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Trump e la Riviera di Gaza: società vischiosa e sguardo turistico

img_bb20d08232f793a667c41dda3631e089_1280_0_0_0_auto-1di Marxiano Melotti 

Il secondo mandato di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti ha preso avvio in modo tumultuoso, con un susseguirsi di ordini esecutivi e dichiarazioni – più o meno ufficiali, ma quasi sempre sorprendenti nei toni e nei contenuti – che lasciano intravedere un’imminente trasformazione degli equilibri internazionali molto più profonda e veloce di quanto gli esperti della politica internazionale si attendessero. Ma, in realtà, Trump non fa che consolidare un processo di riorganizzazione del sistema sociale, politico e culturale già avviato ben prima del suo precedente mandato, di cui la sua attuale presidenza è solo un’espressione, che lo conferma e lo stabilizza.

La sua rielezione mostra quanto la paura e la fragilità del sistema (non solo negli Stati Uniti) abbiano preso piede, inducendo milioni di elettori a sostenere politiche isolazioniste che, nelle relazioni internazionali, assumono un aspetto paradossalmente neo-coloniale e neo-imperialista. I cosiddetti sovranismi europei, che di fatto esprimono posizioni neo-nazionalistiche da derubricare a semplici nazionalismi, rappresentano solo la versione continentale di un processo più ampio di riorganizzazione (e forse di parziale superamento) di quella forma di globalizzazione che ci ha accompagnato dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per l’Europa questa riorganizzazione va di pari passo con l’indebolimento delle sue economie, accompagnato da un impoverimento crescente della popolazione.

In tale contesto, va rimarcato lo smarrimento delle classi medie, impreparate all’inversione di quel processo di crescita che aveva caratterizzato il continente dal dopoguerra e che – soprattutto dai tardi anni ’80, con la fine della Guerra fredda e l’affermazione della post-modernità, come la chiamano i sociologi, pur con mille puntualizzazioni – aveva portato a credere nella globalizzazione e nel neoliberismo del capitalismo finanziario, in una sorta di inebriante ottimismo. L’11 Settembre, la crisi finanziaria iniziata nel 2008, il lungo periodo degli attacchi terroristici islamisti in Europa e la perdurante “crisi migratoria” possono essere letti come “segni” di questo cambiamento e di superamento della post-modernità, con un ingresso, ancora sussultorio e confuso, in un contesto socioeconomico e socioculturale post post-moderno, in cui, per lo meno in questa fase, la liquidità ha lasciato spazio alla vischiosità [1].

Il mondo di Trump e delle sue dichiarazioni, che si muovono tra farsa clownesca e drammatica realtà, conferma il graduale emergere di un sistema vischioso – non più liquido, ma non ancora solido – che recupera istituti e fenomeni pre-postmoderni, come lo Stato-nazione, il nazionalismo, il confine e la difesa dei confini, l’incontrollata supremazia del mercato, il colonialismo e la risoluzione delle controversie internazionali con la minaccia della forza, interventi militari e ritorsioni economiche. L’irrisione, la deminutio o addirittura l’abbandono da parte di Trump di contenitori e regolatori istituzionali internazionali e sovranazionali, come gli Accordi di Parigi sul clima, la Corte penale internazionale l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le Nazioni Uniti e la stessa Nato, testimoniano questo percorso di destrutturazione dell’architettura complessa e interrelata della globalizzazione e della società dei flussi e delle reti che da essa e su di essa aveva preso forma.

Un aspetto significativo di questo processo è il contributo da lui dato al consolidamento della cosiddetta “post-verità”, anche con dichiarazioni che costituiscono un completo stravolgimento dei fatti, come nel caso delle sue recenti affermazioni sull’Ucraina. La post-verità ha ormai assunto, proprio grazie all’importanza e alla visibilità del ruolo da lui ricoperto, il carattere di un fenomeno strutturale della cultura contemporanea [2]. La post-verità funge infatti da efficace strumento di transizione, che si colloca di volta in volta tra realtà e finzione, realtà e menzogna, realtà e ignoranza. In questo modo opera, da un lato, da ponte, semplice e da tutti percorribile, tra post-modernità e post-postmodernità; dall’altro, da spazio aperto di negoziazione identitaria, in cui in cui si possono incontrare, scontrare e ibridare paure e aspirazioni di ricchi e di poveri (o, per usare un’espressione baumaniana, di mondi high-up e low-down con «turisti» e «vagabondi») [3].

Uno degli elementi che più contribuisce a questa transizione tra sistemi culturali è il processo di de-intellettualizzazione della società, con crescente contrazione o perdita, da un lato di conoscenza e di coscienza storica e dall’altro di capacità di gestire la complessità. Semplificazione e banalizzazione dei contenuti, in questa prospettiva, riflettono e implementano una trasformazione della relazione con la storia, il patrimonio culturale e, più in generale, la “verità”. Fenomeni come la cancel culture, la war culture e la woke culture si alimentano e si sviluppano proprio in questo contesto, agendo da attivatori del nuovo sistema culturale in cui stiamo entrando (o, probabilmente, come indica la rielezione di Trump, siamo già entrati) [4].

La liquidità valoriale e cognitiva, che per un trentennio (a partire dalla metà degli anni ’80) ha caratterizzato la fase più matura e creativa della cultura postmoderna, transita con facilità in questo nuovo sistema, meno liquido e sempre più solido. Un sistema che prende gradualmente forma con idee, modelli, stereotipi, soluzioni che vengono da un passato pre-postmoderno, riproponendo elementi che avevano caratterizzato l’età della formazione degli Stati nazionali e dei nazionalismi (gli ultimi decenni dell’800 e i primi decenni del ’900) o, tutt’al più, certe fasi storiche “solide” del ’900 (come, per esempio, in America, quella del maccartismo degli anni ’50). La post-verità insomma rappresenta la versione aggiornata, più popolare e partecipata, di quel processo di “invenzione della tradizione” che ha contribuito alla costruzione degli Stati e delle identità nazionali [5].

La conferenza-stampa con la proposta della Riviera di Gaza (fonte ANSA-SIR)

La conferenza-stampa con la proposta della Riviera di Gaza (fonte ANSA-SIR)

Le dichiarazioni e, ormai sempre più spesso, le decisioni di Trump costituiscono la più vivida testimonianza della transizione in corso. Il consolidamento della post-verità diventa, a tutti gli effetti, realtà e, come tale, si trasforma in storia, incidendo sulla società, la politica e i sistemi culturali da cui ha preso forma. Tra le numerose dichiarazioni da lui rilasciate nelle prime settimane del suo nuovo mandato, va segnalata quella sulla Riviera di Gaza [6]. In sintesi, Trump ha proposto un’inedita soluzione del conflitto che oppone da decenni Israele e Palestina e costituisce una delle maggiori cause di instabilità del Medio Oriente [7]. Secondo lui, la striscia di Gaza, quasi completamente distrutta dai bombardamenti israeliani (dopo gli attacchi di Hamas contro cittadini israeliani il 7 ottobre 2023), dovrebbe essere svuotata degli abitanti, quindi completamente spianata e infine ricostruita, per diventare (non è chiaro se con o senza gli abitanti originari) la «Riviera del Medio Oriente». Una proposta che mostra, come ha incisivamente detto Lucio Caracciolo, direttore di un’importante rivista di geopolitica, una «visione alberghiera della politica internazionale» [8].  

Il contenuto è emblematico. Mostra non solo l’approccio di Trump alla storia e alla cultura e, più in generale, la sua idea di comunità e di società, ma anche la forza trasformativa e destabilizzante del suo pensiero, potenzialmente in grado di modificare equilibri geopolitici, ignorando o annullando consuetudini diplomatiche, regole del diritto internazionale e decenni di dibattiti, trattative, documenti e decisioni (comprese le condanne delle Nazioni Unite).

L’aspetto che più mi interessa non è però quello della politica internazionale, ma la matrice culturale che ne sta alla base e il tipo di immaginario “turistico” e l’idea di turismo che ne derivano. Il futuro di Gaza, stando alle parole del presidente americano, sarebbe quello di trasformarsi (o, per essere più precisi, di essere trasformata) nella Riviera del Medio Oriente, diventando, da «simbolo di morte e distruzione», un luogo «dove la gente del mondo (people of the world) potrebbe andare a vivere».

Lo sviluppo immobiliare e, indirettamente, turistico viene presentato come uno strumento salvifico, in grado di modificare positivamente la natura di un territorio altrimenti inabitabile. Gaza infatti, secondo Trump, sarebbe diventata un «luogo infernale» e «uno dei luoghi più miserevoli sulla faccia della terra». Da un certo punto di vista, è un’affermazione indiscutibile: i bombardamenti hanno quasi completamente raso al suolo abitazioni, scuole, ospedali e ogni altro tipo d’infrastruttura, cancellando quindi quegli elementi, frutto di uno sviluppo protratto nel tempo, che danno vita a una città, ne costituiscono la stratificazione storica e permettono a una comunità di vivere, lavorare e studiare, per non parlare di tutte le altre attività proprie di un contesto comunitario. In alcune aree di Gaza gli unici elementi che fanno pensare all’esistenza di un abitato sono i varchi tra le macerie, aperti, con fini di controllo militare, dai bulldozer, probabilmente seguendo tracciati preesistenti. Questi percorsi in mezzo alle macerie informi delle abitazioni sono, a tutti gli effetti, strade che restituiscono agli spazi che attraversano lo statuto ontologico di città: sembrano infatti riattribuire una logica di pianificazione e controllo razionale del territorio a ciò che altrimenti sarebbe uno spazio informe e senza senso. In un’altra prospettiva, queste aree bombardate sembrano (e sono di fatto) siti archeologici, che acquisiscono forma e senso proprio dalla distruzione. 

Le rovine di Gaza (fonte ISPI)

Le rovine di Gaza (fonte ISPI)

La cultura europea, più sensibile al concetto di evoluzione e stratificazione storica e di solito orgogliosa del proprio passato, tende ad avere un orientamento conservativo: le rovine possono essere oggetto di sguardo romantico, quale testimonianza di un passato illustre e monito del destino che attende ogni uomo e ogni civiltà; oppure possono essere pensate come spazi da salvare, restaurare, ricostruire o, ad ogni modo, riattivare. La città, sia essa pólis, borgo fortificato, comune medievale, città mercantile o metropoli, costituisce un elemento fondante dell’esperienza storica, culturale e sociale del continente e del suo immaginario. I dibattiti che accompagnano gli interventi di restauro o le ricostruzioni di edifici storici e monumenti (si pensi alla Basilica di Assisi, alla chiesa di San Benedetto a Norcia, al Ponte di Mostar o a Notre-Dame a Parigi), così come quelli legati alle new towns che sorgono per accogliere temporaneamente le popolazioni sfollate, mostrano quanto il tema sia sentito e complesso. Certo, nella lunga storia europea questa attenzione al passato non è stata costante e a lungo il “nuovo” ha sostituito il “vecchio”. Tuttavia, anche grazie al consolidamento degli Stati nazionali e al bisogno di costruire delle identità nazionali, si è andato consolidando un rispetto verso il passato, da cui prende forma quello che oggi indichiamo come “patrimonio culturale”, suscettibile anche di uso turistico.

Nella logica trumpiana, che riflette un approccio decisamente più statunitense alla storia e all’idea di città, ciò che cade in rovina può essere spazzato via e sostituito da qualcosa di più utile e redditizio. Tanto più quando, come in questo caso, come questo, in cui si tratta di spazzar via la storia di altri popoli o, per lo meno (per non enfatizzare oltre misura il valore storico di abitati prevalentemente recenti, costruiti spesso disordinatamente), la memoria e l’identità di altri popoli e l’attaccamento che questi possono avere, a torto o a ragione, per il loro passato. Ciò che per un americano o, in generale, per uno straniero può essere, secondo l’espressione di Trump, un hellhole (un buco infernale), per un abitante di Gaza è invece casa o, in una prospettiva più politica, patria. Dalle parole del presidente trapela un profondo disprezzo per la cultura dei popoli poveri del Sud del mondo, che, in molti casi, sono tali anche (se pur non solo) per pregresse responsabilità dei Paesi del Nord del mondo. Non va dimenticata in proposito la definizione di shithole countries (Paesi di merda), data da Trump, durante il suo primo mandato, a certi Paesi da cui provengono gli immigrati [9].

Per Trump «l’unica ragione per cui i Palestinesi vogliono tornare a casa è che non hanno alternative». L’attaccamento alla casa e alla patria sarebbe insomma un sentimento che distingue i «patrioti» che vogliono «far l’America grande di nuovo», secondo il suo motto, e non può essere riconosciuto a chi è ridotto a vivere in campi profughi o tra le macerie. Per la verità, la posizione di Trump sulla dislocazione, temporanea o definitiva, dei palestinesi non è chiara. Il ritorno in patria non è infatti escluso. La trasformazione di Gaza in una Riviera del Medio Oriente, secondo lui, dovrebbe infatti «dar vita a uno sviluppo economico in grado di creare un numero illimitato di posti di lavoro e di abitazioni per la gente dell’area». Se ne può dedurre che anche i palestinesi potrebbero trarre beneficio dallo sviluppo immobiliare e turistico del territorio, se l’espressione people of the area li comprende.

D’altra parte, nel discorso di Trump, un po’ confuso, la parola people riappare in un altro passaggio, in cui dice che la nuova Riviera attirerà «gente del mondo» (people of the world). S’intravede quindi un’interessante dicotomia, che richiama la già citata distinzione di Bauman di «turisti» e «vagabondi», in un mondo in cui la globalizzazione consente ai più fortunati di viaggiare liberamente per lavoro o per svago, a produrre o a esibire la propria ricchezza, e costringe i meno fortunati a muoversi per sopravvivere, fuggendo da miseria, violenze, guerre e catastrofi. Il world di Trump è proprio ciò che resta della globalizzazione (che lui stesso sta contribuendo a smantellare), probabilmente alimentata dalle élites di operatori e di consumatori in grado di viaggiare, per affari e per divertirsi.

I palestinesi potrebbero quindi rientrare a Gaza come prestatori di lavoro a basso costo, per assicurare il funzionamento di aree turistiche e residenziali. La Riviera, in determinati contesti, implica infatti la discriminazione e può dar vita a gated communities, sia per i turisti e i felici proprietari che vivono sul mare, sia per gli umili lavoratori che vivono all’interno [10]. È ciò che accade, per esempio, nella ricca e «vibrante» Dubai, come la definirebbe Trump, dove convivono due città distinte e complementari.

La Riviera non è insomma un lodevole progetto di sviluppo locale, ma un ulteriore tassello del processo che vede la crescita delle disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo e un accrescimento della ricchezza attraverso lo sfruttamento di aree povere e fragili del pianeta che sono tali anche (ma, ripeto, non solo) per decenni di politiche squilibranti. La novità è che questo Sud non comprende alcuni ricchi Stati arabi del Golfo, che, soprattutto grazie al petrolio, hanno saputo inserirsi da protagonisti nella competizione globale e nei meccanismi che regolano la globalizzazione. Dubai, Abu Dhabi, Doha, Gedda, con i loro mirabolanti spazi urbani e le loro onnivore economie, mostrano i risultati di questa trasformazione. Il turismo costituisce in tutti questi Stati un elemento chiave del loro sviluppo e del loro successo.

Trump al Trump International Golf Club di Dubai (fonte Worldwide Golf)

Trump al Trump International Golf Club di Dubai (fonte Worldwide Golf)

La logica della “Riviera” ha portato alla costruzione di eleganti lungomari con grattacieli e resort di lusso o, come a Palm Island, a Dubai, addirittura alla creazione di isole artificiali con ville, alberghi di lusso e parchi a tema. Sviluppo immobiliare e sviluppo turistico sono due aspetti dello stesso processo. Non a caso il Trump che immagina la resortizzazione di Gaza è lo stesso che una decina di anni fa ha portato a Dubai il Trump International Golf Club, dove, secondo il suo sito web, è possibile «enjoy an unforgettable membership experience», in un luogo che «features the finest amenities, such as a luxurious infinity swimming pool, an array of dining experiences ranging from upscale and sophisticated to laid back and casual» [11]. I people of the world, che Trump immagina pronti ad accorrere nella nuova Gaza, appartengono probabilmente all’«exclusive community» cui si rivolge quel sito web. Chiaramente, si tratta di marketing e i frequentatori del Golf Club non costituiscono necessariamente una “comunità esclusiva”, poiché è sufficiente che pensino di esserlo e abbiano il denaro necessario ad assumerne, anche solo temporaneamente, l’identità. 

D’altra parte, la visione che Trump ha del mondo si basa sulla sua unica vera esperienza fuori della politica: quella di immobiliarista. L’approccio liquido, post-moderno, post-statuale e iconoclasta lo porta a mescolare quella visione con l’azione politica; l’approccio post postmoderno (o pre post-moderno) lo porta invece a rivendicare la legittimità di questa ibridazione e a imporla con la forza di cui dispone.

La resortizzazione per Trump è anche qualcosa di più. Non va dimenticato che, lasciata Washington al termine del suo primo mandato presidenziale, ha spostato la sua residenza da New York a Palm Beach, in Florida, scegliendo di vivere in uno dei suoi club-resort: Mar-a-Lago. Si tratta di una villa degli anni ’20 del secolo scorso, riconosciuta come patrimonio nazionale, diventata residenza invernale dei presidenti statunitensi e infine acquistata da Trump negli anni ’80, ben prima di diventare lui stesso presidente. Mar-a-Lago – strano ibrido tra residenza presidenziale, abitazione privata e resort turistico, così come tra edificio con funzioni pubbliche e funzioni private – ben incorpora la commistione trumpiana tra azione pubblica e interesse privato e tra politica internazionale e mentalità imprenditoriale [12].  

Mar-a-Lago, la residenza-resort di Trump a Palm Beach (fonte La Repubblica)

Mar-a-Lago, la residenza-resort di Trump a Palm Beach (fonte La Repubblica)

La residenza di Mar-a-Lago ha per Trump un significato speciale tanto che, a poche settimane dall’inizio del nuovo mandato, ha proposto di trasformare l’iconico Giardino delle Rose della Casa Bianca in un patio simile a quello che ha a Mar-a-lago. La resortizzazione trumpiana del mondo avanza anche alla Casa Bianca, dove assume un profondo significato politico e simbolico di privatizzazione delle istituzioni [13]. 

Allo stesso modo, lo stile eclettico, spagnoleggiante e moresco, di questa residenza e il suo nome dal suono latino suggeriscono un’idea orientalistica del tempo libero e del turismo che, dalle élites dell’inizio del secolo scorso, è passata a quelle attuali. Si tratta di un gusto che impronta la tematizzazione turistica contemporanea e che, come mostrano i resort orientaleggianti di Dubai (come, ad esempio, il complesso del Madinat Jumeirah), da un lato si è esteso al turismo di massa e dall’altro ha influenzato lo sviluppo architettonico di molte aree, Medio Oriente compreso. D’altra parte, a non molti chilometri da Gaza, si trova Tel Aviv, che, tra mare, musei ed eventi, ha saputo trasformarsi in una vera Riviera, per usare l’espressione di Trump:, divenendo una delle mete turistiche più vivaci del Mediterraneo (e, tra l’altro, una delle principali destinazioni del turismo gay internazionale) [14].

La Middle East Riviera di Trump, insomma, già esiste. A Gaza si tratterebbe quindi di riprodurre uno schema consolidato, per quanto il contesto di partenza sia oggettivamente più difficile. Il risultato è sicuramente distopico, nella misura in cui altera (o annulla) una realtà culturale e sociale per dar vita a un complesso urbano, architettonico e sociale allogeno. Ma è una distopia che in molti Stati del Medio Oriente (e non solo) è una realtà ormai consolidata, che riveste, paradossalmente, anche un aspetto identitario. Accettazione dello sguardo turistico e implementazione di uno sguardo allogeno e auto-folclorizzazione sono fenomeni che accompagnano lo sviluppo turistico in molte parti del pianeta (Italia compresa). 

In ogni caso non va dimenticato che, al di là dei progetti di Trump, la Palestina ha già sperimentato che cosa significhi uno sviluppo turistico eterodiretto [15]. Significativo è il caso dell’area del Mar Morto, dove si trovano alcuni beach resort palestinesi. Osservatori stranieri anni fa denunciavano una serie di abusi nella gestione del turismo. Israele, pur non avendo la sovranità sull’area, faceva pagare una tassa d’ingresso ai turisti che vi si recavano e traeva dai territori palestinesi i celebri fanghi curativi del Mar Morto, ricercati dall’industria del benessere di tutto il mondo. La Palestina può inoltre vantare numerosi siti culturali, archeologici e religiosi di interesse turistico, che però, come è stato notato, tendono a scomparire dalle mappe israeliane o, come nel caso dell’Herodion (il palazzo di Erode il Grande), vengono presentati come israeliani. I tour operator palestinesi, ben prima dell’ultima guerra, hanno denunciato il fatto di non poter lavorare in Israele o di poterlo fare in modo limitato [16]. Un aspetto peculiare del turismo in Palestina è legato alla situazione di emergenzialità e conflitto in cui il Paese versava già prima dell’ultima guerra, che ha creato uno strano turismo, che mescola impegno sociale e voyeurismo.

Gaza, opera di  Barsky

Gaza, opera di Bansky

L’artista britannico Bansky ha realizzato a Gaza e in Cisgiordania una serie di murales (alcuni direttamente sul “muro di separazione” eretto da Israele lungo il confine con la Cisgiordania) intesi a far riflettere sui paradossi della guerra. A Betlemme è stato aperto, proprio davanti al muro, un boutique hotel, che negli anni ha attirato decine di migliaia di visitatori [17]. 

Quando Trump fa riferimento agli abitanti del Medio Oriente come great people e definisce quelle terre so vibrant, offre una chiave di lettura turistica del Medio Oriente (compressa, stereotipata e banalizzata), in cui vengono meno differenze e peculiarità regionali, locali e individuali. Secondo i meccanismi della cultura social, la complessità si riduce a una manciata di aggettivi (che per enfatizzare, Trump, nell’incapacità di trovare sinonimi, nei suoi post scrive in maiuscolo).

Il progetto trumpiano a Gaza – di là della sua realizzabilità – tende, inoltre, a confondere proprietà e sovranità. In quel lembo di terra gli Stati Uniti dovrebbero avere una «long-term ownership position» e, grazie a tale «proprietà», avviarne lo «sviluppo», creando qualcosa di «magnifico», dato «l’incredibile potenziale» della Striscia. Il linguaggio della geopolitica internazionale si ibrida con quello dell’immobiliarista. La sovranità – a lungo elemento centrale della contesa su quelle terre – viene soppiantata dalla proprietà, in una logica imprenditoriale fondata sulla disponibilità di risorse economiche e sulla capacità di comprare e di operare liberamente grazie a quel titolo. Il denaro insomma prevale sullo Stato. D’altra parte, lo Stato può prevalere su altri Stati grazie al denaro e al suo maggiore potere economico e militare. In questo riassetto delle relazioni internazionali, basato su un pragmatismo imprenditoriale e immobiliaristico, emerge la vischiosità contemporanea, dove l’incontrollato capitalismo liberista, che con i suoi eccessi ha accompagnato l’apogeo della globalizzazione e della postmodernità, ritrova le sue basi pre-postmoderne, radicate nel colonialismo.

Questo approccio, applicato alle relazioni internazionali, può apparire sorprendente, modificando pratiche e regole consolidate. Ma non è completamente nuovo. In ampie parti del mondo, lo sviluppo immobiliare (e turistico) anche di città in Stati apparentemente forti e sovrani segue infatti lo stesso modello. Il caso di Milano è significativo: l’area di Porta Nuova, simbolo, con il suo grattacielo che ospita l’Unicredit, della rinascita della città e della sua nuova affermazione come “città che non si ferma”, “unica città italiana davvero europea”, “unica città con indici di crescita positivi”, è in realtà proprietà del fondo sovrano del Qatar [18]. 

Il progetto di Trump resterà probabilmente un’idea. Ma se si dovesse realizzare, costituirebbe un’ulteriore conferma del legame profondo tra turismo, potere e violenza, che l’industria del divertimento e l’immaginario turistico tendono a ignorare o negare. Naturalmente, possiamo sempre auspicare che il turismo si accompagni a uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale e culturale, basato su pratiche partecipative e rispettoso dell’identità dei luoghi e delle comunità che li abitano. Purtroppo, la storia ci insegna che ciò accade di rado. L’importante è essere consapevoli di quanto avviene e del mondo verso cui stiamo andando. Certo, il consenso di cui gode Trump e l’entusiasmo con cui vengono accolte le sue dichiarazioni fanno pensare che questo nuovo mondo post-postmoderno possa essere tutto fuorché un resort. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Note

[1] Si veda M. Melotti, The Carnival of Fears: the 2016 Violence in Cologne, in B.M. Pirani e T.S. Smith (a cura di), Embodiment and Cultural Differences, Cambridge Scholars, Newcastle 2016: 132-146 e Carnevalizzazione e società postmoderna. Maschere, linguaggi, paure, Progedit, Bari, 2019. In una diversa prospettiva, che critica la categoria della modernità liquida di Zygmunt Bauman, ma non delinea un superamento dalla postmodernità, si veda C. Bodoni, Fine del mondo liquido. Superare la modernità e vivere nell’interregno, Il Saggiatore, Milano 2017.

[2] Sulla post-verità nelle sue relazioni con la democrazia populista e il populismo epistemico, si veda S. Newman, M. Conrad (a cura di), Post-Truth Populism. A New Political Paradigm, Cham, Palgrave Macmillan, 2024. Interessante è anche il saggio del filosofo K. Wimbler, Trump and a Post-Truth World. Politics, Polarization and Vision for Transcending the Chaos, Shambhala, Boulder, 2024, che rintraccia nella post-verità uno strumento di rinnovamento dell’umanità e di redenzione da una post-modernità elitista e politically correct.

[3] Il riferimento è a Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences, Polity Press, Cambridge, 1998.

[4] Si veda, tra gli altri, M. Melotti, Cancel culture, patrimonio culturale e sguardo turistico, in «Dialoghi Mediterranei», 70, 2024. Disponibile al link: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/cancel-culture-patrimonio-culturale-e-sguardo-turistico/.

[5] E. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge, 1983.

[6] Nella conferenza-stampa tenuta alla Casa Bianca, assieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il 5 febbraio 2025.

[7] Si veda, tra gli altri, U. Melotti, Su Gaza e dintorni, in «Dialoghi Mediterranei», 71, 2024. Disponibile al link: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/su-gaza-e-dintorni/.

[8] Si veda il suo intervento nella puntata del 6 febbraio 2025 del talk show televisivo Otto e mezzo su La 7.

[9] 11 gennaio 2018. Si veda I.X. Kendi, The Day Shithole Entered the Presidential Lexicon. In insulting certain countries, Trump revealed the hierarchy he imposes on the world, in «The Atlantic», 13 gennaio 2019..

[10] Il resort stesso, soprattutto quando è collocato in contesti poveri o fragili, marca una discontinuità spaziale, distinguendo lo spazio turistico (tendenzialmente caratterizzato da forme di staged authenticity) da quello della comunità locale (dove la realtà si esplica in tutta la sua drammatica autenticità, che di solito i turisti preferiscono ignorare o, tutt’al più, reinterpretare in chiave romantica e orientalistica). Come ricorda C. Borba, con riferimento ai Caraibi, a Cuba e al Brasile, il resort «può essere visto come un’aggressione alla comunità locale, che non potrà mai fruirne». Il resort tende a essere un non-luogo, dal momento che, pur essendo di solito inserito in aree naturali, è «artificializzato e adattato all’ambiente cui il turista è già abituato» (Turismo em resorts, Editora da Universidade de Caxias do Sul, Caxias do Sul, 2005: 34-35).

[11] Si veda il sito web del Golf Club: https://www.trumpgolfdubai.com/.

[12] L’opulenza di Mar-a-Lago va ricondotta allo stile di vita delle élites americane di fine ’800 e inizio ’900, che si costruivano dimore sontuose che, con un interessante meccanismo di tematizzazione, imitavano i palazzi dell’aristocrazia europea. Si pensi, ad esempio, alle mansions di Newport in Rhode Island, tra cui spicca la Marble House dei Vanderbilt, ora museo. Trump quindi si ricollega a questa tradizione di palazzi che ostentano la ricchezza regale dei loro proprietari. Si veda M. Melotti, Beyond Venice. Heritage and Tourism in the New Global World, in E. Marra e M. Melotti (a cura di), Mobilities and Hospitable cities, Cambridge Scholars, Newcastle, 2018: 101-140. Per uno sguardo sulla ricchezza di questa residenza e dei suoi interni e sullo stile regale della famiglia Trump, si veda L. Walstow, Inside Donald Trump’s Palm Beach house Mar-a-Lago, in «House & Garden», 20 gennaio 2021.

[13] Su questo punto si veda J. Swan e M. Haberman, Seeking a Mar-a-Lago Vibe, Trump Considers Paving Over Grass in Rose Garden, in «New York Times», 14 febbraio 2025.

[14] Il sito web Tourist Israel, nella pagina Why Tel Avis is the Ultimate LGBTQ Travel Destination, presenta così la città: «Tel Aviv is known internationally as one of the most gay-friendly cities in the world, welcoming gay tourists with open arms, and also offering a safe refuge for those from the LGBTQ community of surrounding countries in the region». A pochi chilometri dalle aree bombardate dall’esercito israeliano si sviluppa una destinazione turistica che si presenta come un rifugio per quanti subiscono violenze e discriminazioni. Ancora una volta, insomma, si ripresenta la dicotomia baumaniana.

[15] Sul turismo in Palestina si vedano gli studi di R. K. Isaac: Tourism in Palestine as a counter-discourse, in «This week in Palestine», 304: 52-56, 2023; Pilgrimage tourism in Palestine: the backbone of the Palestinian economy, in R. Progano, J. Cheer, X. Santos (a cura di), Host communities and pilgrimage tourism Asia and beyond, Springer, Singapore, 2023: 127-142.

[16] J. Purkiss, Tourism as a tool to erase Palestinian identity, in «Middle East Monitor», 22 marzo 2014. Secondo l’autrice, che scriveva prima dell’ultima guerra, vi sarebbe una «sistematica obliterazione, giudaizzazione, annessione e confisca dei siti palestinesi e un tentativo di disconnettere gli abitanti della Palestina dalla loro terra e dalla loro storia». Sullo sfruttamento da parte israeliana del turismo in Palestina (e sulla complicità dell’industria turistica internazionale) si veda: R. K. Isaac, Occupation, colonisation, and apartheid tourism in Israeli settlements in occupied Palestine, in «Tourism Recreation Research», 2022: 1-15.

[17] Su Bansky a Gaza e in Cisgiordania si veda: M. Melotti, Cultural Heritage and Childhood in Times of Conflict: a sociological perspective, in L. Guercio (a cura di), Children in Armed Conflicts and Cultural Heritage. Protecting Cultural Heritage as a Key Element in Preserving Children’s Rights in Armed Conficts, Gambini, Roma, 2024 : 27-59. Sull’hotel di Basky si veda: I. Fisher, Banksy Hotel in the West Bank: Small, but Plenty of Wall Space, in «New York Times», 16 aprile 2017.

[18] Per un’analisi critica dello sviluppo di Milano, si veda L. Tozzi, L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche pubbliche, Cronopio, Napoli 2023. 

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Marxiano Melotti, si è laureato con lode in lettere classiche all’Università di Milano e ha conseguito un dottorato in Antropologia del mondo antico all’Università di Siena e una specializzazione in Antropologia applicata all’Università di Milano Bicocca. Abilitato in Sociologia dei processi culturali e Sociologia del territorio, ha insegnato all’Università di Milano Bicocca, all’Istituto di Scienze Umane di Firenze (della cui Fondazione è stato anche segretario generale) ed è ora professore associato all’Università Niccolò Cusano di Roma. Fra le sue pubblicazioni, Turismo archeologico (Bruno Mondadori, Milano, 2008); Carnevalizzazione e società postmoderna (Progedit, Bari, 2019); e Le Sirene. Incanto e seduzione (Rizzoli Corriere della Sera, Milano 2020).

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