di Aldo Nicosia
Tra qualche giorno ricorre il 35 anniversario del mio primo sbarco in Tunisia. Siamo ai primi di luglio 1988. Avevo letto di un servizio di aliscafi fra Trapani e Kelibia, via Pantelleria, in sole 3,30h, con partenza alle 8 di mattina. Sono costretto ad arrivare a Trapani la sera prima e a pernottare lì. A quasi vent’anni non ho mai messo piede nell’estrema Sicilia occidentale. In treno, da Gela a Trapani, con cambio a Palermo, impiego una decina di ore. Nonostante la stanchezza sono contento di averla visitata: il centro storico di Trapani è ricco di arte, chiese, monumenti, forse un po’ malinconico e soporifero. Ma mi sento quasi elettrizzato dall’idea che sto affrontando, da solo, il mio primo viaggio in Africa.
Inizia la traversata. Dopo due ore circa, approdiamo nel piccolo porto della vulcanica Pantelleria, dove scendono alcuni passeggeri. Ormai il grosso è fatto. Siamo a poche miglia dalle coste della penisola del Capo Bon. Ma dopo un po’ si sente un forte boato e una fumata nera invade gli oblò. Il natante si ferma. Passano i minuti e poi riparte, ma subito dopo si blocca di nuovo. L’equipaggio ci comunica di un’avaria al motore che ci avrebbe costretti ad andare molto a rilento, accompagnati dal tormento di un assordante rumore dal vano motore.
Lente passano le ore, sfoglio distrattamente il dizionario di arabo libico di Griffini, l’unico testo che avrebbe potuto aiutarmi a districarmi nella vita quotidiana anche in Tunisia. Finalmente, nel pomeriggio, arriviamo nel porto di Kelibia. L’acqua del mare è di uno smeraldo mai visto. Sulla cima di una collina si intravede un antico forte. Non so ancora cosa mi aspetta, forse avrei trovato un bus per la capitale. Le formalità alla frontiera sono veloci, siamo pochi passeggeri. Tra questi attacco bottone con un ragazzo “navigato”. Ha un aspetto africano, padre tunisino e madre italiana. Gli chiedo se posso aggregarmi a lui per raggiungere Tunisi. Prendo il suo stesso louage, il taxi collettivo che parte solo quando si riempie. Il ragazzo parla un perfetto italiano, addirittura con accento del Nord. Gli dico con grande enfasi ed emozione che si tratta del mio primo viaggio nel mondo arabo. Gli scappa una risata spontanea: «Guarda che la Tunisia è tutto fuorché un paese arabo». Le sue parole mi colpiscono. Poi chiarisce il punto facendo leva sulle varie dominazioni e dimensioni storiche del Paese nordafricano.
Intanto io mi godo lo spettacolo dal finestrino stretto, come una sardina, tra altri passeggeri. Mi colpisce la natura brulla e secca del paesaggio, più di quello siciliano. Poche case punteggiano le collinette, hanno la copertura con volte a botte, ogni tanto compaiono greggi di pecore. Attraversiamo qualche villaggio o agglomerato di case. Leggo le insegne di Menzel Temime, Menzel Bou Zelfa. In seguito scoprirò che la toponomastica siciliana di origine araba ha nomi simili: Misiliscemi, Misiligiafari, Misilmeri (il prefisso manzil, luogo di sosta, viene corrotto da noi in misil, o misili). L’auto si ferma per fare benzina in una stazione di sosta. Un acre odore di benzina, mai avvertito in Italia, mi inonda le narici. Fa molto caldo, non c’è ombra in quell’area di rifornimento. Riparte, ingoiando strade malconce e piene di curve pericolose. Incrocia pochi veicoli ed ogni volta mi viene un colpo al cuore, perché sembra che l’autista abbia un debole per la carreggiata di sinistra. D’altronde la strada non ha manco una striscia bianca di separazione al centro.
Dopo qualche ora il louage arriva al centro di Tunisi. Mi faccio lasciare in avenue de la Liberté, di fronte all’Institut Bourguiba des Langues Vivantes, che è poi la meta e il motivo principale del viaggio in Tunisia. È un viale con edifici storici imponenti, ombreggiato da alberi di alto fusto. All’ingresso della scuola, dove avrei seguito un corso di sette-otto settimane, mi dicono di andare direttamente al foyer di Mutuelleville. Prendo un taxi e mi rendo conto che quel mezzo, mai preso in Italia, è lì di una comodità estrema, nonché abbastanza economico per noi italiani.
Il foyer è una bella scoperta. Immerso nel verde, tra i profumi inebrianti di gelsomino della sera, è circondato solo da moderne villette bianche con giardini. Vialetti alberati, cinguettii, un silenzio rotto solo dai megafoni degli appelli registrati del muezzin di una moschea vicina. Non si vedono tante persone in giro. Qualche anziana con una tonaca bianco sporco, tenuta con una mano e con i denti da un lato. Si tratta dell’abito tradizionale tunisino, il sefseri. L’altra mano di solito serve per portare un cesto di vimini o simili per la spesa. Gli anziani vestono con una specie di tonaca per lo più di tonalità chiara. C’è chi porta un cappello di paglia, a falda larghissima, una specie di sombrero. I ragazzini trascinano i loro passi su improbabili ciabatte o sandali. Qualcuno porta una baguette sotto il braccio. Chi è in compagnia mormora qualcosa o si abbandona a qualche fragorosa risata. L’atmosfera è rilassata e rilassante. Non potevo aspettarmi di meglio.
L’interno del foyer sa di pittura fresca. I bagni sono alla turca e le docce in comune. Vedo tante facce di europei, francesi, tedeschi, giapponesi, coreani, spagnoli, americani e non so quante altre nazionalità. Quando passo attraverso i corridoi e gli spazi comuni, tutti mi salutano, con mia enorme sorpresa. Sebbene un po’ spiazzato, rispondo anch’io ai saluti. Lo considero un segno di apertura mentale e di educazione. In Italia non si usa salutare gli estranei. La stanza che mi viene assegnata è molto spartana: un letto con materasso spugnoso, qualche ripiano incavato nel muro dietro il letto, un tavolinetto, un lavandino, un armadio forse metallico o forse di legno. La sera cominciano a sfrecciare le blatte. Per non assistere a tali gare …le colleghe italiane erano già venute attrezzate di insetticidi. Incontro anche colleghi della mia facoltà. Finalmente sento parlare italiano.
All’ingresso del foyer ci sono due telefoni pubblici, di colore giallo, molto vetusti e anneriti dalla ruggine. Occorre mettere la moneta da 100 millesimi di dinaro e fare il numero. Ma tante volte la moneta cade e bisogna iniziare tutto da capo. Intuisco che c’è qualcosa che non va. Un custode passa di lì e mormora in arabo tunisino “Ma yimshish”, non funziona. Provo con l’altro, ma mi accorgo che non è possibile chiamare l’Italia con qualche monetina. Già, perché ho esigenza di avvertire i miei che sono arrivato sano e salvo in Tunisia. Ma fuori, nel moderno quartiere residenziale di Mutuelleville, a parte qualche ambasciata, piccola moschea o botteguccia che vende pane, detersivi e qualche frutto, non si trovano postazioni pubbliche per telefonare. In Tunisia li chiamano Taxiphone.
Solo qualche giorno dopo, al centro, riesco finalmente a trovare un Taxiphone più professionale, funzionante anche con monete da 1 dinar o mezzo dinar. Sento la voce di mia madre, è molto arrabbiata con me, per non essermi fatto sentire. Hai voglia a spiegare la carenza o assenza di telefoni in Tunisia. Dice che avevano tentato di chiamare l’ambasciata italiana, ma ovviamente, nessuno mi aveva cercato. Le nostre rappresentanze in Tunisia hanno sempre altro di cui occuparsi. Qualche settimana dopo, quando mi rubano il portafogli sul TGM, il trenino che collega Tunisi con la banlieue nord, ne avrò conferma.
Il foyer ha una buvette dove viene trasmessa musica araba: vendono cassecroutes, panini preparati all’istante, e bevande analcoliche tipo la Boga. L’acqua minerale costa il doppio che in Italia, per poi scoprire che due terzi della somma ti vengono restituiti quando riporti il vuoto in vetro della Safia o Melliti. Dentro il foyer c’è un vasto giardino, punteggiato da alberi frondosi, prati verdi e sentieri ben curati. Si sentono tanti miagolii dappertutto. Gattini di tutti i colori ed età si avventurano ad attraversare le strade. Spesso compriamo il latte per nutrirli. La sera il giardino diventa la nostra mecca per incontri, risate, cene. Ogni tanto succedono improvvisate festicciole al suono di chitarra tra giovanissimi arabisti …in erba, cioè sull’erba.
Faccio amicizia con un po’ di colleghi: Ovidi, di Alcoy, vicino Alicante, il mio compagno di stanza, è un simpatico spagnolo, di qualche anno più grande di me. Grazie a lui conosco il suo quasi paesano Luis, con cui si creerà una forte amicizia, che dura fino ad oggi. Entrambi sono affermati professori in università spagnole. C’è anche Olivier, l’unico italiano compagno di classe, molto più grande di me, un po’ taciturno, ma altrettanto simpatico. Anche lui farà una folgorante carriera nel campo dell’arabismo. Pochi sono gli studenti di origine araba, per lo più figli di immigrati in Francia. Con alcuni tedeschi si comunica in arabo. Noto che se la cavano molto bene, meglio di noi italiani, anche se le loro frasi fanno a pugni con la grammatica. Sarà dovuto ad un approccio accademico più pragmatico…, chissà.
Il mio professore all’Institut Bourguiba, meglio conosciuta come Bourguiba School, è un antipatico pelato con gli occhiali scuri, ha un modo di parlare molto brusco, voce rauca, si mangia le parole, ripete ogni due o tre l’espressione “bon” alla francese, sbuffando pure. Veste un completo color grigio, di taglio quasi militare. Tutto il suo modo di fare trasuda una certa alterigia come se volesse dimostrare di non aver bisogno di fare l’insegnante. Dopo aver avuto una discussione in segreteria perché rimandavano sistematicamente il mio test d’ingresso, per via della sua irreperibilità, succede che il professore decide di ignorarmi completamente durante le lezioni. Io intervengo se la domanda è aperta a tutti, e se indovino la risposta, mai un bravo! Vengo poi a sapere che quell’insegnante è un leader di un partito di opposizione nel panorama del multipartitismo di facciata, offerto prima da Bourguiba e poi dal neo presidente Ben Ali: Mohamed Mou’ada. Forse quella è una delle ragioni per cui spesso marino le lezioni e preferisco fare altro. Ad esempio, andare in giro con Haythem (nome di fantasia, più avanti dirò perché), un amico tunisino, un quindicenne scuretto e dinoccolato, capelli corti e un po’ ricci.
Il primo appuntamento con lui è stata un’esperienza che mi ha fatto capire quando dista la Tunisia dall’Italia, in termini di relazioni sociali tra teenager di diverso sesso. Da un anno circa ero in corrispondenza epistolare con vari amici tunisini, tra cui una ragazza di nome Sarrah. Si trattava dei classici pen pal dei tempi delle scuole superiori. Dal telefono pubblico del foyer chiamo casa sua, nella periferia sud di Tunisi. Mi risponde lei e mi riconosce subito. Prendo un appuntamento il giorno dopo, nel primo pomeriggio a place Pasteur, uno degli snodi più importanti della parte moderna di Tunisi, accanto al parco del Belvedere.
Il caldo afoso di luglio induce alla siesta pomeridiana. Sono contento all’idea di star per incontrare per la prima volta una tunisina dal vivo. Dopo aver fatto più di un km di avenue Jugurta, un bel viale che costeggia il detto Belvedere, senza il miraggio di un bus (ne passa uno ogni ora, in media, su quella strada), arrivo, tutto sudato, al luogo dell’appuntamento. A quell’ora non c’è molto movimento, anzi a parte qualche auto che sfreccia, non c’è nessuno. Al centro della piazza si staglia un enorme ficus, che almeno dà un po’ di ombra e frescura. Mi guardo intorno in cerca di Sarrah. Ricordo bene i suoi tratti del viso, dalle foto che mi aveva mandato. Ma non vedo alcuna ragazza, cammino fuori dal raggio d’ombra del ficus, nella speranza di trovarla nei dintorni. Di Sarrah nessuna traccia. Aspetto un altro po’, non ho altro modo di contattarla, non si vedono telefoni pubblici, il foyer è molto distante. Sto già quasi pensando di tornarmene indietro, sicuramente qualche imprevisto le aveva impedito di venire. Improvvisamente, da dietro i rami del ficus che arrivano fino a terra, spunta la sagoma di un ragazzino magrissimo che cammina. Ha in mano qualcosa, guarda alternativamente davanti a sé e un pezzo di carta che ha in mano (che è poi una foto), mi si avvicina. Poi con l’indice fa segno verso di me, chiedendo: “Aldo?”.
Eccolo l’emissario di Sarrah, il fratello minore, che mi avrebbe accompagnato a casa loro, in treno, dalla stazione centrale di place Barcelone. Vengo accolto come un figlio dai suoi genitori, in una modesta villetta con giardino, a Zahra’ Lycée, a mezz’ora da Tunisi. Mi offrono da bere nel porticato. Finalmente appare Sarrah, che è l’unica figlia, ma dopo aver lasciato il vassoio con le bibite fresche, scompare nuovamente, come un miraggio nel deserto. Sono emozionato ma mi colpisce pure la sua indifferenza, o presunta tale, e mi assale un dubbio atroce: ma perché mi aveva invitato a casa sua? Mi propongono di dormire da loro perché si è fatto tardi, e forse l’ultimo treno per rientrare è già passato. Accetto con gratitudine, ma non senza un certo imbarazzo.
La mattina Haythem mi propone di uscire. Dice che invece di andare a mare è più semplice fare il bagno in qualche piscina di qualche grande hotel sulla costa vicina. Passiamo dalla hall e sgusciamo su una piscina stracolma di turisti. Io ho l’aspetto d’italiano, lui sicuramente no, ma nessuno chiede nulla. Mi convinco che si paghi all’uscita o che lui sia amico di qualche bagnino. In realtà lui non conosce nessuno. Fatto sta che dopo quella volta ci giriamo tante piscine di altrettanti hotel. Basta salutare in italiano, passando davanti la reception. Dentro di me, a dire il vero, sono un po’ preoccupato di esser beccato. Mi colpisce la sua faccia tosta e anche quella mia, di bronzo, acquisita dopo pochi giorni dal mio arrivo a Tunisi. È forse l’euforia di un viaggio in un luogo esotico? Tanto va la gatta al lardo…. Un bel giorno un bagnino si insospettisce e ci chiede in che stanza siamo alloggiati. A quel punto, di fronte al nostro silenzio ed imbarazzo, con uno sguardo pieno di commiserazione e un po’ di fastidio, ci dice con fermezza di non farci vedere più …da quelle parti.
Il giocattolo si era rotto ed ovviamente di uscire insieme a Sarrah non se ne parla neanche. Impossibile anche fare due chiacchiere. La sua è comunque una famiglia molto accogliente. Non sono ricchi, entrambi i genitori sono impiegati alla Societé Nationale des Chemins de Fer, le ferrovie tunisine. La madre non capisce l’arabo standard che io parlo, anzi si esprime in francese. Dice che ai suoi tempi la scuola era francofona.
Scopro che Haythem, il compagno di escursioni galeotte in piscina, ha fatto grande carriera amministrativa e poi politica. Lo rivedo dopo la rivoluzione del 2011, una decina di anni fa, quando è già un importante quadro del Ministero della Giustizia, con master negli Stati Uniti, etc. Mi rendo conto che forse la faccia tosta l’ha aiutato ad arrivare assai lontano: qualche anno dopo è un viso molto noto sui tg, dal momento che ha ricoperto un ruolo istituzionale di assoluto prestigio. Ma io non l’ho più cercato, né lui mi ha cercato.
L’altra amica di penna cui telefono subito per annunciare il mio arrivo è Amina. Risponde lei in perfetto italiano, è contenta di sentirmi e mi invita a cena a casa sua. Abita nel quartiere di Khaznadar con mamma, fratelli e sorelle. Una famiglia di medici, professori, il padre è stato ucciso durante i moti del pane del gennaio 1984, colpito da una sassaiola mentre usciva da un palazzo governativo. Era un interprete di tedesco in qualche ministero, ma non faceva parte dell’establishment politico. Mi accolgono con affetto e amicizia. Amina stavolta la vedo, le parlo, mi racconta della sua passione per la musica italiana. Il suo idolo è Claudio Baglioni, mi fa ascoltare alcune sue canzoni su audiocassetta, mi chiede il parere su alcuni suoi brani. Io mi schermisco dicendo che Baglioni mi piace ma non ne conosco tutti i brani.
Gli inviti in quella villetta, proprio nella stessa via in cui abitava Ben Ali prima di diventare presidente, si ripetono. Per lo più di sera o nei weekend. Assaggio tante buone pietanze tunisine, fatte dalla madre o dalle sorelle. Una sera, è tardi, devo tornare nel mio foyer, e uno dei fratelli si offre di accompagnarmi per prendere un taxi. Non sono frequenti di notte ma Tunisi è tranquilla in quegli anni. Dopo un po’ di attesa, invece di un taxi, una camionetta della Garde Nationale si ferma davanti a noi e ci intima di salire a bordo.
Il tono di uno dei poliziotti è duro e sgarbato. Al fratello di Amina fanno tante domande, io non capisco un’acca, il dialetto tunisino non lo conoscevo per nulla. Mostro la mia carta dello studente del Bourguiba School. Ho solo quella dopo aver subito il furto del portafogli, come già detto. Ma a loro qualcosa non quadra. Intanto la camionetta si avvia verso una strada buia, non si vedono più fari d’illuminazione. Credo che vada verso qualche caserma di Denden, in direzione opposta a quella in cui io avrei dovuto andare. Cerco di spiegare agli sbirri, nel mio arabo rudimentale, che sono uno studente e stavo soltanto prendendo il taxi per tornarmene nel mio foyer. Il fratello di Amina è visibilmente preoccupato. Io lo sono più di lui, perché non so il motivo di quel fermo e non capisco nulla. In quel momento maledico quell’aliscafo che era riuscito a sbarcare con tanta fatica sulle coste africane. Improvvisamente, quasi per magia, dopo un tempo dilatato all’infinito dalla mia paura, fanno retromarcia e si avviano verso una zona abitata. Ci fanno scendere. Chiedo al fratello di Amina il motivo di quell’“arresto”. Mi dice che a quell’ora di notte uno straniero con un tunisino è una scena che suscita sospetti. Non riesco ancora a capire, sono ancora scosso, trovo finalmente un taxi per tornare al mio foyer, che per fortuna è aperto tutta la notte.
Il corso va avanti ma l’atteggiamento del prof. Mou’ada nei miei confronti non cambia, e ciò non mi incoraggia a seguire le lezioni. Per fortuna, il politico prestato all’insegnamento (chissà perché) si assenta ogni tanto e il sostituto è abbastanza cordiale con me. Anzi, grazie al corso scopro l’artista Nja Mahdaoui, il più noto calligrafo tunisino, e un romanzo che a tutt’oggi è considerato dalla critica il migliore romanzo arabo, Mawsim al-hijra ila ash-shamal (“Stagione della migrazione al nord”, trad. di F. Leggio, Sellerio 1992) dello scrittore sudanese al-Tayyib Salih. Era stato inserito come testo da leggere ed analizzare durante il corso.
Ma di letteratura tunisina so poco o nulla, non trovo molto che mi intrighi nelle pochissime librerie della capitale, e in più i testi sono in arabo standard. Il gap tra questo arabo colto e il dialetto tunisino, che mi avrebbe aiutato a capire le battute dei poliziotti durante l’arresto a Khaznadar, lo avverto sempre di più e mi irrita dover stare in classe e non riuscire a capire neanche un’acca in situazioni delicate o negli scambi quotidiani. In compenso, però compro qualche giornale, ma sono noiosi e non conosco quasi nulla delle realtà politiche del periodo. Non si parla quasi più di Bourguiba, da pochi mesi è stato estromesso dal colpo di stato “medico” di Ben Ali. Guardo le locandine dei tanti cinema di avenue Bourguiba, ma quasi tutti hanno titoli indiani e forse egiziani. Nessuna traccia di cinema tunisino. Con qualche collega si va al mare alla Marsa, si sorseggia un ottimo tè alla menta o con i pinoli. Vado a zonzo per i quartieri storici della medina, alla ricerca dell’anima della città autentica. Almeno lì c’è ombra.
Un weekend con un gruppo di colleghi italiani decidiamo di partire per il sud. Prendiamo un treno notturno con destinazione Tozeur. La mattina dopo ci molla a Metlaoui. Finalmente ho un’illuminazione sul significato recondito del brano di Battiato: i treni di Tozeur sono appunto dei miraggi. Raggiungiamo la città dell’oasi con un louage. Io e i miei colleghi ci sistemiamo in una specie di hotel senza stelle. Manca anche l’acqua nella doccia. Ci si lava con quel che rimane delle bottiglie di minerale. Sulle lenzuola c’è uno strato di sabbia che penetra dalle persiane. Tozeur è comunque una bellissima città, con un’architettura di mattonelle di cotto, disposte in modo da creare delle forme geometriche che ricordano arabeschi e calligrafie stilizzate.
La sera si cena fuori, ma io devo prepararmi per rientrare nella capitale. L’indomani è la Festa del Sacrificio e la famiglia di Amina mi ha invitato a pranzo. Non si sa come avrei fatto a tornare a Tunisi. Il problema è sempre quello di arrivare a Metlaoui per acchiappare lì il treno notturno. Alla vigilia della festa più importante del calendario islamico non è facile trovare un taxi. Qualcuno addirittura, vedendo la mia faccia da straniero, mi chiede una cifra assurda per 5o km di strada.
Chiedo a destra e manca su come raggiungere Tunisi e mi indicano un luogo da cui sarebbe passato un bus per la capitale. Mollo i colleghi che stanno cenando, tra sconforto e dubbi: che senso aveva quel lungo viaggio per dovere subito ritornare indietro? Qualche passante mi dice che forse non c’è alcun mezzo, altri invece sono certi che sarebbe passato, prima o poi. Alla fine il bus arriva. L’aria condizionata è fortissima, mi congelo durante quella nottata perché non ho niente per coprirmi.
Riesco ad arrivare in tempo per il pranzo luculliano della festa. Mi aspetta montone in tutte le salse. Non ne vado matto, anzi lo spettacolo delle povere bestie sgozzate mi irrita. Durante i giorni precedenti si vedevano spesso louages che caricavano indistintamente passeggeri e montoni.
Intanto ogni weekend si parte alla scoperta della Tunisia: la storica capitale Kairouan, dove il caldo asfissiante non ci permette di godere delle bellezze architettoniche. Sousse con il suo ribat spettacolare, Hammamet con le sue spiagge dorate. Cartagine e dintorni. Richiamo l’amico Haythem e gli chiedo se vuole accompagnarmi a Sidi Bou Sa’id. Prima di percorrere le suggestive stradine in salita, attraverso portoni dipinti di blu elettrico, mi chiede, indicandomi una villa situata vicino la stazione del TGM del paesino: “Sai di chi è quella villa lì in fondo?” Dico di non saperlo. “Vieni, te la faccio vedere da vicino!”. Era la villa di Abu Jihad, un leader palestinese dell’OLP, ucciso proprio lì, in un blitz israeliano, qualche mese prima.
Facciamo il periplo della strada che costeggia la sontuosa villa. Forse ho una macchina fotografica, ma non ricordo più. C’è una garitta delle forze dell’ordine davanti a noi. Arretriamo alla loro vista. I due militari ci intimano di fermarci e di consegnare i nostri documenti. Inizia un fitto interrogatorio per entrambi. Cerco di spiegare che sono uno studente del Bourguiba School e non mi interessa la politica. Fanno qualche chiamata con le ricetrasmittenti. Non capisco nulla di quello che dicono, ma il tono è arrabbiato. Haythem mi spiega che vogliono portarci in caserma perché non siamo autorizzati a stare lì. Dopo un’ora di discussioni accese, mentre io sciorino la mia conoscenza di alcuni versetti del Corano, tanto per muoverli a compassione, i due militari decidono di lasciarci andare.
Un giorno dò appuntamento ad Amina per visitare insieme il museo del Bardo, che non è neanche lontano da casa sua, ma in realtà non ricevo da lei alcuna risposta, né un sì né un no. Così, senza troppa convinzione (vista l’esperienza con Sarrah) aspetto davanti l’ingresso del museo per un bel po’. Mi siedo su una panchina, c’è un anziano accanto a me. Attacco bottone per ammazzare il tempo, in attesa di Amina (che non sarebbe mai venuta). Scopro, con mia enorme sorpresa, che quel signore si chiama Buffa, è di origine siciliana, di Partinico ed è nato da immigrati che all’inizio del Novecento avevano tentato di far fortuna in Tunisia. Non so nulla di quella storia, dell’epopea degli Italiani di Tunisia.
In seguito avrei conosciuto Marcello Bivona e il suo bel documentario, avrei letto di Marinette Pendola e dei suoi commoventi libri, della famiglia Finzi, del poeta Mario Scalesi grazie alle ricerche di Salvatore Mugno. La casuale conoscenza di quell’uomo e le chiacchiere scambiate mi portano sulle tracce de La petite Sicile, a La Goulette. Un giorno decido di avventurarmi lì, nel quartiere attorno alla chiesa (era chiusa) dove si trova la statua della Madonna di Trapani. La canicola di agosto non perdona, nelle assolate e desolate strade c’è molta immondizia, calcinacci ed erbacce spuntano dai balconi di fatiscenti palazzine.
Mi assale un’angoscia, è fin troppo evidente che l’epopea degli Italiani di Tunisia si è chiusa da un bel po’, lasciando solo ruderi e memorie incartapecorite. Qualche anno dopo respiro gli stessi luoghi, ovviamente abbelliti per ragioni cinematografiche, nel suggestivo film di Ferid Boughedir Un étè à La Goulette (Un’estate a la Goulette, 1996).
L’immagine che mi sono costruito della Tunisia dell’estate del 1988 è quella di un Paese vivace, accogliente, generoso, ma contraddittorio. Dei movimenti islamisti che covavano già allora sotto la cenere ancora non so nulla, né in verità mi interessa molto. L’unico segnale che poi riesco a decifrare lo noto casualmente in un quartiere popolare: su tanti cartelloni sulla campagna di pianificazione familiare, lo slogan in arabo è stato modificato, anzi trasfigurato, solo con l’aggiunta di un puntino diacritico ad una lettera, fatta con una pittura di colore simile. Sicuramente è opera di membri dei movimenti islamisti, contrari alle politiche di contenimento della popolazione.
La Tunisia del 1988 contava circa 7 milioni di abitanti. Il traffico era scorrevole, non c’era ancora il Metro Leger, forse solo una linea verso la banlieue sud, ma ci si spostava facilmente da qualsiasi zona all’altra con i taxi. Il dinaro di allora era una moneta molto più forte del dinaro di oggi. I tunisini erano più spensierati, forse più felicemente sfaccendati. Conoscevano tutti Rai Uno, Pippo Baudo, Raffaella Carrà, Aldo Maccione («Ti chiami come Aldo Maccione!! Sei siciliano? Allora sei della mafia!»).
I primi viaggi portano con sé tante cose indelebili, come la citronnade e il biscotto secco da intingervi, il cuscus, il cumino, il lablabi, una pietanza a base di ceci, salsa di pomodoro e uova, i giornali da aprire separando le pagine da sopra i margini, i fiori di gelsomino, la salsiccia merguez. Le vecchie Peugeot e Renault, i motobecane e gli scolapasta usati come casco, i supermercati Touta, le sigarette Mars e Cristal, i bus con autiste donne, le macellerie con scritte in caratteri arabi ed ebraici che esibiscono come trofei le teste di bue, l’assurda assenza di olio di oliva nelle trattorie e ristoranti, i cartelli nei Taxiphone con “è vietato sputare per terra”. Tanta gestualità e sguardi penetranti, tanta umanità e tanto bisogno di comunicare e di aprirsi allo straniero. Benedetta l’era prima del cellulare!
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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Aldo Nicosia, ricercatore di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Bari, è autore de Il cinema arabo (Carocci, 2007) e Il romanzo arabo al cinema (Carocci, 2014). Oltre che sulla settima arte, ha pubblicato articoli su autori della letteratura araba contemporanea (Haydar Haydar, Abulqasim al-Shabbi, Béchir Khraief), sociolinguistica e dialettologia (traduzioni de Le petit prince in arabo algerino, tunisino e marocchino), dinamiche socio-politiche nella Tunisia, Libia ed Egitto pre e post 2011. Nel 2018 ha tradotto per Edizioni Q il romanzo Il concorso di Salwa Bakr, curandone anche la postfazione. Ha curato per Progedit la raccolta Kòshari. Racconti arabi e maltesi (2021).
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