il centro in periferia
di Settimio Adriani
Il titolo non è un divertente scioglilingua, ma un infelice rapporto numerico sul quale si farà luce più avanti. Sin dai primi del Cinquecento, al centro di Fiamignano campeggia un grosso palazzo, tanto imponente quanto sproporzionato se comparato alle dimensioni complessive del borgo. Sulle origini sussistono ancora molti dubbi; probabilmente la struttura non nasce così come appare (o forse sì!).
Gli architetti Romano Cerro e Michele Asciutti, dell’Università La Sapienza di Roma, che lo stanno studiando per conto della Pro Loco, sospettano che possa essere il risultato di un accorpamento di strutture preesistenti, alle quali è stata conferita un’unica facciata unificatrice e architettonicamente omogenea [1]. Impresa impegnativa per l’epoca e per il contesto, presumibilmente voluta da qualcuno per motivi tuttora incomprensibili e non ancora appurati. Di fatto, quel palazzone che continua a celare molti segreti è ancora lì, con tutta la sua inspiegata e maestosa presenza. Per tratteggiarlo sinteticamente è sufficiente evidenziare che, lungo il corso del paese, sfoggia due ordini regolari e sovrapposti di 14 finestre, sulla cui verticale, al piano stradale, ci sono altrettanti accessi delineati da archi in pietra a tutto sesto e ribassato, che consentono l’ingresso in locali di varia foggia e pezzatura. Le finestre diventano 33, se alle 28 appena descritte si sommano le 5 che affacciano sulla piazza.
Tanta imponenza, per un luogo così piccolo, ancora suscita un certo orgoglio nella scarsa popolazione residua. Magra fierezza solitamente alimentata da un paio di confronti presuntuosi, irriverenti, indipendenti dalle linee architettoniche (che fanno la differenza!) e, ovviamente, scelti in modo opportuno. Ai fiamignanesi più veraci piace infatti evidenziare che a fronte della sequenza di 14 finestre del “loro” possente edificio, la facciata principale del Palazzo della Consulta, sede romana della Corte Costituzionale in piazza del Quirinale, mostra 3 ordini di 13 finestre e, se non bastasse, nel prospetto del Palazzo Vincentini, sede della Prefettura di Rieti, capoluogo della nostra provincia, ci sono 3 ordini di appena 5 finestre. Insomma, gli occhi del campanilismo fanno apparire quella struttura più imponente di quanto realmente sia.
Si racconta che nel XIX secolo il palazzo appartenesse interamente ad Angelo Giuliani, detto Menelicche, accanito giocatore d’azzardo; ’e réstu, come si dice dalle nostre parti. La narrazione, confermata da Luca Giuliani, pronipote di Menelicche, vuole che lo stesso scialacquasse l’intera proprietà nel volgere di una notte. Si dice che avendo perso una stanza con una mano a scopa, dall’avversario pretese cocciutamente la rivincita ma dovette cedere un secondo vano; tentò ancora di rifarsi, e perse anche il terzo. Cambiò avversario, e le cose non migliorarono; allora provò con un altro, ma non ebbe miglior fortuna. Così via via fino alle prime luci del giorno, che lo sorpresero povero in canna. Gli rimase soltanto un locale al piano stradale che apre sul corso ed è internamente collegato a due vani totalmente interrati.
Dall’aneddoto nasce il detto: «‘ó male nó’ è che ha pérsu, è che se ò’ refà’!». Di fatto, per tale motivo presunto o per altri possibili, la proprietà è totalmente frammentata, e nel corso del tempo i diversi detentori hanno destinato ai più disparati usi le loro particelle. Tant’è che fino a ben oltre la metà del secolo scorso, quello stabile ha rappresentato il cuore pulsante del paese. Vi risiedevano stabilmente sette famiglie, compresa quella di Raffaele Paolessi, il medico condotto che riceveva i mutuati in uno stanzone al piano superiore vagamente adibito ad ambulatorio.
In uno dei numerosi locali al piano stradale, fino al 1949 era attivo l’unico magazzino di tutto il Cicolano destinato alla vendita all’ingrosso del sale. L’attività, condotta da Francesco Adriani, ‘u sor Checco ‘e Pesciòtto, richiamava gente da ogni paese della valle, ma venne purtroppo dismessa in seguito a un traumatico, sostanzioso, torbido e irrisolto furto della preziosa merce. Tra i Pesciòtto ancora oggi si sostiene che lo sventurato risentì talmente del furto da morirne l’anno successivo.
Una delle tre macellerie del borgo, servizio oggi assente completamente, era strategicamente collocata accanto all’arco che conduceva all’ingresso del Comune. Poco più avanti, ammassati uno sull’altro, operavano in aperta competizione due dei tre Alimentari e diversi allora attivi, quelli di Iole e Benedetto. Oggi, con gran fatica, ne sopravvive uno ubicato altrove, che in tempo di Covid19 ha parzialmente beneficiato delle limitazioni imposte agli spostamenti, ordinariamente compiuti da una parte dei paesani diretti verso i supermercati cittadini in cui si risparmia. All’interno di una delle due botteghe attigue, in un angolo piuttosto appartato, era stata approntata un’osteria che radunava chi voleva bere spendendo poco. In totale le osterie paesane erano quattro, ed ora mancano completamente.
In una stanza non molto grande, perfettamente tenuta dalla signorina Clara, per molti anni ha funzionato l’accogliente e preziosa Biblioteca comunale. Nel tempo era diventata una sorta di centro sociale e di aggregazione per gli adolescenti del posto. Tra la macelleria dei Bagarini e il negozio di alimentari di Iole c’è l’unico vano rimasto a Menelicche, poi giunto per eredità a Pippo il sarto che lo adibì a laboratorio. Tornato in paese dopo un decennio di emigrazione in Germania, Pippo riprese il lavoro di sempre conducendolo tra alti e bassi, anche a causa della sopraggiunta moderna tendenza ad acquistare a buon mercato abiti già confezionati. Nessuno è riuscito a strapparlo dalla sua bottega se non la morte. Il lavoro era poco, ma la luce sempre accesa. Lì si ritrovavano alcuni anziani, conversavano, bevevano un bicchiere, giocavano a carte, si lamentavano della politica e snocciolavano i ricordi. Adesso, anche quella porta è perennemente chiusa.
In un locale poco più avanti ha lavorato Giuliana, la parrucchiera. Per lungo tempo è stata l’unica o quasi dell’intera vallata, e raccoglieva clienti da tutto il circondario. Anche questo servizio non c’è più, e per farsi belle le donne devono raggiungere una frazione del comune. Ancor più avanti, in direzione della piazza, resiste l’unico e storico bar del posto, che a differenza del negozio di alimentari sta accusando parecchio le limitazioni dovute alla pandemia.
Fino al terremoto del 2016, il palazzo ospitava il municipio che creava un modesto flusso di persone sufficiente a dare ossigeno ai due esercizi ancora attivi. Alla fine degli anni Cinquanta, nell’aula consiliare venne installato il primo e unico televisore del paese che ogni sera raccoglieva buona parte della popolazione residente. Nella stessa sala venivano ordinariamente somministrate le vaccinazioni di massa, universali e gratuite, come l’antipolio e l’antivaiolosa, e i vaccinandi facevano la coda in attesa del loro turno. Le passate campagne di immunizzazione hanno definitivamente debellato quelle terribili malattie, e la memoria dovrebbe essere di monito per gli odierni negazionisti e no-vax. L’Ente Comunale di Assistenza, noto come ECA, e l’Ufficio di collocamento, richiamavano dalla trentina di frazioni gli strati sociali meno abbienti; in un caso coloro che «si trovassero in condizioni di particolare necessità» potevano accedere agli aiuti in danaro, nell’altro chi sperava di avere un lavoro.
Attualmente lo stabile è quasi completamente dismesso, e al momento non si ha sentore di futuri interventi di recupero e rivitalizzazione che sarebbero decisivi per la sopravvivenza del borgo. Dopo tanta vitalità si è verificato il tracollo: in pochi decenni tutto è cambiato, il palazzo si è progressivamente svuotato, e delle 33 finestre ne restano attualmente aperte soltanto 3. Aperte perché una giovane coppia ha deciso di restare, pur consapevole che tale scelta l’avrebbe costretta a una vita di faticoso pendolarismo. Decisione resa dal vivere in montagna molto più ardua e complessa di quanto si possa credere.
Insomma, quel palazzo è lo specchio dell’emorragia umana in atto; si è svuotato poco alla volta, senza clamore, stanza dopo stanza, motivo dopo motivo, tutti più che legittimi e talvolta imprescindibili. È inutile girarci troppo intorno: manca il lavoro, unica causa che spranga le restanti 30 finestre. Quante promesse sono state fatte per riaprirle, tutte deluse, per cause interne ed esterne! Quanti progetti faraonici mai avviati o incompiuti si sono susseguiti dal periodo in cui quelle imposte cominciavano a non aprirsi più! Tutta fuffa.
Ora pare si stia presentando una nuova opportunità di rivitalizzazione territoriale, alla quale, nel quadro di scetticismo imperante, ancora una volta ci sforziamo di voler credere. Sulle attività relative ai temi dello sviluppo sostenibile e delle aree interne, trattate nel Manifesto per una nuova centralità della montagna, promosso dalla Società dei Territorialisti, e condiviso nel Convegno “La nuova centralità della montagna”, celebrato a Camaldoli l’8 e il 9 novembre 2019, Pietro Clemente scrive:
«Sono iniziative consapevoli della necessità di tempi lunghi per ‘invertire lo sguardo’, che talora confliggono con l’urgenza che si sente nei ‘luoghi’. In un incontro a Fiamignano a fine agosto, alla presenza di alcune autorità locali è stato evidente che molte popolazioni di quell’area dell’Appennino (umbro-laziale, abruzzese), coinvolta anche nel terremoto e nelle difficoltà di uscirne, pensano che senza interventi urgenti non ci sarà sopravvivenza e si dovrà assistere alla catastrofe. Non è facile per queste popolazioni credere in progetti a lungo termine, in reti nazionali solidali, in costellazioni di soggetti attivi per i quali ‘sortirne insieme è la politica’. Hanno paura che domani sia la fine. Anche la grande lentezza delle iniziative legate alla SNAI, la difficoltà dei Comuni a mettersi insieme per progetti collaborativi, mostra il disagio di tutto il sistema istituzionale intermedio nell’intervenire sulle aree fragili» [2].
Nonostante questa limpidissima verità, proviamo ad essere ottimisti, vedremo cosa si concretizzerà. Ce la metteremo tutta e ci attiveremo in ogni modo per il buon esito, nella speranza di non ritrovarci ancora una volta a doverci pentire dell’esserci messi inutilmente in gioco. Non vorremmo calcare le orme di Menelicche, e continuare a perdere rincorrendo la rivalsa.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] È possibile che gli edifici preesistenti avessero tutti i solai e le finestre agli stessi livelli? Perché se così non fosse vorrebbe dire che il palazzo è stato pensato e costruito così com’è, e la scoperta delle motivazioni di chi avesse commissionato così tanto inspiegabile “eccesso” si farebbero ancora più interessanti.
[2] Pietro Clemente, Piccoli paesi nell’ondata del virus. Resistenza, democrazia, comunità, in «Scienze del Territorio», n.s. 2020: 51.
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Settimio Adriani, laureato in Scienze Naturali e Scienze Forestali, si è specializzato in Ecologia e ha completato la formazione con un Dottorato di ricerca sulla Gestione delle risorse faunistiche, disciplina che insegna a contratto presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo (facoltà di Scienze della Montagna, sede di Rieti) e ha insegnato presso le Università degli Studi “La Sapienza” di Roma (facoltà di Architettura Valle Giulia) e dell’Aquila (Dipartimento MESVA). Per passione studia la cultura del Cicolano, sulla quale ha pubblicato numerosi saggi.
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