di Simone Casalini
Fuori piove, le gocce cadono con millimetrica devozione sugli abiti degli studenti che si tuffano nel traffico per scomparire nelle auto dei genitori o in un taxi. Anche il poliziotto di guardia lascia l’atrio spoglio alle spalle per infilarsi in mezzo alla prole, con qualche esitazione e contorsionismo, su una sbuffante vettura di marca francese. Il Ministero per l’istruzione non vuole rischi e alle 12 ha diramato l’annuncio ufficiale che tutte le facoltà universitarie e le scuole chiuderanno. Rompete le righe. Alla Facoltà di Scienze umane e sociali dell’università di Tunisi, però, il cicalare delle voci nei corridoi e nelle aule è crescente nella prima mattinata. Le porte blu verniciate lasciano intravedere la classe dirigente prossima, emblema di un Paese che pensa e forma, ma inabile a risolvere i problemi economici e sociali e rassegnato ad osservare malinconicamente da una banchina o dalle piste di un aeroporto la meglio gioventù diramarsi altrove. Nove anni dopo la rivolta di piazza che cancellò il regime di Ben Ali, schiudendo la stagione della democrazia, la Tunisia rimane l’ultimo sussulto di una primavera che ora cerca nuove traiettorie, dalla vicina Algeria al Libano. Tutto ribolle, ormai ciclicamente.
«Economia e istruzione sono i due settori nei quali investirei, che vanno prioritariamente riformati. Il dislivello economico produce continuamente ingiustizie sociali, mentre il campo educativo dovrebbe consegnare nelle mani dei giovani gli strumenti dell’emancipazione, ma così non è», rimarca Erig Wertemi, studentessa di 22 anni che frequenta un master in Psicologia del lavoro. Insieme ai suoi compagni di corso è l’espressione di una generazione determinata e consapevole che nel voto delle presidenziali di ottobre, tra diserzione e indicazione anti-sistema, ha favorito l’insediamento al palazzo di Chartage del costituzionalista e outsider, Kaїs Saïed. «Sì, l’ho votato perché non c’era altra scelta – prosegue Erig –. Spetta a noi popolo tunisino, e non solo al presidente, cambiare il nostro destino. La repubblica ha potere se esprime la volontà popolare». Huda Sarray le siede accanto, un velo le scende dal capo alle spalle, mentre gli occhiali sbalzano uno sguardo ritroso. «Anch’io ho scelto Saïed, una persona molto attenta alle esigenze manifestate dal popolo. È un professore universitario e non potrà che migliorare lo statuto dell’università e degli studenti e di conseguenza innalzare la situazione intellettuale del Paese» riflette Huda, originaria di Sfax, che non ha smarrito fiducia nella possibilità di costruirsi un avvenire nel suo Paese: «Gli studenti di psicologia non hanno problemi nell’immissione nel mercato del lavoro». E, in effetti, tra le discipline ospitate alla Facoltà di Scienze umane e sociali (Filosofia, Sociologia, Storia, Geografia, Lingue), Psicologia è quella che più facilmente viene assorbita nella dinamica domanda-offerta, con un impiego crescente nel settore privato. Nelle stanze e nella fitta sequenza di passaggi interni, disposti su due piani, si muovono complessivamente 4.500 studenti e 600 dottorandi.
Tra i docenti, nella generazione tra i 50 e i 60 anni, ci sono anche diverse “figlie di Bourguiba” che ancora guardano al padre della decolonizzazione come ad una figura chiave nell’emancipazione della donna tunisina e manifestano disagio, se non insofferenza, di fronte ad una platea di studentesse che mostra qualche segnale di controtendenza, scegliendo in alcuni casi di velarsi. «La storia della donna tunisina è iscritta nella costruzione della moderna Tunisia – spiega Alma Hafsi, professore ordinario di Psicologia del lavoro – ed è una storia di progressiva conquista della libertà e di affrancamento da vecchi retaggi. Le ragazze che si velano accettano la logica del corpo da desiderare, è un ritorno indietro. Ma perché non velare gli uomini allora?».
In Tunisia la polarizzazione tra le “figlie di Bourguiba” e le donne velate è radicata e polemica e in passato distingueva chi aveva accettato di ibridarsi culturalmente con l’archetipo laico francese e europeo e chi conservava un’identità più interna alla matrice araba e islamista. Oggi, tuttavia, c’è un elemento di novità. Alcune ragazze con un livello d’istruzione elevato scelgono di indossare il velo, spesso confliggendo con le famiglie, ma senza accasarsi nel campo islamista. Non di rado esplicitano, anzi, la loro distanza da Ennahda, il partito della Rinascita islamica che ha issato il suo leader Rashid Ghannouchi alla presidenza del Parlamento, dando la loro preferenza anche ai partiti secolaristi.
La professoressa Hafsi non ha ceduto alla tentazione del voto per Saïed («Ma ha affermato che il programma lo faranno i giovani, staremo a vedere») e non cela la preoccupazione per il destino dei suoi studenti. «Sono generazioni con un evidente problema esistenziale, ossia la diaspora che li allontana dal Paese d’origine – sostiene –. È una situazione irreale e di incertezza perché la loro competenza non viene riconosciuta. Si fa presto a cadere, ma la risalita è complicata. E non è agevolata da tecnocrati e politici che non hanno identificato le giuste contromisure». Tuttavia un punto di distanza lo pone tra sé e le nuove leve: «C’è una discrasia sui valori tra noi e loro. Noi non comprendiamo loro e viceversa e questo ha innescato un conflitto generazionale latente. Un esempio è il lavoro. La mia generazione aveva un’idea della costruzione della Tunisia che si basava sul fatto che qualcosa di noi poteva essere sacrificata per la crescita della comunità. Al giorno d’oggi i giovani investono su percorsi individuali che pongono al centro la loro affermazione. La riflessione collettiva si è indebolita. Questa inversione di tendenza ha avuto origine con Ben Ali».
Hafsi ha dedicato una parte della sua ricerca alle condizioni dei docenti delle scuole primarie (per gli anni corrispondenti alle medie italiane), evidenziandone le complicazioni: «Gli insegnanti sono stressati e si sono registrati diversi episodi di burnout – spiega – Il loro ruolo è indebolito perché sono al centro di un sistema cristallizzato e di una generazione che sta cambiando, ponendo quesiti differenti rispetto al passato. Sul fronte del salario, invece, quelli più danneggiati sono i professori universitari. Non esiste, infatti, una differenza sostanziale tra il loro stipendio e quello dei docenti delle scuole superiori o primarie, ma esiste un divario nella formazione».
Da boulevard du 9 avril 1938, correndo verso Le Passage e fendendo la voce del muezzin della moschea Zaytuna, uno dei capisaldi del sunnismo, si risale avenue de la Liberté. L’istituto Bourguiba per le lingue viventi è un cenacolo da cui si cibano soprattutto adulti e un eterogeneo plotone di studenti provenienti dall’estero per incamerare un po’ di arabo. In una delle classi d’italiano, la declinazione dei verbi impegna i partecipanti tra apprendimento e qualche storpiatura. L’interpretazione di questi nove anni e le sensazioni, spesso decontestualizzate storicamente, divergono rapidamente come fiumi carsici che non s’incontrano, riscoprendosi in superficie. Fadwa Bouhjar, un dottorato di ricerca in archeologia in itinere, ammette «di aver scelto Saïed perché volevo premiare una persona fuori dal sistema politico. L’ho ascoltato durante un incontro alla biblioteca nazionale, gli ho posto una domanda su Ennahda e mi ha risposto in modo onesto. Il suo profilo intellettuale può essere un valore». «Ma lui non ha un programma» ribatte subito Mounir Fantar, uno degli archeologi tunisini di maggior rilievo e figlio d’arte (suo padre, Mohamed Hassine Fantar, ha segnato un prima e un dopo nell’archeologia del Paese). Parla senza scomporsi, con un francese lineare, la gesticolazione misurata.
La conversazione cade sulla contrarietà di Saïed alla parità nell’eredità tra uomo e donna – una disposizione contenuta nel Corano che il predecessore Beji Caid Essebsi non era riuscito a rovesciare – e alla sua volontà di mantenere l’articolo 230 del codice penale che punisce l’omosessualità. «Le parole di Saïed impegnano solo lui. Sulla questione dell’eredità, poi, c’è una Costituzione che regola la vita in Tunisia nelle sue differenti dimensioni. Se poi si ha qualche dubbio o se un quesito diventa polarizzante allora sarebbe meglio scioglierlo con un referendum, lasciando la parola ai cittadini» afferma Mounir. Sadok Ben Ezzeddine, studente di design con una passione più marcata per il cinema («Vorrei diventare un attore»), richiama il dibattito all’osservanza degli equilibri definiti con la Costituzione del 2014 che ha delineato una repubblica semi-presidenziale dove la partecipazione alla funzione di governo del presidente è limitata ai temi della sicurezza e degli esteri. «Credo sia opportuno attendere la formazione del nuovo governo (il premier incaricato è Habib Jamli e ha la dead line fissata al 13 gennaio, ndr), solo allora capiremo quale direzione imboccherà la Tunisia» osserva lo studente dai tratti felliniani che ha una sentenza da proporre sul principale partito islamista, Ennahda. «Sono gli unici vincitori di questi nove anni di rivoluzione, ma a che prezzo? Hanno aperto le porte al terrorismo e il suo leader, Rashid Ghannoushi, non appartiene e non apparterrà mai al popolo tunisino» taglia corto. «Il pensiero radicale che ha contraddistinto Ennahda nel passato non lo dimentichiamo – gli risponde Aymen Triki, ingegnere industriale di 38 anni – ma ora le loro posizioni appaiono decisamente moderate. In Tunisia il terrorismo è un bottone che premiamo ogni volta che abbiamo bisogno di una giustificazione».
Il dibattito prosegue con Saloua Beldi («La condizione della donna non arretrerà e sull’eredità troveremo una soluzione. La consuetudine già affermata è quella della divisione, basta un atto notarile»), Ahmed Chakroun («L’eredità è un problema secondario, prima bisogna affrontare l’inflazione, la crisi economica e la povertà») e Bassent Dridi («Il terrorismo non è solo militare, ma anche sociale e culturale») che rendono ancora più complessa e stratificata la questione dell’avvenire. E tra le tante incertezze una riguarda il Dipartimento di italiano della Bourguiba che, dopo anni di insegnamento, potrebbe diminuire o cessare la sua attività. Rischia di essere scalzato da quello romeno – il protocollo d’intesa è stato firmato il 19 aprile e il corso è sincronizzato con l’avvio dell’anno accademico – che celebra uno dei flussi migratori coevi. Sono infatti 1300-1500 i tunisini che studiano, in prevalenza medicina, in Romania e che qui esercitano l’attività, stabilendo la loro esistenza. L’insegnamento del romeno ha l’obiettivo di facilitare e incentivare questo travaso di competenze, una generazione che se ne va e che ha come mete privilegiate, soprattutto i laureati, anche Francia e Canada.
In Avenue de la Liberté sosta anche la Società “Dante Alighieri”, il più antico avamposto della cultura italiana. È stata fondata nel 1893 e si occupa della promozione della lingua italiana, organizza corsi, facilitando anche il percorso di studi in Italia. La comunità italiana in Tunisia era composta da più di centomila persone ai primi del Novecento, molti gli esuli dei moti carbonari (qui si fermarono anche Mazzini e Garibaldi) e poi – negli anni Trenta – quelli che cercavano protezione dal fascismo tra cui i dirigenti del Partito comunista Giorgio Amendola e Velio Spano. Silvia Finzi, professoressa di Civiltà italiana all’università La Manouba, appartiene alla comunità storica italiana di Tunisi, discendente di una famiglia ebrea livornese che si trasferì nella capitale del Paese maghrebino all’inizio dell’Ottocento. Fondarono la prima tipografia privata della Tunisia e il “Corriere di Tunisi” che ancora oggi esce con cadenza bimensile. «Il sentimento della comunità italiana è misto. Da una parte hanno vissuto le elezioni presidenziali seguendo l’onda emotiva tunisina e vedendo in Saïed una persona onesta, con qualità morali e intellettuali alte; un’altra parte, forse più importante, lo vede con inquietudine. Non credo che il sentimento sia omogeneo. Quello che mi lascia perplessa è lo straordinario consenso ricevuto dal nuovo presidente che si è presentato senza un partito, senza soldi, senza sostegni. Il suo score finale mi ha ricordato quelli dei tempi passati. Quindi la mia domanda finale è: chi ci sta dietro? Saïed non ha un linguaggio particolarmente comprensibile alla massa».
«Il popolo vuole», lo slogan rivoluzionario del 2010 riesumato da Saïed, attende una declinazione per mitigare il disagio sociale che ancora si riversa in strada. Nel terzo trimestre del 2019 sono stati 2044 i movimenti di protesta nel Paese con Kairouan, Gafsa e Sidi Bouzid che si confermano l’epicentro di ogni scossa tellurica. «Ma cosa intende per popolo e quali sono le politiche che promuoverà? – incalza Finzi – In Tunisia la corruzione è ad ogni livello, dai Comuni agli chauffeur dei taxi, è un dossier enorme. La corruzione non è soltanto espressione della classe dirigente, ma anche dei ceti medio-bassi. È un problema sociale ed economico». Finzi dissente anche sui temi più controversi della campagna elettorale come il diniego alla parità tra uomo e donna nell’eredità («Che un giurista proponga di fondare il diritto su una prescrizione religiosa è grave, vuol dire che non c’è separazione tra fede e Stato») e il rifiuto di depenalizzare l’omosessualità («Non riconoscere il diritto alla differenza è preoccupante. Lo sguardo pubblico annienta i diritti privati»).
Alle legislative ha votato solo il 41,7% degli aventi diritto e Ennahda è stato il primo partito di un Parlamento balcanizzato in cui ha perso seggi, ma acquisendo paradossalmente più potere. «Sono andate a votare per le legislative le persone già impegnate. Ha vinto Ennahda che ormai è presente in tutte le amministrazioni, ha i ministeri chiave come quello di giustizia. Ma soprattutto ha vinto con un numero importante di seggi la destra di Ennahda: sono state elette persone proscritte, compromesse con il terrorismo. È inquietante che siamo nelle loro mani. Il rispetto della libertà individuale non esiste. Detto questo, è anche il fallimento dei partiti progressisti». Un ultimo appunto Finzi lo solleva sul rispetto delle minoranze e sulle parole di Saïed. «Ha detto che in Tunisia da sempre gli ebrei sono stati protetti. Non so cosa intendesse, forse ho interpretato male le sue parole. Io non voglio la sua protezione, ma i miei diritti. Altrimenti non sono un cittadino. Se è vero che ha licenziato il ministro degli Esteri, Khemaies Jhinaoui, un laico, perché voleva normalizzare i rapporti con Israele è angosciante. Gli ebrei di Tunisi l’hanno vissuta male».
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Riferimenti bibliografici
Yadh Ben Achour, La tentazione democratica, Ombre corte, Verona, 2010.
Silvia Finzi, Memorie italiane di Tunisia, Finzi editore, Tunisi, 2000.
Silvia Finzi, Mestieri e professioni degli italiani in Tunisia, Finzi editore, Tunisi, 2003.
Ahmed Kassab, Ahmed Ounaies (a cura di), Histoire générale de la Tunisie. L’Époque Contemporaine, Sud Editions, Tunis 2010.
Anne Wolf, Political Islam in Tunisia. The History of Ennahda, C. Hurst&Co., London, 2017.
Chuchu Zhang, Tunisia’s Ennahda and Algeria’s Hms compared, 1989-2014, Palgrave MacMillan, London, 2019.
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Simone Casalini, giornalista professionista, è caporedattore del Corriere del Trentino/Corriere della Sera e collabora con la rivista di politica internazionale Eastwest, curando in particolare l’evoluzione sociopolitica della Tunisia. È laureato in Scienze politiche all’Università di Urbino e si è occupato, più nello specifico, del pensiero critico della Scuola di Francoforte e del post-strutturalismo francese. Ha pubblicato Intervista al Novecento (Egon editore, 2010) in cui attraverso la voce di otto intellettuali – tra i quali Toni Negri, Franco Rella, Gian Enrico Rusconi e Sergio Fabbrini – ha analizzato l’eredità del secolo breve. È da poco uscito per Meltemi Lo spazio ibrido. Culture, frontiere e società in transizione.
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