di Roberto Sottile
Nel 2003, a quarant’anni dalla pubblicazione della Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, il Centro di studi filologici e linguistici siciliani volle organizzare a Palermo un convegno al quale parteciparono diversi linguisti chiamati a fare il punto sulla nuova situazione sociolinguistica che nel frattempo si era determinata in Italia in virtù degli importanti mutamenti che avevano avuto luogo nei decenni successivi all’uscita del volume. Che i “festeggiamenti” dei primi quarant’anni della Storia linguistica si svolgessero nel capoluogo siciliano non fu casuale. Alla sua Storia linguistica dell’Italia unita si deve, in fondo, sebbene indirettamente e, certo, implicitamente, l’ingresso di un giovanissimo De Mauro, poco più che trentenne, nel mondo accademico palermitano come egli stesso ci racconta nelle gustosissime pagine intitolate Il cassetto di Rizzitano: in quegli anni ’60 era preside della Facoltà di Lettere Giuseppe Cocchiara, amico e compaesano di Antonino Pagliaro, l’altro “mistrettese illustre” di cui De Mauro era allievo.
Cocchiara, ci racconta De Mauro, «aveva pazientemente ascoltato una dopo l’altra le sei conversazioni sulla storia linguistica dell’Italia unita che il terzo Programma della Rai mi aveva affidato nel 1958 e che erano andate in onda nel 1961. Nelle consuete telefonate serali ne aveva parlato al suo amico, all’amico per eccellenza, di Mistretta anche lui, il mio professore Antonino Pagliaro. Poi seppi da Pagliaro che di nuovo gli aveva parlato con simpatia del libro che era nato dallo sviluppo di quelle sei conversazioni e fu pubblicato nel 1963. Quando quell’anno Marcello Durante, glottologo a Palermo, cominciò a risalire la penisola e approdò a Perugia, i due vecchi amici si consultarono (ricostruii) e decisero di scommettere su di me per sostituire Durante … Così fui per dir così impacchettato e spedito a Palermo perché Cocchiara mi conoscesse e valutasse di persona. Approdai così a Palermo nella primavera del 1964» [1].
A Palermo (dove prima del ’64 gli era capitato di venire a trovare il fratello Mauro) e alla Sicilia De Mauro rimase costantemente legato: libero docente di glottologia e poi professore di linguistica generale nella Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo, dove fu anche direttore della biblioteca e incaricato di Filologia germanica sul finire degli anni ‘60, socio del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, vincitore del Premio internazionale per la linguistica “Antonino Pagliaro” (relatore Eugenio Coseriu) nel 1999, presidente della Fondazione Ignazio Buttitta nel biennio 2005-2007, cittadino onorario del Comune di Marsala. E certo sarà anche interessante notare che, cronologicamente, la svolta strutturalista che Nino Buttitta impresse alla scuola antropologica palermitana coincise con l’uscita, negli anni ’60, della “versione italiana”, curata da De Mauro, del Cours di Ferdinand de Saussure, all’interno di un quadro europeo complessivamente orientato in quegli anni alla “scoperta” del linguista ginevrino. Né, d’altra parte, può passare inosservata l’“assonanza” tra Senso e significato. Studi di semantica teorica e storica (che De Mauro pubblica nel 1971) e Preliminari su significato e senso (pubblicato da Antonino Buttitta e Mario Giacomarra nel 1972).
Né, infine, va trascurato che l’importante esperienza dell’OLS (Osservatorio Lin- guistico Siciliano), maturata in seno alle attività del Centro di studi filologici e linguistici siciliani che ne volle affidare la direzione a Franco Lo Piparo, si configura, in fondo, come l’attuazione su scala regionale dell’idea demauriana di un osservatorio linguistico italiano, «osser- vatorio non tanto della lingua come organismo autonomo e autosufficiente ma osservatorio dei parlanti, della loro capacità o incapacità di intrecciare e alternare idiomi diversi, del loro trasformare il mondo, sognare, amare, lottare, associarsi, dividersi, in poche parole del loro vivere individuale e collettivo mediante i linguaggi» [2].
Tornando alla Storia linguistica dell’Italia unita, il contesto storico, sociale, politico, culturale, scientifico nel quale essa maturò è ben evidenziato da Giovanni Ruffino nell’Introduzione al volume che nel 2005 raccolse poi i contributi del “Convegno di festeggiamento” di due anni prima. De Mauro, che nel suo libro raccontò la storia della lingua italiana come storia dei parlanti italiani, come storia di dialettofoni che faticosamente e lentamente si avviarono verso la conquista dell’uso parlato della lingua nazionale, lascia un’eredità insuperabile a chiunque voglia studiare le dinamiche linguistiche del nostro Paese, anzitutto insegnandoci, per dirla con Ruffino, che «la lingua italiana è un organismo aperto e flessibile, un macrosistema entro il quale si fondono, si arricchiscono, si trasfigurano anche le tradizioni linguistiche regionali e locali» [3]. Quella lingua, tutt’altro che aulica e letteraria, una conquista difficile e complessa da parte degli italiani, per De Mauro doveva essere fatta di «parole di tutti e per tutti»; altra cosa, dunque, dalla «vecchia lingua parruccona» tipica della burocrazia come di tanta scuola conservatrice.
Le sue posizioni contro ogni forma di «antilingua» sono ben note e riecheggiano anche in un aneddoto (divertente ma pregnante), riguardante la lingua giudiziaria, che De Mauro nel 2013 volle inserire nel volumetto-conversazione con Andrea Camilleri: durante un processo «il magistrato, per accertare i fatti, chiede alla vittima (che, come accade, è anche l’unico testimone): “Dite, Nicolino, con il qui presente Gaetano fuvvi congresso?”. Nicolino lo guarda interdetto. Il magistrato, paziente, cerca di essere a modo suo più chiaro: “Nicolino, fuvvi concubito?”. Nicolino continua a non capire e il magistrato si spinge al massimo della precisione consentitagli dall’eloquio giudiziario: “Nicolino, fuvvi copula?”. Nicolino lo guarda smarrito. E allora il magistrato abbandona l’italiano giudiziario e gli dice finalmente: “Niculì, isso, Gaetano, te l’ha misse ‘n culo?”. E Nicolino finalmente annuisce e risponde: “Sì, sì”» [4]. Ora, al di là del tono canzonatorio, che pure resta un tratto amabile del suo carattere di studioso non paludato e straordinariamente ironico, De Mauro torna a offrirci qui, sia pur in termini estremi, una delle sue più grandi lezioni, quella della necessità di una lingua democratica, di una lingua che per essere “buona per tutti” (oggi più di ieri anche per gli stranieri extracomunitari) deve essere capita da tutti (e perciò caratterizzata da testi brevi, frasi semplici, parole comuni note alla quasi totalità dei parlanti): «Le parole sono fatte, prima che per essere dette, per essere capite: proprio per questo, diceva un filosofo, gli dèi ci hanno dato una lingua e due orecchie. Chi non si fa capire viola la libertà di parola dei suoi ascoltatori. È un maleducato, se parla in privato e da privato. È qualcosa di peggio se è un giornalista, un insegnante, un dipendente pubblico, un eletto dal popolo. Chi è al servizio di un pubblico ha il dovere costituzionale di farsi capire» [5].
E una lingua può essere veramente democratica se in un Paese come l’Italia – dove più o meno fino agli anni ’80 l’italiano non è stato lingua nativa ma lingua appresa a scuola – si fa democratica anche l’educazione linguistica. È questo il senso delle Dieci Tesi dei primi anni ‘70, diventate il documento programmatico del Giscel, da cui si trae che la chiave di volta della maturazione linguistica dei ragazzi non è l’insegnamento della grammatica tradizionale, ma la messa in campo di ben altre e più importanti conoscenze e abilità linguistiche, oltretutto “trasversali”. Si tratta di un approccio al problema dell’educazione linguistica che davvero non ha nulla a che fare con il presunto “lassismo sessantottino” di un linguista che propugnava l’abolizione dell’insegnamento della grammatica tradizionale per il puro gusto di demolire in un colpo solo le antiche e rassicuranti certezze linguistiche. È invece un approccio guidato da una visione che intanto tesaurizza la lezione di Gramsci e l’esperienza di Don Milani, ma che guarda perfino alla necessità di “svecchiare” una disciplina, la linguistica, che nel nostro Paese non poteva più ritardare il suo appuntamento con la storia.
Come nota opportunamente Lorenzo Renzi, alla messa sotto accusa dell’insegnamento tradizionale della grammatica contribuì, in effetti, «il potente rinnovamento della linguistica scientifica che, partendo da Saussure (edito, tradotto e studiato da De Mauro) aveva dato origine allo strutturalismo, alla sociolinguistica, alla grammatica generativa, alla grammatica del testo. Nessuno di questi movimenti era nato in Italia, ma in quegli anni di potente, anche se talvolta confusa, modernizzazione, il rinnovamento della vecchia glottologia fu ben rappresentata anche da noi. Era chiaro che questo rinnovamento nello studio scientifico della lingua non poteva non mettere in dubbio la validità del millenario, complesso ma anche contraddittorio apparato della grammatica tradizionale, e anche nei suoi fini: tutelare la buona lingua, cioè… la lingua del passato» [6].
Certo, è vero che, riguardo al processo di italianizzazione del nostro Paese, la scuola arrivò “a cose fatte” – considerato che la conquista dell’italofonia venne favorita da altri fattori extralinguistici, che De Mauro richiamò puntualmente nella sua Storia linguistica e che in fondo erano gli stessi che quasi cento anni prima erano stati prefigurati da Graziadio Isaia Ascoli –, ma è altrettanto vero che fu grazie all’innalzamento dell’obbligo scolastico e alle mutate condizioni sociali che nell’Italia repubblicana poté determinarsi la sconfitta dell’analfabetismo. Ma ancora dalla grande lezione di De Mauro traiamo che la “fruizione” democratica della lingua non si risolve nel solo debellamento dell’analfabetismo giacché, potendo incombere il pericolo dell’analfabetismo di ritorno, diventa importantissimo l’obiettivo dell’alfabetizzazione funzionale.
Ai nostri giorni, in rapporto alla scolarità e alle capacità alfabetiche, la notizia buona è che l’Italia «non è più un Paese scolasticamente sottosviluppato», quella cattiva riguarda, invece, la persistenza dell’antico analfabetismo primario nella forma di «scarsa o nulla abitudine e perfino capacità elementare di lettura». Di conseguenza, riguardo al mondo che cambia, De Mauro ci fa notare che una certa parte della popolazione accoglie la richiesta di innalzamento delle soglie minime di competenze linguistiche, ma a questa si oppone una grande parte dealfabetizzata che «non sa evadere». E ciò in una generale condizione di incapacità da parte di dirigenti e intellettuali di trovare soluzioni. E invece, per l’uso efficiente dell’abilità di lettura, la capacità, cioè, di capire un testo (capacità che, mancando, impedisce perfino di votare liberamente!), De Mauro ne aveva di soluzioni: 1) un sistema ricorrente di istruzione per gli adulti; 2) la formazione degli insegnanti; 3) il miglioramento complessivo del sistema dell’istruzione e dell’Università. Si tratta, a volerci ben pensare, dei tre punti che recentemente Alberto Sobrero [7], segretario nazionale del Giscel, ha “invocato” quale contro-risposta al problema sollevato dai 600 firmatari della lettera contenente la “proposta contro il declino dell’italiano a scuola” (declino che alcuni hanno paradossalmente imputato al «ribaltamento in senso democratico della pedagogia linguistica tradizionale» di cui fu fautore lo stesso De Mauro!).
Ma quei tre punti non si attuano senza la capacità della nostra politica di “ripartire” dal sistema dell’istruzione e della ricerca, mettendo al centro dei suoi interessi quella “circolazione della cultura” tanto cara a Graziadio Isaia Ascoli centocinquanta anni fa, come a Tullio De Mauro ai giorni nostri. Ma, a parte la breve parentesi felice del Professore De Mauro all’Istruzione, quali personalità e competenze ha mai espresso negli ultimi anni quel Ministero?
Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Note
[1] Per i linguisti del nuovo millennio. Scritti in onore di Giovanni Ruffino, a cura del Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia, Palermo, Sellerio 2011: 158.
[2] Franco Lo Piparo, a cura di, La Sicilia linguistica oggi. Volume primo, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani 1990.
[3] Gli italiani e la lingua, a cura di Franco Lo Piparo e Giovanni Ruffino, Palermo, Sellerio 2005: 17.
[4] Andrea Camilleri-Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Roma-Bari, Laterza 2013: 10-11.
[5] Tullio De Mauro, nella homepage di Due parole, mensile ‘di facile lettura: http://www.dueparole.it/
[6] http://www.vvox.it/2017/02/08/in-difesa-di-tullio-de-mauro/
[7]http://www.giscel.it/?q=content/risposta-del-segretario-nazionale-alla-proposta-contro-il-declino-dellitaliano-scuola
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Roberto Sottile, ricercatore nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo dove insegna Linguistica italiana. Recentemente ha pubblicato, con il Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia (ALS) il Vocabolario-atlante della cultura dialettale. Articoli di saggio (CSFLS, Palermo 2009) e il “Lessico della cultura dialettale delle Madonie. 1. L’alimentazione, 2. Voci di saggio” (CSFLS, Palermo 2010-2011). Ha anche dedicato una particolare attenzione al rapporto tra dialetto e mondo giovanile. In quest’ambito si segnala il recente libro intitolato Il dialetto nella canzone italiana degli ultimi venti anni (Aracne, Roma 2013). Con Giovanni Ruffino ha pubblicato Parole migranti tra Oriente e Occidente (CSFLS, Palermo 2015). Le parole del tempo perduto è il titolo della sua ultima pubblicazione, edita da Navarra.
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