CIP
di Mario Spiganti
La guerra di Libia di Marco Italiani
Carda, marzo 2016. Un giorno Marco Italiani mi parlò della significativa presenza di due militari cardesi nella guerra di Libia 1911/1912, riportando una narrazione ascoltata in famiglia dal padre e mantenuta viva nella trasmissione orale, supportata dalla sua eccezionale memoria.
Questo suo racconto si colloca all’interno di una fondamentale conversazione che avemmo nella sua casa e contenente preziosi riferimenti autobiografici. Marco, boscaiolo con la licenza di V elementare conseguita alla scuola serale, aveva una formidabile competenza su Dante Alighieri e Ludovico Ariosto, era amante della poesia e grande poeta improvvisatore egli stesso.
Per farmi capire bene come nacque in lui la passione per la Divina Commedia avvertì infatti la necessità di parlarmi della storia della famiglia Italiani, spiegandomi in quale contesto fosse nato, cresciuto e maturato il padre Paolo, sua guida e mentore, colui che più di ogni altro gli ha trasmesso l’amore per Dante Alighieri.
Mi raccontò di come anche suo nonno, nato nel 1850 e padre di Paolo, si chiamasse Marco e fosse originario non di Carda ma di Chitignano (altro paese casentinese ma situato di fronte al massiccio montano del Pratomagno, sull’altro lato della valle dell’Arno rispetto a Carda, non lontano dal monte de La Verna ). Di professione non solo boscaiolo ma anche abile fabbro, il nonno si stabilì a Carda sposando nel 1875 una ragazza cardese. Ebbe sei figli, il primo Candido nel 1876, poi quattro figlie ed infine Paolo, padre del mio vecchio amico, nel 1890.
Genova
La piccola bottega da fabbro allestita dal nonno poteva garantire lavoro solo ad una persona e il primogenito Candido ne divenne titolare. Marco mi disse in quella conversazione:
-«Paolo a 12 anni prese e andò a Genova…c’era il boom edilizio e andò con altri di Carda, qui c’era uno che conosceva l’ambiente….reclutava e reclutò.. tra alcuno dei quali il mi babbo a 12 anni.. Allora non c’erano mica tutte queste restrizioni: … se (gli anni) non erano 14 …guai se non avevano studiato.. etc… Era così, o meglio o peggio non sta a me giudicare” (Marco rivendica qui il suo ruolo di mero narratore di avvenimenti, questo non significa affatto che fosse d’accordo o giustificasse il lavoro minorile). Dunque a Genova c’è stato perfino fino a che è stato chiamato a fare il servizio militare nel 1911! Quindi la guerra del 12 in Libia ..ci passò fino a tutta la guerra mondiale (1914-1918), lui la passò laggiù, con i ribelli …i turchi se ne erano andati….e l’Italia ha presidiato questo ambiente qui..
…È ritornato, nel 1918, dopo 6 anni di militare,..e è tornato a Genova, dove aveva rapporti con la figlia del pensionante (presso cui abitava). Trovò tutto cambiato, tutto a rovescio (la relazione affettiva finita) e tornò a Carda. Lui era un socialista convinto, era stato anche consigliere comunale eletto nel 1920 nel comune di Castel Focognano. Dotato di quel caratteraccio che forse un ramo lo ha trasmesso a me… di non piegarsi.. chinarsi e piegarsi. Lui vedeva il duce come un ex-socialista.. vedeva questo cambiamento e con questo ragazzino in seguito, che sarei io, diceva ‘quel giubbarivolta’, lui fondatore dell’Avanti!, insomma la storia del prefascismo.
…io ero un ragazzino attento al seguito del babbo, non mi sfuggiva niente, né in agricoltura, né in politica, né i consigli vari e racconti, come: ‘so stato a Genova, ho fatto questo e questo, sono stato in Libia»
Qui Marco si fermò, indicandomi sua moglie Faustina che si era affacciata per un attimo ad una finestra interna che separava due stanze della casa, una delle quali occupata da noi, e accennò al padre di lei Mosè Bianchi, parlandomi di un episodio che lo coinvolse nel deserto libico assieme al babbo Paolo.
La guerra di Paolo e Mosè
1912. I due soldati Paolo Italiani e Mosè Bianchi, entrambi di Carda in Casentino, combatterono nella guerra coloniale Italo Turca finalizzata alla conquista di Cirenaica e Tripolitania, detta guerra di Libia. Marco dunque così raccontò questo esemplare episodio accaduto in Libia ai due cardesi:
-«Per Natale davano un fiasco di vino chianti ai soldati…in Libia portare il vino con un piroscafo era semplice.. per festeggiare.. Mosè Bianchi era in un reparto un po’ distaccato nel deserto.. e chiese al capitano il permesso di andare a trovare il paesano Paolo Italiani in un accampamento non troppo distante ..Come no, rispose l’ufficiale, rientra poi domattina….Lui va.. Così si ritrovarono e bevvero un fiasco e magari qualche bicchiere in più. Così quando al mattino Mosè ripartì tornò al reparto.. ma il fucile.. era sparito.. e non lo aveva!
Il capitano disse che per questa perdita era prevista la fucilazione. C’erano infatti i ribelli e questa arma poteva essere stata venduta o comunque finita nelle loro mani.
li chiamavano i ribelli, ed erano pericolosi
-«Qui se non si ritrova il fucile – disse il capitano rivolto a Mosè – tu sei fucilato eh! Non scherzavano mica».
A questo punto Marco interpreta, imitandolo, l’atteggiamento disperato di Mosè verso il capitano, con gesti e voce lamentosa, cercando con gli occhi e tastando l’aria con le mani e narrando:
-«Io l’ho cercato.. mi so’ addormentato nella sabbia… …c’era il ghibli, o quei venti li, che muoveva la sabbia, lui si era addormentato briaco, si era girato e rigirato, poi cerca cerca di notte nella sabbia,… il fucile…niente!. E allora si ritorna all’accampamento dell’amico dove Paolo conferma ..Si, lui è ripartito dopo mezzanotte con il fucile… ‘Rifacciamo ora l’itinerario fatto per il ritorno’ e, improvvisamente, …il fucile!… Eccolo! Scoperto! In mezzo alla sabbia.. E si salvò»
Continua poi Marco:
«Ecco, questo è uno dei racconti che da ragazzo ascoltavo attento. A quell’epoca, finita la scuola (terza elementare) si poteva imparare dai maestri che ci si poteva permettere, Il babbo e la mamma prima di tutto. Il babbo che mi raccontava, quando avevo 5 anni o 7 anni, dell’uggia che gli aveva dato questo cambiamento di Mussolini, la dittatura etc, e poi queste ristrettezze per muoversi, per andare a lavorare (a Paolo fu negato in quanto schedato antifascista il passaporto per la migrazione stagionale in Corsica)…e il babbo mi insegnava: a fare un innesto si fa così, a piantare una cipolla si fa così, a piantare un albero così, a fare il vino così, tutto… tutto… e io con lo sguardo sempre teso e attentissimo».
L’episodio narrato e trasmesso oralmente del fucile perduto è esemplare: la pena prevista per lo smarrimento era la fucilazione, in quanto si poteva supporre l’avvenuta vendita del moschetto 91 ai ribelli. La tensione e lo smarrimento tra i soldati era molto forte, per i pericoli avvertiti in un ambiente ostile e per la ferrea disciplina di guerra cui erano sottoposti.
Paolo Italiani tornò con una coscienza politica antimilitarista e socialista che divenne immediatamente antifascista.
La guerra di Libia nella Domenica del Corriere
La storia che vide protagonisti i due cardesi era vivace ed interessante. Estrassi dalle registrazioni, come spesso ho fatto, un breve montaggio video dedicato a questa piccola ma significativa vicenda. Nel farlo cercai soprattutto di fornire un esempio di come in Italia la stampa borghese più popolare e più diffusa dell’epoca desse notizie e scrivesse della guerra di Libia, esattamente negli anni in cui si svolgeva. E, se possibile, inserendo anche questa ricerca nel video.
A questo scopo mi recai a casa del caro amico fiorentino Franco Innocenti, adesso abitante a Gaiole in Chianti. Presso la famiglia Innocenti si trova infatti una straordinaria raccolta completa e rilegata del settimanale “La Domenica del Corriere” iniziata nel 1899 dal nonno, proseguita dal padre Alberto fino al 1960, e custodita da Franco Innocenti.
Consultammo assieme le pagine della Domenica del Corriere edita nel periodo 1911-1912. Ricordo che Franco mi chiese come mai mi interessasse tanto la Guerra di Libia e gli spiegai della vicenda legata ai due soldati cardesi. La lettura del settimanale mi avrebbe concretamente aiutato a comprendere come la propaganda ufficiale avesse raccontato quella guerra nella stampa popolare italiana dell’epoca.
Anche a Firenze infatti, come in molte famiglie agiate e borghesi italiane, le vicende belliche di Libia venivano seguite con forte partecipazione sulle pagine della “Domenica del Corriere”, soprattutto grazie alle formidabili illustrazioni a colori di Achille Beltrame (1871 – 1945).
Nella realtà storica si trattò una guerra sanguinosa che non terminò certamente con la sconfitta dell’impero Ottomano ed il susseguente trattato di resa e pace. La Resistenza e Ribellione contro l’occupazione italiana si mantennero vive e forti fino a tutti gli anni ‘20 e furono soffocate nel sangue.
Le pagine della Domenica del Corriere che si susseguivano per tutta la durata della guerra erano perfettamente in linea con l’impostazione governativa del periodo, che forniva una informazione bellica propagandistica e trionfale . Le tavole illustrate a colori di Beltrame, alcune riportate nel mio video, erano bellissime e accattivanti e contribuirono a rendere popolarissimo il settimanale domenicale del Corriere della Sera. Quelle illustrazioni rappresentavano esemplarmente e con efficacia l’ideologia piccolo borghese dominante, pronta poi nel tempo ad adeguarsi anche alle legislazioni italiane sempre più apertamente razziste, fino al culmine del 1938.
Quei colorati disegni, infatti, rappresentavano tra 1911/1912 un esercito italiano moderno, ordinato e ben equipaggiato, diremmo quasi “all’inglese”, contrapposto a combattenti arabi cenciosi, dalla irreale pelle sempre “nera”, dallo sguardo allucinato e rabbioso. Oppure presentavano militari dell’esercito turco dall’aspetto grassoccio e corrotto e dall’atteggiamento oppressivo rispetto alla popolazione (quasi si trattasse, da parte italiana, di una guerra di “liberazione” dal dispotismo turco Ottomano invece che di una guerra di invasione e occupazione coloniale, come in realtà era).
Nelle lontane memorie dei soldati di Carda si percepisce invece una guerra diversa, in cui forte e costante e pericolosa era la presenza dei “ribelli”, soprattutto nelle zone interne e desertiche. Paolo Italiani rientrò definitivamente dopo sei anni dalla Libia (non sappiamo se con l’intermezzo di qualche periodo di licenza) e con una forte coscienza politica socialista, antimilitarista e antifascista, probabilmente maturata durante la guerra e anche nella giovanile esperienza genovese come lavoratore edile.
La guerra di Libia di Attilio Bianchi nel racconto del figlio Olinto
Anche in una delle mie più recenti conversazioni con il vecchio amico Olinto Bianchi, uno splendido boscaiolo novantenne, ho avuto modo di apprendere altri aspetti pertinenti alla guerra di Libia, acquisendo ulteriori nuove informazioni. E anche grazie a lui ho accertato definitivamente un caso di omonimia tra due cardesi quasi coetanei che mi aveva tratto in inganno, facendomi pensare ad un’unica persona.
Mosè: a questo nome corrispondevano due personaggi ben distinti del paese. Uno era il padre di Faustina Bianchi, ultima moglie di Marco Italiani, e protagonista della vicenda del fucile perduto nel deserto libico. L’altro era Mosè Bindi di Carda, detto Bussino, che fu invece militare nella Grande Guerra e protagonista di un episodio singolare nella battaglia di Caporetto in cui disertò assieme ad un altro soldato cardese, scampando alla morte consegnandosi agli austriaci. Altra interessante storia.
Olinto mi raccontò dunque della partecipazione di suo padre Attilio a quella stessa guerra di Libia, riportandomi narrazioni da lui trasmesse in famiglia. La nave da guerra che trasportava il corpo di spedizione di cui faceva parte Attilio faceva parte della flotta che si posizionò di fronte a Tripoli nel settembre 2011, mentre il 3 ottobre iniziò il bombardamento della città. Olinto così riporta la sua storia:
-«.. il mi babbo.. Sbarcarono a Tripoli con una grossa nave da guerra italiana.. la Libia mi pare.. (in realtà la nave Libia, della tipologia navale definita classe esploratore, dalla strana storia anch’essa, fu inserita solo successivamente nel conflitto ed era dotata di armamento relativamente leggero, mentre nel primo sbarco avvenuto a Tripoli le navi da guerra coinvolte erano molto più potenti) .. e c’era gli arabi ..molti arabi…era gremito quelle montagne lì (si tratta delle colline che circondavano il porto, che Olinto indica davanti a me deitticamente con ampie gesta delle mani) ..pronti per attaccar questa nave, questa masnada di.. E questa nave aveva 12 cannoni e cominciò a sparare cannonate in qua, in là e si disperse tutta questa masnada, perché non avevano mai visto,.. mai sentito le cannonate ..Capito?.. Questa nave era una nave di avanguardia e vedendo questo mondo bruciare,.. bruciar de lì,.. colpi di qua.. ce fu uno sbandamento tremendo.
..Però, in seguito, nell’accampamento, nelle rovine, c’erano i cecchini e ogni tanto a qualche italiano gli sparavano e lo ammazzavano…e si misero alla loro ricerca, ed uno era tra un monte di lastre, palazzi rovinati ….aveva fatto un cunicolo e da lì osservava e quando vedeva qualcun da lì …TA PUM… con un fucile tedesco che faceva due colpi. Questo cecchino, però, .. fu individuato e chiappato, lo chiapparono e lo presero.. con noi c’erano gli Ascari e in quattro con le baionette lo presero lo infilarono e lo portarono sollevato in giro per il loro accampamento, infilato in quattro baionette e inneggiando alla morte di questo cecchino. E poi battaglie giornaliere …erano all’ordine del giorno.. Lì loro erano in mezzo a una masnada di gente che non avevano paura nemmeno di morire.. Arabi e beduini.. Turchi , arabi e beduini, questi erano il grande esercito tripolitano».
Attilio rientrò dalla Libia (probabilmente qui sì con la nave Libia) nel 1917 ma fu subito richiamato e inviato al fronte italiano della Grande Guerra dove si trovò a combattere fino all’armistizio.
Storia orale, qualche riflessione di metodo
Come detto sopra, il breve racconto sulla guerra di Libia fatto da Marco è parte di una lunga videointervista autobiografica con cui raccontò la sua vita per farmi comprendere come in lui fosse nata la passione per Dante Alighieri. È parte integrante cioè di una storia di vita al cui interno è essenziale tutta la storia della famiglia e del padre Paolo in particolare. Una storia che inizia dal momento in cui il nonno Marco si trasferì dal paese di Chitignano (situato come sopra detto sull’altro lato della valle casentinese dell’Arno, vicino a La Verna) a Carda nel 1875. Una narrazione complessa che attraversa guerre e grandi mutamenti economici, politici e sociali. Vicende di artigiani e boscaioli.
«Le storie di vita ci fanno assistere allo spettacolo meraviglioso (che mai potrebbe essere ‘osservato’ dall’esterno’ da un antropologo), di una cultura vista dall’interno di una vita, e di una vita vista all’interno di una cultura» (Pietro Clemente, Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita, 2013: 155-156).
Il corsivo nella citazione è dello stesso autore ed evidenzia una sorta di formula suggerita da lui come una via maestra per la riflessione antropologica sulle storie di vita. Ed è una via che ho tentato di seguire con le mie interviste e con questo scritto. Scrivendo, anche per miei limiti, non posso affrontare come meriterebbero questioni così complesse e ampiamente dibattute da anni nella letteratura scientifica ed in varie discipline (antropologia, sociologia, storia orale, linguistica etc); tuttavia non posso neppure sottrarmi dalle considerazioni seguenti.
Nelle lunghe conversazioni registrate a Carda vi sono narrazioni che contengono molte storie di vita. Tra queste quelle di Marco Italiani, Gian Maria Cardini, Olinto Bianchi, Annunziata Mascalchi, Orlandina Cardini ed altre ancora. Si tratta di dialoghi registrati in forma di videointerviste, all’interno delle quali è possibile evidenziare, in virtù degli strumenti di registrazione utilizzati, alcuni aspetti che distinguono questa particolare modalità tecnica da altre forme di registrazione con cui un’intervista può essere “accolta” (piuttosto che “raccolta”, come giustamente suggerisce Pietro Clemente sottolineando così il suo fondamentale aspetto dialogico.
Naturalmente circoscrivo queste mie riflessioni alle interviste che vengono realizzate in ambito di ricerche di storia orale o antropologia o altro e che, soprattutto, non abbiano una diretta finalità di comunicazione giornalistica, sia essa pensata per la stampa, o radiofonica, o televisiva etc., anche se potenzialmente utilizzabili a questi scopi.
Capita spesso di leggere o ascoltare affermazioni che indicano come un “tratto specifico” e distintivo della intervista audiovisiva sia costituito dalla possibilità di registrare e cogliere fino in fondo, con tali strumenti tecnici, le espressioni mimiche dell’intervistato, le posture fisiche, le tonalità di voce associate ad espressioni del volto e atteggiamenti che, con modalità comunicative non verbali, indirizzano la comprensione di senso delle parole dette fino ad addirittura, qualche volta, contraddirle, etc.
Osservazioni senza dubbio pertinenti e corrette, legate alla specificità delle immagini in movimento, di origine cinematografica, che, legate alla vocalità, creano una “irreale” illusione di realtà a disposizione degli intervistatori interpretanti. Tuttavia queste considerazioni sembrano trascurare alcuni dettagli concettuali che ritengo fondamentali e centrali per la mia ricerca, sui quali mi permetto di insistere:
- Lo spazio e il tempo della documentazione audiovisiva non corrispondono affatto all’evento o alla situazione reale in cui due o più persone hanno dialogato tra loro in modo spesso auspicato come paritario. Spazio e tempo nello specifico audiovisivo meritano un trattamento che cerco altrove di sviluppare più compiutamente. Qui mi limito ad affermare, in sintesi, che la documentazione audiovisiva di una intervista non solo ‘interpreta’ e dunque non riflette il “reale” in modo speculare, ma non è altro che una forma particolare di trascrizione di quanto è accaduto in modo irripetibile nella realtà di uno scambio comunicativo avvenuto tra due persone o più. Così come allo stesso modo con cui si poteva stenografare con lapis una conversazione o registrarla con magnetofono (o anche tramite memorizzazione mentale che, infatti, può essere fatta senza alcun ausilio). Tutte forme, a mio avviso, che rappresentano già una prima forma di trascrizione rispetto a quanto è accaduto in una conversazione. La scrittura che avviene successivamente, in forma di testo leggibile, dell’oralità espressa nell’intervista, in qualsiasi modo sia stata raccolta, rappresenta un secondo passaggio, chiamato comunemente esso stesso, in genere, trascrizione. Un terzo passaggio, qualora presente, si ha con l’elaborazione di una scrittura interpretativa di tipo scientifico antropologico e/storico da parte dell’intervistatore
- L’intervistatore, nel caso di ricerche di storia orale, non è un giudice che riascoltando e confrontando le affermazioni del suo interlocutore né stabilisce o meno la verità, semplicemente le accoglie e le rispetta, talvolta come un dono. La memorizzazione di fatti e avvenimenti che vengono trasmessi attraverso le generazioni è per se stessa qualcosa di straordinario. Nel caso della guerra di Libia questi eventi sono stati registrati per come sono stati vissuti e interpretati dai primi protagonisti in uno spazio e tempo determinato, come trascritti indelebilmente in memorie viventi e trasmesse in famiglia. Infine riportati e restituiti in conversazioni effettuate oltre un secolo dopo. Nelle posture, nella mimica, negli sguardi nelle tonalità usate da Marco e Olinto sembrano addirittura talvolta riemergere straordinariamente, in modo imitativo, le modalità narrative dei padri.
- Nel caso di Carda poi le modalità della memorizzazione e della narrazione orale espresse nelle video interviste appartengono e sono fortemente influenzate da un contesto particolare di relazioni sociali. Una realtà culturale all’interno della quale è stata viva, e molto a lungo, una profonda competenza diffusa rispetto al linguaggio poetico e alla conoscenza profonda di classici come Dante e Ariosto e non solo. Per profonda competenza diffusa intendo un riferimento culturale sociale complesso e di difficile comprensione, in cui esistevano certamente forti differenze individuali ma di cui tutti erano in qualche modo permeati, anche nel caso di analfabetismo assoluto, presente soprattutto fino all’istituzione della scuola elementare di montagna. Tutto ciò è riflesso nel lessico e nelle modalità complessive della comunicazione linguistica verbale.
- Le videointerviste da me registrate sono state realizzate utilizzando prevalentemente una videocamera dotata di un’ottica grandangolare spinta e, quando tecnicamente possibile, le immagini mostrano ed evidenziano nell’inquadratura entrambi gli interlocutori dello scambio dialogico, salvo impossibilità tecniche. Ciò si riscontra soprattutto nei girati integrali contenuti nel mio archivio. I montaggi da me realizzati, con alcuni video che preferisco chiamare “di restituzione” piuttosto che documentari, rappresentano infatti delle sintesi ridotte ed estratte dalle interviste stesse. In quanto tali le videointerviste integrali possono rappresentare delle ‘fonti documentali’, archiviate e catalogate e rese accessibili ad altri ricercatori, come accade con le altre tipologie di documento. Fonti che possono anche essere verificate e approfondite come avviene per tutti i documenti considerati fonti per la ricerca storica. Ad esempio, l’avvenuto bombardamento navale del porto di Tripoli, che aprì l’invasione italiana e descritto da Olinto con le parole del padre, è riportato anche nelle ricerche storiche sulla guerra di Libia effettuate utilizzando altre tipologie di documentazione. La stessa parola “masnada” usata da Olinto nel citare il racconto del padre Attilio esprime e connota i modi spregiativi con cui venivano presentati e chiamati i combattenti arabi che si opponevano alle truppe italiane. Atteggiamento culturale esemplarmente ben espresso anche dalle pagine della Domenica del Corriere dell’epoca, e di cui allego qualche foto significativa.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Mario Spiganti, laureato in Filosofia alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze (1978), animatore culturale sin dagli 80 in Casentino (AR), si occupa di Memoria e Territorio. Nel 1988 per la Comunità Montana del Casentino progetta, realizza e dirige la Banca Intercomunale Audiovisivi (B.I.A.), nel 1996 progetta e dirige il servizio Cred (Centro Risorse Educative e Didattiche)- Banca della Memoria. Il CRED è anche archivio digitale di immagini e suoni legate alle tradizioni culturali e materiali dell’Area Casentino, della Provincia di Arezzo e della Regione Toscana. Nel 2004 riceve ad personam il premio EX-AEQUO per la Cultura della Regione Toscana. Dal 2014 socio della Associazione Italiana Storia Orale (AISO) è autore di progetti pertinenti alle persecuzioni razziali fiorentine, al passaggio della guerra e Resistenza in Toscana; di un progetto di Storia Orale, in corso d’opera, “La frazione montana di Carda (AR) nel Novecento: dalla guerra Italo Turca del 1912 a Lascia o Raddoppia? (1957)”. Negli anni 2018-2019 come coautore partecipa in Cile alla realizzazione, per la Regione Emilia Romagna, del progetto “Il Territorio nella Valigia”, condotto con videointerviste, sulle memorie femminili delle emigrazioni emiliano romagnole in Cile nel Novecento.
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