di Lorenzo Ingrasciotta
«Preferisco dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali, per quanto maestose e imponenti siano» (Van Gogh). Ogni ritratto è un dialogo silenzioso. Ci racconta la vita dell’uomo attraverso le parole della luce.
Può svelare sentimenti, partecipare emozioni. Il ritratto può essere intimo e rispettoso. A volte è necessario che sia invadente, impertinente, sfrontato. Spontaneo o recitato. Rivelatore, prudente o controverso. Il ritratto può essere rubato e può essere concordato. Richiesto o regalato.
Per fare un buon ritratto sicuramente è necessario che si stabilisca una relazione importante tra chi è davanti e chi sta dietro l’obiettivo affinché si possa creare una certa empatia. Condizione necessaria per potere sorprendere e comprendere anche l’anima e non solo i caratteri somatici del soggetto.
Una bella ragazza è seduta per terra sul selciato, davanti l’antico baglio di Scopello. Ha il viso cupo come l’ombra che copre il muro crepato del vecchio casolare. L’intonaco è screpolato sembra sanguinare proprio come il cuore di una innamorata incompresa, delusa, forse abbandonata. Mi è sembrato lo sfondo ideale. Il passe-partout che mi ha permesso di entrare nell’intimo, di cogliere lo sconforto della ragazza. Il momento adatto per un ritratto rubato, ma capace di raccontare senza farsi sentire. Di spogliare senza farsi vedere.
Giornata afosa dei primi giorni di agosto. Un primo appuntamento mi porta a Ribera prima e a Burgio dopo. L’obiettivo è quello di fotografare la fonderia della nota famiglia Virgadamo, che da oltre cinquecento anni forgia campane in bronzo distribuite in tutte le parti del mondo, anche in Vaticano.
Un anziano signore stava seduto a torso nudo su una vecchia sedia di legno. Sarebbero bastate da sole quelle braccia a raccontare la sua vita trascorsa fin da bambino a lavorare alla fonderia. Le rughe scolpite sul volto e la pelle flaccida modellata addosso al busto mi confermavano quanto fosse stata faticosa la dedizione dello “zu Saveriu” per il suo duro lavoro lungo i suoi 85 anni.
Niente di più facile che trovare la generosa disponibilità di una persona tatuata per poter realizzare qualche ritratto quanto meno “pittoresco”! Chiunque esibisca una piccola o grande opera d’arte incisa sul proprio corpo, è lieto di attirare la curiosità, il tacito consenso di chi sta a guardare, magari in attesa di ricevere solamente un educato apprezzamento. Così il ritratto mette a nudo la natura esibizionista, il carattere un po’ narcisista, quel tanto di sicurezza faticosamente conquistata, il piacere di esprimere la fiera serenità, quel pizzico di allegria, da rendere l’anonimo tatuato un soggetto simpatico che non si prende poi troppo sul serio.
Avevo preso per la prima volta la funicolare che da piazza Montesanto sale fino al Vomero. In attesa che il trenino si mettesse in moto, scattavo qualche foto alla mia compagna seduta di fronte a me. Non ricordo quante persone ci fossero nella cabina. Appena partiti, una voce gentile richiamò la mia attenzione.
Era una ragazza poco più che ventenne, semplice, con un sorriso poco più accennato di quello di Monna Lisa ma con un filo di melanconia trasparente che lasciava intravedere un non so che di tristezza o di lieve scontento. “Mi fai una foto pure a me?”. Ricambiai subito il sorriso con la stessa intensità del suo. Un po’ impacciato mi spostai dal mio sedile e puntai l’obiettivo sul viso leggermente truccato. Con l’espressione enigmatica che continuava a riportarmi alla Gioconda di Leonardo, guardò dritto dentro il mio obiettivo perché facessi quell’unico scatto che ancora conservo come una reliquia.
Quell’espressione mi accompagnò per tutto il breve viaggio. Non una parola per tutto il tempo della traversata che finiva al Vomero. Scese dalla funicolare prima di me. Appena fuori si girò. Solo una parola “grazie!” e lo stesso malinconico sorriso che ho fotografato. D’altra parte neanche io seppi proferire una parola!
Cosa può portare una ragazzina di meno di venti anni a farsi fare una foto da uno sconosciuto che quasi sicuramente non incontrerà mai più? Perché non si è preoccupata affatto di lasciare un indispensabile recapito? Si sarà chiesta mai che cosa ne sarebbe stato di quella foto? Il ritratto di una sconosciuta nelle mani di uno sconosciuto! Probabilmente non gliene fregherà niente.
“Non è importante che non ci si conosca, non serve a niente pensare che non ci si possa incontrare un’altra volta; Il mio nome? Il tuo? Inutili convenzioni. Cosa farai della foto che mi hai scattato? Non lo voglio sapere. Io vorrei soltanto che tu possa sempre conservarla. Sapere che da qualche parte del mondo io esisto. Essere sicura di non essere invisibile e credere che a qualcuno, a te, per esempio, io possa essere piaciuta!”.
È così che nasce la mia passione per il ritratto. Da qualche mia intervista o da alcune fiduciose confessioni ricevute da soggetti sino allora sconosciuti. Dalle considerazioni o dalle mille interpretazioni, nasce la mia curiosità di scoprire la complessità dell’essere umano, la sua natura interiore e quanto ricca possa essere la sua unicità.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
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Lorenzo Ingrasciotta, originario di Castelvetrano, inizia a fotografare con una reflex, a Palermo, appena iscritto all’Università. Appassionato di viaggi, fa il primo reportage in Thailandia; una delle foto parteciperà ad un concorso fotografico e vince il primo premio. Ha realizzato servizi pubblicitari ed è stato premiato con menzione al secondo concorso nazionale indetto dall’AGFA. Sue foto sono pubblicate su quotidiani e riviste.
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