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Treblinka. Erba, pietre e il senso profondo di un silenzio abissale

Treblinka

Treblinka, il monumento al centro del campo

di Massimo Jevolella 

Si parla sempre di Auschwitz, quando si vuol ricordare la tragedia immane dell’Olocausto. Ad Auschwitz i segni dell’orrore sono ancora visibili, si possono toccare con mano. Baracche, filo spinato, torrette di guardia, forni, camini, il binario della morte, la scritta in ferro battuto “Arbeit Macht Frei” (“Il lavoro rende liberi”), terribile nel suo macabro sarcasmo. Tutto, o quasi tutto, è ancora lì, a testimoniare la ferocia, la follia, il dolore infinito di una catastrofe umana che non ha paragoni nella storia: lo sterminio scientifico, sistematico, implacabile, degli Ebrei, ma anche dei Rom e dei Sinti, degli omosessuali, dei “diversi”.

Ogni pietra, ogni mattone, ogni asse di legno imputridito è come un grido di terrore e di vergogna che si leva verso il cielo e si perde nel vuoto dell’insensatezza. Auschwitz è un monumento, un sacrario, un luogo di incessanti pellegrinaggi, un simbolo universale. Una grande meta turistica, perfino, se in questo caso l’uso del termine possa ritenersi ammissibile. Eppure la Polonia è disseminata di altri luoghi, altri nomi marchiati a fuoco dalla criminalità nazista, che pur non possedendo la stessa suggestione scenografica di Auschwitz possono lasciare un ricordo indelebile in chi abbia la ventura di visitarli. E forse ancora di più. Uno su tutti: Treblinka.

Accadde a me molti anni fa, ma il ricordo è vivo come se fosse di ieri mattina. Eravamo nel mezzo di un agosto torrido e afoso. La strada che da Varsavia si snoda in direzione nord-est, verso Białystok e il confine con la Bielorussia, sembrava un piccolo fiume grigio immerso nel verde cupo delle foreste. In quel tempo ero sposato con una giovane donna polacca di nome Maria (ora lei se n’è andata, stroncata a 46 anni da un male inesorabile). La famiglia materna di Maria, gli Skłodowsky, era originaria di quella regione, la Podlachia: una distesa infinita di campi lievemente ondulati, totalmente agricola e quasi ferma nel tempo, scarsamente abitata e punteggiata solo di villaggi sperduti e di qualche rara e piccola cittadina. La nostra meta era il minuscolo borgo di Winna Chroły, a pochi chilometri dalla cittadina di Ciechanowiec. I cugini di Maria ci accolsero con estremo calore. Cucinarono per noi i tipici e squisiti “blin” bielorussi. E il giorno dopo Maria mi condusse a conoscere lo zio Marek. Un uomo molto anziano, malato e zoppicante, ma incredibilmente vivace e spiritoso. In vita sua non si era mai allontanato dalla regione di Winna. Fu dalle sue parole che nacque in me l’idea di visitare il campo di Treblinka.

blinka, Memoriale

Treblinka, Memoriale

Prima di partire da Varsavia non avevo studiato bene la carta geografica della Podlachia. Non sapevo che Treblinka era proprio lì, vicinissima a noi. Lo zio Marek parlava e rideva come un bambino. Raccontava in polacco vecchie storie, e Maria le traduceva per me. A un tratto mi venne in mente di chiedergli: «Che cosa ricordi degli anni di guerra?». Lui, continuando a ridere, si mise a narrare dei suoi amici italiani. Sì, aveva conosciuto dei soldati italiani, era stato con loro per un breve periodo in un campo di prigionìa, e ci teneva a dire che erano tutti molto simpatici. «Mi insegnavano le parolacce più brutte della vostra bella lingua! E me le ricordo bene ancora». «Per esempio?», gli chiesi. E lui, con una pronuncia italiana impeccabile, cominciò a snocciolare una serie di esclamazioni da osteria. Rimasi di stucco. Lui cominciò a sorseggiare della vodka, che io rifiutai con la scusa dei bruciori di stomaco.

Treblinka, Traversine ricostruite della ferrovia che terminava nel lager

Treblinka, Traversine ricostruite della ferrovia che terminava nel lager

Ma c’era una domanda che a tutti i costi gli dovevo rivolgere. «E gli ebrei?». A quel punto lui smise di ridere. La sua vena di narratore all’improvviso si spense. Mi rivolse uno sguardo smarrito. Io forse non avrei dovuto, ma ebbi l’impulso di chiedergli: «Voi polacchi sapevate, vero? Sapevate quello che stava accadendo?». Seguì un lungo silenzio. Poi lui mi fece un cenno col capo, per dirmi di sì. Loro sapevano. E come potevano non sapere? «Senti», mi disse, «venendo qui da Varsavia siete passati da Małkinia Gorna?». «Sì», gli risposi, «me la ricordo bene: c’è un passaggio a livello, c’è una stazione ferroviaria». «Bravo! E lo sai cosa c’è lì vicino?». Restai muto. «Lì una volta la linea ferroviaria si divideva in due tronconi. A nord-est si andava, e ancora si va, verso Białystok: è la linea che collega Varsavia con Mosca. Verso sud-est, invece, si andava a Treblinka. Era una diramazione brevissima, solo pochi chilometri, con un piccolo ponte di legno che passava sul fiume Bug. Adesso quel troncone non c’è più, è stato smantellato alla fine della guerra». Mi sentii correre un brivido nella schiena. Finalmente accettai un bicchierino di vodka.

Il giorno dopo si doveva tornare a Varsavia. C’era un sole splendido, e nemmeno una nuvola. L’aria si era completamente fermata. Guardando il cielo, sembrava di stare all’interno di una boccia di cristallo. Quando arrivammo a Małkinia fermai la macchina. Dissi a Maria e a sua madre Jadwiga che viaggiava con noi: «Perdonatemi, so che avete fretta di tornare a casa, ma io vorrei tanto vedere Treblinka». Sorrisero entrambe con dolcezza, senza dire una parola. Dopo pochi minuti ci trovammo davanti al famoso ponte di legno: era ancora lì, intatto, talmente angusto alle due imboccature che la mia auto (una vecchia Fiat Marea) quasi stentò a passarvi. Su quello strettissimo ponte erano passati, a migliaia, i treni della morte. La strada era deserta. Poco dopo incontrammo la scritta “Treblinka” su un piccolo cartello sbiadito. Mi aspettavo di scorgere un villaggio, invece vidi solo poche vecchie casette di campagna sparpagliate un po’ a casaccio lungo la via, e nemmeno un’anima viva intorno. Arrivammo a un bivio. A destra la via si inoltrava in un bosco di pini e betulle: era lì che dovevamo andare.

3Fu come entrare in un sogno. Un sogno carico di angoscia e di stupore. Eravamo assolutamente soli. Nemmeno un visitatore, nemmeno l’ombra di un passante si aggirava in quel luogo. Treblinka era abbandonata, come un relitto inabissato nell’oceano del tempo. L’unico essere umano presente era il guardiano, che senza dire una parola ci staccò i tre biglietti dell’ingresso. C’erano anche dei libri e dei foglietti illustrativi. Acquistai per pochi słoty una copia di Revolt in Treblinka di Samuel Willenberg, uno dei pochi sopravvissuti alla disperata rivolta scoppiata nel campo di sterminio nella primavera del 1943 1. Avanzammo lungo un sentiero sterrato che s’inoltrava nel bosco, nel silenzio più profondo e irreale. Fu un cammino breve e sconvolgente, che non dimenticherò mai. Si udiva solo lo scalpiccìo dei nostri passi. Ogni tanto ci guardavamo attoniti, eravamo incapaci di parlare. E all’improvviso il bosco si diradò. Apparve uno strano spettacolo: una banchina di cemento fiancheggiata da un tratto di binario, sulla destra, e un vasto campo, brullo e costellato di macigni di pietra, sul lato sinistro. Una sorta di altare megalitico al centro. La scritta “Mai più” incisa in varie lingue nella roccia. Quell’ampia radura era completamente circondata dalla foresta, e oltre le cime degli alberi non si vedeva altro che il cielo, come nell’Infinito di Leopardi.

Treblinka, la foresta di pietre nel campo di concentramento

Treblinka, la foresta di pietre nel Memoriale

Ecco, quella era Treblinka: erba, pietre e silenzio. Una visione onirica. In nessun modo ci eravamo preparati a quell’incontro. Non potevamo capire nulla di ciò che stavamo vedendo. Ci aggirammo come inebetiti tra quelle pietre. Non sapevamo che i nostri passi stavano ripercorrendo gli stessi brevi cammini per cui erano passati, tra l’estate del ‘42 e l’autunno del ‘43, più di ottocentomila esseri umani prelevati dal Ghetto di Varsavia e da altri luoghi della Polonia, della Bielorussia e della Lituania, per essere immediatamente assassinati con i gas o con dei colpi alla nuca. Quel pezzo di binario mi restò impresso sopra ogni altra cosa. Si allontanava dalla banchina piegando con una lieve curva verso occidente, e poi spariva nel bosco. Non ebbi il coraggio di scattare una sola foto. Non ci pensai nemmeno. Nel mezzo del campo ricordai i versetti iniziali del Salmo 23 2 che dicono: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome». Li recitai per tre volte, nel silenzio della mente: Adonài ro’î, lô ehsàr, bin’ôt dèshe yarbitsèni… Fu il mio piccolo kaddìsh per le anime volate via in quel luogo. Mi sentii pacificato. Lasciammo il campo e ci rimettemmo in viaggio. A Varsavia studiai la storia di Treblinka e osservai a lungo la cartina del campo, ricostruita con un disegno meticoloso nel libro di Willenberg. Poi andai nell’area del Ghetto a visitare il monumento di Umschlagplatz, e allora finalmente mi resi conto di tutto.

Ebrei in attesa di partire per Treblinka nella Umschlagplatz di Varsavia

Ebrei in attesa di partire per Treblinka nella Umschlagplatz di Varsavia

La storia del campo di Treblinka era cominciata nel luglio del 1942, quando i nazisti decisero di avviare alla “soluzione finale”, ossia allo sterminio, i quasi 400.000 ebrei che ancora sopravvivevano nell’inferno del Ghetto di Varsavia. Ogni giorno le SS rastrellavano nel Ghetto dalle cinque alle seimila persone, le incanalavano in corteo verso la Umschlagplatz (la vasta piazza antistante lo scalo ferroviario della linea di Białystok, perfettamente ricostruita nel bellissimo film “Il pianista” di Roman Polanski), e da lì le imbarcavano sui carri bestiame piombati, diretti a Treblinka. Dicevano loro, per tenerli calmi, che li portavano a est, nei campi di lavoro. Ma la realtà era ben altra. Quando i convogli arrivavano a Treblinka, i deportati venivano fatti scendere dai vagoni, ed erano subito avviati alle camere a gas, tranne pochissimi giovani maschi destinati per un breve periodo ai lavori pesanti nel campo. Ancora non si utilizzava il micidiale e rapido “Cyclon B” che in seguito fu usato in grande stile ad Auschwitz. A Treblinka si ricorreva agli scarichi dei motori diesel. L’agonia era più lenta e straziante, poteva durare dai venti ai quaranta minuti. Le vittime venivano ammassate nelle camere a gas, uomini donne e bambini tutti insieme, così strette da non poter cadere a terra dopo la morte. I cadaveri venivano poi gettati in una fossa vicina, dove venivano subito bruciati come immondizia da incenerire.

og__id3041_w800_t1358847344__1xNell’autunno del ‘43 il campo cessò di funzionare. Il Ghetto di Varsavia era ormai scomparso. Era stato raso al suolo in maggio, dopo la fine della rivolta eroica degli ultimi ebrei: rivolta che, a tutti gli effetti, fu il primo atto della Resistenza dei popoli europei contro il nazifascismo. L’area su cui sorgeva il campo di sterminio, con tutte le sue baracche e le sue installazioni, fu totalmente “ripulita” dai nazisti, in modo tale da non lasciare la minima traccia della sua esistenza. La banchina di cemento e il tratto di binario che oggi si possono vedere furono ricostruiti più tardi, dopo la fine della guerra, per offrire una traccia tangibile alla memoria.

Porterò nel cuore, finché avrò vita, il silenzio abissale di Treblinka. La pace irreale di un bosco polacco, dove tutta l’atrocità e l’insensatezza del destino umano si concentrarono e si scatenarono, come in un gelido uragano, durante quei tredici mesi di guerra. E di una cosa son certo: la potenza del Male non si è esaurita allora. Anzi, il mostro si agita, oscenamente sbraita, e cerca nuovamente di uscire dalla sua tana. Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese che morì ad Auschwitz nell’autunno del ‘43, scrisse nel suo Diario che: «Ogni atomo di odio che aggiungiamo nel mondo lo rende ancora più inospitale» 3. Etty aveva capito che il male non è fuori di noi, ma dentro ciascuno di noi. L’errore più grave – come insegnava Gesù – consiste proprio nel proiettare il male solo fuori di noi: in questo modo si creano i mostri, che poi ci sentiamo autorizzati a distruggere per “liberare il mondo dal male”. Così fecero i nazisti con gli ebrei. L’essenza del loro fanatismo era tutta lì: nell’intolleranza verso ogni forma di diversità.

9788807886102_0_0_536_0_75Ed è questa la lezione da non dimenticare. La stessa che, con una lieve variante di angolo visuale, sosteneva Amos Oz nel suo breve saggio-conferenza Contro il fanatismo: «Ritengo che l’essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare tuo fratello, piuttosto che lasciarli vivere. Il fanatico è la creatura più disinteressata che ci sia. Il fanatico è un grande altruista. Il fanatico è più interessato a te che a se stesso, di solito. Vuole salvarti l’anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, dall’errore, dal fumo, dalla tua fede o dalla tua incredulità, vuole migliorare le tue abitudini alimentari, vuole impedirti di bere o di votare nel modo sbagliato…»4. E se comprende che non può “salvarti” ti cancella, ti deporta, ti tratta come immondizia da incenerire 5.

Anche per questo, credo, è sempre utile e salvifico ripetere nella propria mente: Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla… Perché se davvero non manco di nulla, allora non ho nemmeno il bisogno di raddrizzare, di convertire, o di liquidare qualcuno. Nel silenzio abissale di Treblinka risuona cristallino il senso profondo di quelle parole. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Samuel Willenberg è morto nel 2016 in Israele. Stranamente, il suo importante libro sulla rivolta di Treblinka non ha ancora avuto un’edizione italiana. Approfitto però di questa nota per segnalare che un altro straordinario documento sulla Shoah è uscito finalmente in italiano: si tratta di Crematorio freddo. Cronache dalla terra di Auschwitz, di Jozsef Debreczeni, pubblicato da Giunti-Bompiani nel gennaio di quest’anno.
[2] Salmo 22 nella numerazione greca dei LXX e nella Vulgata latina (ma la Bibbia CEI del 2008 ha ripreso l’originale numerazione ebraica).
[3] Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Milano 1985: 212.
[4] Amos Oz, Contro il fanatismo, Milano 2015: 45-46.
[5] Recentemente, negli Usa, la Segretaria della Sicurezza interna del governo Trump, Kristi Noem, ha definito “sacchi di immondizia” gli immigrati clandestini, durante un’operazione di rastrellamento nel Bronx.

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Massimo Jevolella. Si laurea in filosofia nel 1974 con Remo Cantoni con una tesi sull’utopia surrealista. Fin dal 1979 si dedica allo studio del pensiero islamico ed ebraico medievale. Negli anni ‘80 collabora con la rivista “Studi cattolici” e con l’Istituto di Storia della Filosofia dell’Università Statale di Milano. Pubblica articoli sulla rivista “Acme” della Facoltà, traduce testi filosofici dall’arabo (come il Libro dei cerchi di Ibn As-Sid al-Batalyawsi, Arché Editore), ed entra in contatto con i professori Giuseppe Sermoneta e Shlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme (dove nel 1985 partecipa a un convegno internazionale su Maimonide, con uno studio sulle fonti arabe della profetologia nella Guida dei perplessi). Inizia lo studio dell’ebraico biblico con il Rabbino capo di Milano Giuseppe Laras. Negli anni ‘90 dirige la collana di libri “Spazio interiore” della Red di Como. Nel 1991 pubblica il libro di saggistica-narrativa I sogni della storia (Mondadori Oscar). Seguono i saggi: Non nominare il nome di Allah invano (Boroli 2004, con postfazione di Franco Cardini); Le radici islamiche dell’Europa (Boroli 2005); Saladino eroe dell’Islàm (Boroli 2006); Rawà, il racconto che disseta l’anima (Red 2008); la traduzione dall’arabo e curatela del Collare della colomba di Ibn Hazm (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2010); l’antologia coranica Corano, libro di pace (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2013). La traduzione integrale in prosa e curatela del Romanzo della Rosa di J. De Meun e G. De Lorris (Feltrinelli UE 2016). Torna sul tema dell’utopia con uno studio sulla “città ideale” dei filosofi arabi, pubblicato nel 2012 sui “Quaderni di studi Indo-Mediterranei”. Intensa la sua attività di conferenziere, fin dai primi anni ‘80 e in molte città d’Italia, indirizzatasi sempre più sul versante del dialogo interreligioso e interculturale. Di recente, ha fatto dono degli oltre 700 volumi della sua biblioteca di cultura islamica ed ebraica alla Biblioteca del Seminario Vescovile di Mazara del Vallo (Fondo Jevolella).

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