miscela di idee confuse che fanno contemporaneamente riferimento alla destra conservatrice e alla sinistra protestataria e che si incontrano sul piano dei valori. Vedono in lui la possibilità di avviare un nuovo ciclo rivoluzionario sul modello del 2011. Ma senza Ennahda! Ecco la novità. Saïed inizia un conflitto con gli islamisti sul loro terreno. I secolaristi, laici, lo sostengono unicamente perché è contro Ennahda. Ma non tutti i partiti di sinistra. Per esempio, il Partito dei lavoratori di Hamma Hammami è ferocemente all’opposizione del presidente della repubblica. Il Partito Irada di Moncef Marzouki, l’ex presidente, ugualmente. Ora, la maggior parte dei partiti hanno appoggiato i provvedimenti presi da Saïed, ma chiedono insistentemente una road map».
Quali sono gli scenari che apre la crisi tunisina?
«Il primo scenario è il prolungamento dello stato d’eccezione. Il 25 luglio Saïed si era concesso un mese di tempo. Potrebbe decidere di prorogare questo termine. “Fino a nuovo ordine” secondo il comunicato diramato dalla presidenza che lascia, quindi, un ampio margine di interpretazione. Intanto, il capo dello Stato è anche capo del governo. Nomina i ministri, il personale dei ministeri e le amministrazioni. Sono in corso procedimenti contro deputati che non hanno più diritto all’immunità parlamentare. Nel frattempo, quale sarà il destino del parlamento? Sarà sciolto? E come si possono realizzare le riforme richieste dall’opinione pubblica ma non concesse dalla Costituzione del 2014?»
Il secondo scenario?
«Rivedere la Costituzione, abbandonando il regime parlamentare e la legge elettorale, sopprimendo il sistema rappresentativo proporzionale, e sottoporli ad un referendum che sarà di fatto un plebiscito quasi unanime sulla persona del capo dello Stato. E poi organizzare elezioni legislative e presidenziali. Ora si pone una questione: chi compirà queste riforme dal momento che il parlamento è sospeso e quasi sicuramente sarà sciolto».
L’ultimo scenario?
«Saïed potrebbe sospendere la Costituzione e incaricare un comitato di esperti per redigerne una nuova che preveda un regime presidenziale tanto più che Saïed critica la Carta del 2014, che giudica come l’esito di un “mercanteggiamento”, e dichiara la sua preferenza per quella del 1959, la prima Costituzione repubblica presidenzialista [voluta da Habib Bourguiba, il leader della decolonizzazione e della moderna Tunisia, ndr]. La nuova Costituzione verrebbe poi sottoposta a referendum. Dobbiamo, infine, osservare che questi scenari sono progettati senza consultare partiti o organizzazioni nazionali. Saïed rigetta il dialogo nazionale e rifiuta di trattare con i partiti e se ne infischia della road map. Ci si inoltra, allora, verso il potere di un uomo solo, di un caudillo che dichiara la fine della rivoluzione sull’esempio di Napoleone: “Abbiamo finito il romanzo della rivoluzione; dobbiamo incominciare la sua storia”. Ma è uno scenario che attualmente è difficile immaginare».
Il presidente di Ennahda e dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, Rachid Ghannouchi, ha protestato contro la svolta autoritaria di Saïed. Ha esortato i suoi militanti a scendere in piazza, ma poi ha abbassato i toni. Avete definito questo passaggio politico-istituzionale estremo come la sconfitta di Ennahda. Perché?
«Dagli anni Ottanta tutta la letteratura sull’islamismo è girata intorno alla questione del sapere se l’islam politico è solubile nelle urne. Tutti gli analisti hanno scommesso su un islam moderato. La critica dell’islam politico e di Ennahda era inaccettabile, irricevibile. Si scontrava con la compiacenza degli esperti d’islamismo, europei e americani. Hanno costruito le loro carriere accademiche sulla scommessa dell’islam moderato che sarebbe di tipo protestante, pietista e moralmente irreprensibile. Basterebbe, soltanto, convincerlo ad essere democratico, pensano. Tutti gli intellettuali musulmani o gli accademici che sollevano obiezioni all’islamismo sono ostracizzati e accusati di essere intolleranti. La Tunisia ha offerto la sua chance all’islam politico. Che ora viene cacciato dal popolo non a causa della sua agenda religiosa occulta, ma per il cattivo governo. È un fatto inedito. La gente ha scandito le parole d’ordine anti-islamiste perché, ai loro occhi, Ennahda è diventato un clan oligarchico in cui i dirigenti si sono arricchiti in una dozzina d’anni, un partito clientelare legato a trafficanti e corrotti. In piena crisi Covid, Abdelkarim Harouni [presidente del Consiglio della choura di Ennahda, ndr] ha ordinato al capo del governo di istituire un fondo d’indennità per i militanti islamisti [perseguitati durante il regime di Ben Ali, ndr], che peraltro già godono di benefici, per un ammontare di tremila miliardi di dinari (quasi un miliardo di dollari) nel momento in cui il Paese è sull’orlo della bancarotta. Le persone si sono infuriate. E hanno manifestato giustamente il 25 luglio, data limite della creazione del fondo»
Ennahda ha cercato di rappresentare un’evoluzione moderata dei Fratelli musulmani egiziani. E Ghannouchi ha dichiarato, nel 2017, la sconfitta dell’islam politico dopo le compromissioni con il radicalismo violento. Ma dalla rivoluzione del 2011 Ennahda e Ghannouchi hanno attirato critiche e sospetti: per gli omicidi politici di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi; per la crisi economica e politica; per la lunga leadership di Ghannouchi; per i flirt con le ali radicali degli islamisti (Ansar al Charia, prima che finisse fuori legge, o al-Karama oggi). Non è rischioso uno scenario politico con Ennahda al margine?
«Per quanto riguarda gli omicidi di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi e i foreign fighters tunisini in Siria, la responsabilità politica di Ennahda è stata riconosciuta. Ciò a cui si sta lavorando, e ci sono indizi forti, è la sua responsabilità penale. Si avvera oggi grazie al lavoro paziente e ostinato del Collectif de défense des martyrs Chokri Belaid et Mohamed Brahmi che il procuratore della Repubblica Béchir Akermi, molto vicino a Ennahda (anche per alcuni legami familiari), ha cercato di fermare, nascondendo parti dei dossier e proteggendo i terroristi. Attualmente è stato sospeso dal Consiglio superiore della magistratura ed è agli arresti domiciliari. Quanto alla crisi economica e sociale, Ennahda al potere da dieci anni “porta una grande responsabilità nel deterioramento della crisi politica in Tunisia tanto quanto nella sconfitta della gestione dello Stato dopo il 2011” secondo la confessione che Ali Laaraydh, vicepresidente del partito ed ex primo ministro, ha consegnato al quotidiano Sharq al-Awsat».
Perché finora Ennahda ha fallito, a suo avviso, nel percorso di modernizzazione?
«Perché ha cercato di conciliare il radicalismo d’origine, che l’aveva affiliata ai Fratelli musulmani, il suo odio per la tradizione nazionale repubblicana, i suoi impegni internazionali di rispettare le regole della democrazia, l’alleanza con i salafiti, la compiacenza con il jihadismo, il desiderio di piacere alle classi medie urbane e semi-borghesi. È tentata dalla teocrazia. Vive in democrazia. Tutto ciò ha funzionato. Le cancellerie e gli analisti sono soddisfatti. Perché, dunque, modernizzarsi? Tutti coloro che hanno cercato di riformare il partito dall’interno sono stati costretti a lasciarlo. Infatti, il partito è una camarilla ed è ricco. Finanzia campagne di pubblicità a colpi di miliardi e in senso contrario rispetto alla legge sui partiti e alla legislazione elettorale. Né gli analisti né i diplomatici se ne preoccupano. Oggi il partito è, tuttavia, in pieno declino. Le dimissioni si susseguono ad un ritmo frenetico. L’ufficio politico è stato sciolto. La causa è Rachid Ghannouchi, presidente del partito a vita. È in sella dal 1970. Controlla le finanze. Regna da padrone. Rifiuta di dare le dimissioni dal partito e dall’Assemblea. È afflitto dalla sindrome del despota orientale».
Nei sondaggi cresce il consenso del Parti destourien libre (Pdl) e della sua leader Abir Moussi che guarda all’eredità di Ben Ali. La Tunisia rischia di transitare dalla collera rivoluzionaria alla nostalgia?
«Non dobbiamo minimizzare il fenomeno Abir. Ha svolto un lavoro utile a Saïed. È quella che ha svelato l’alleanza tra Ennahda e gli estremisti di al-Karama. Li ha umiliati anche se è sempre sopra le righe. Ha mostrato che sono violenti e che esiste una potente corrente d’opinione anti-islamista. Saïed ha cavalcato l’onda. Oggi una dozzina di suoi membri, tra cui la stessa Abir, sono stati convocati in Procura sulla base di una denuncia depositata dagli islamisti, mentre nessun esponente di Ennahda è implicato in processi politici. Come Ennahda non è riuscita ad instaurare lo Stato islamico, il Pdl non potrà ritornare al regime di Ben Ali anche se ne ha nostalgia. Il Pdl appartiene ad una tradizione desturiana che risale agli anni Trenta. Di fronte c’è un’altra tradizione conservatrice che ha origini in quel periodo. Ennahda ha cercato di impadronirsene. Saïed s’inserisce qui. Una nuova partita a due si gioca tra conservatorismo e modernismo, tra Saïed e Abir dopo che la storia recente ha opposto Saïed a Ghannouchi».
C’è un rischio di radicalizzazione all’interno del mondo islamista? La Tunisia contò almeno 6500 arruolati nelle file di Daesh.
«È un rischio reale. Il problema è che Ennahda ha agitato lo spettro della guerra civile ogni volta che ha palesato una difficoltà. Noureddine Bhiri, il più scaltro tra i dirigenti islamisti ed ex potente ministro della Giustizia durante la Troika (2011-13) aveva dichiarato il 21 ottobre 2013 sul canale privato Nessma, davanti a Walid Zarrouk, membro del sindacato delle forze dell’ordine: “Se voi poliziotti siete 50mila, noi abbiamo 100mila kamikaze”. Per un po’ ha funzionato. Ora il popolo è esasperato. Non ha più paura. L’esercito si è rafforzato grazie ai suoi numerosi exploit contro i terroristi e i servizi segreti hanno sventato diverse azioni terroriste. Ennahda è oggi un partito di figure d’establishment e realizzate che non sono disposte a lanciarsi in un’operazione violenta».
Un’ultima domanda: l’opinione sull’evoluzione delle “Primavere arabe”, soprattutto in Occidente, si sta orientando verso il fallimento. Ma Tunisia, Libano o Algeria non sono al punto di partenza, ma hanno innescato un processo. La transizione può essere lunga. Qual è il suo punto di vista?
«Avete perfettamente ragione: la transizione può essere lunga. Ma il suo risultato non è assicurato. Ci sono due modalità di esaminare la questione: o la Tunisia ha compiuto una transizione o una rivoluzione. Dieci anni è un tempo sufficiente per una transizione, ma breve per una rivoluzione. Ora non ci si può avvalere del tempo breve per felicitarsi dei successi della transizione e del tempo lungo per spiegare le sconfitte della rivoluzione. È quello che hanno fatto per dieci anni gli ottimisti, quelli per i quali la rivoluzione trionferà. Hanno giocato sui due tavoli: i successi sono stati contabilizzati come esito di una transizione riuscita e le sconfitte sono state relativizzate nel nome di una rivoluzione che necessita di tempi lunghi. E ancora: c’è un tempo breve e uno lungo anche all’interno della rivoluzione stessa. La Rivoluzione francese si è protratta per una decina di anni (1789-1799) e per quelli successivi si è estesa fino alla terza repubblica e alla Rivoluzione d’Ottobre! In Tunisia non sappiamo se siamo ancora in un processo rivoluzionario incerto (con alti e bassi) cominciato nel 2011 o se ci prepariamo al peggio, al caos e al fallimento dello Stato. Le forze che sostengono Saïed intendono proseguire la rivoluzione interrotta e recuperata dall’oligarchia corrotta. Da questo punto di vista, il 25 luglio è la tappa di una sequenza rivoluzionaria. Il fine ultimo è l’instaurazione di un sistema elettorale a livelli (i comitati locali, regionali e l’Assemblea). Tuttavia, dipendendo dai partiti, dai luoghi e dai mandarini di Stato, l’impresa rivoluzionaria rischia di precipitare nel disastro».
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
Riferimenti bibliografici
Y. B. Achour, La tentazione democratica, Ombre corte, Verona, 2010
Y. B. Achour, Tunisie: une révolution en pays d’islam, Labor et Fides, Genève, 2018.
A. Kassab, A. Ounaies (a cura di), Histoire générale de la Tunisie. L’Époque Contemporaine, Sud Editions, Tunis 2010.
H. Redissi, L’Exception islamique, éditions du Seuil, Paris, 2004
H. Redissi, La Tragédie de l’islam moderne, éditions du Seuil, Paris, 2004
H. Redissi, L’islam incertain: révolution et islam post-autoritaire, éditions Cérès, Tunis, 2017
H. Redissi, A. Nouira, A. Zghal, Les Acteurs, Diwen éditions, Tunis 2012
H. Redissi, A. Nouira, A. Zghal, Les Thématiques, Diwen éditions, Tunis 2012
E. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano, 2013.
A. Wolf, Political Islam in Tunisia. The History of Ennahda, Oxford University Press, 2017
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Simone Casalini, giornalista professionista, è caporedattore web del Corriere del Veneto e del Corriere di Bologna (Corriere della Sera) e collabora con alcune riviste di politica internazionale (Eastwest e Dialoghi mediterranei), curando in particolare l’evoluzione sociopolitica della Tunisia e il tema delle migrazioni. È anche docente a contratto all’università di Trento. Si è laureato in Scienze politiche all’Università di Urbino. Ha pubblicato Intervista al Novecento (Egon, 2010) in cui attraverso la voce di otto intellettuali – tra i quali Sergio Fabbrini, Toni Negri, Franco Rella e Gian Enrico Rusconi – ha analizzato l’eredità del secolo breve e Lo spazio ibrido. Culture, frontiere e società in transizione (Meltemi, 2019). È coautore del libro collettivo La Trento che vorrei (Helvetia, 2019) e del documentario sulla primavera araba tunisina: Tunisia, nove anni dopo. La rivoluzione sospesa (2020, con Roberto Ceccarelli, https://vimeo.com/395279730 ).
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