di Luigi Lombardo
Ovunque si sente dire «Sarà un Natale diverso». Certamente lo sarà. Mancheranno tante cose, alcune assolutamente effimere, “all’americana”, altre facenti parte del patrimonio culturale popolare; e per questo mancherà “il clima natalizio”, quella particolare disposizione sentimentale che attende, spera, si augura, e dell’immaginario che rievoca miti, racconti, gesti e affettuosità del Natale. Oggi siamo tutti a “sperare” incollati al televisore in attesa di dati confortanti dai bollettini grafici dall’Istituto Superiore di Sanità.
Un tempo l’attesa era ben altra: la festa più lunga dell’anno iniziava con il primo giorno dell’avvento, e da qui a seguire una serie di feste calendariali: S. Barbara, Santa Nicola, S. Lucia e quindi l’inizio del novenario che precedeva il Natale. Appunto le novene oggi mancheranno, quelle che ancora resistono assieme a tantissimi rituali di fine-inizio anno. A noi per il momento non resta che parlarne, descrivendo antichissimi rituali legati alla nascita del Bambinello, praticati fino ai nostri giorni, pur tra mille contaminazioni e “intromissioni” (ad esempio il Babbo Natale che accompagna i “nuvinari”).
Le sere che precedevano il Natale (il novenario, o nuvena come il popolo seguita a dire) i cantori ciechi (gli orbi a Palermo), mestieranti musicisti di professione, riuniti in associazione fin dal 1661, o semplicemente gruppi di popolani raccolti in società temporanee, spesso suonatori della banda cittadina, percorrevano le strade di piccoli e grandi centri, inondandole di musiche e suoni e voci natalizi: portavano nelle famiglie dei parrucciani (oggi diremmo clienti abbonati) le “storie” a puntate della nascita del Bambino Gesù: ninnareddhi si chiamavano nel Catanese o, nei paesi iblei, più genericamente nuveni.
Dalle montagne dell’Etna scendevano per l’occasione i ciaramiddhari con le zampogne di vello di pecora, vestiti coi loro abiti pastorali, fra cui l’inconfondibile «firriolu di abbraçiu (orbace) bluetto».
Rallegravano il freddo inverno delle case dei poveri e confortavano il cuore nell’attesa dell’evento della gran notti. Tutto – suoni, luci, uomini e cose – avvolgeva il buio della notte: perché un tempo le novene si portavano di notte, che, prima dell’introduzione della corrente elettrica, iniziava subito dopo il tramonto del sole.
Poi la Chiesa spostò le novene al mattino, dopo il canto del gallo: ma fu diverso. Il motivo ufficiale era che in queste novene in versione notturna succedevano degli “inconvenienti”: probabilmente le musiche “profane” (tanghi, valzer, mazurche, galop e, nei tempi più antichi, le tarantelle) che chiudevano la strofa della giornata, incitavano al ballo, accompagnato da qualche bicchiere di buon vino.
Erano canti che si tramandavano oralmente, a volte ne esistevano degli scorretti copioni scritti: i più organizzati erano, come detto, gli orbi, riuniti in confraternita e gelosi possessori di testi e musiche. Per il resto i suonatori e cantanti della novena erano personaggi che svolgevano i mestieri più disparati: a volte non ne esercitavano alcuno. Le novene erano cantate da una voce solista accompagnata da vari strumenti a fiato, a corda, a percussione. Quando mancavano gli strumenti il cantatore si aiutava col fischio e col battere di un tamburo o di nacchere [1].
Il Natale popolare si svolgeva dunque per le strade, nelle piazze, nelle case illuminate dal tenue lustru di lumeri ad olio. I testi di molte novene ci sono pervenuti grazie alle raccolte ottocentesche, ma soprattutto alle registrazioni sul campo iniziate negli anni ‘50 e ’60, e proseguite nei decenni successivi ad opera di studiosi e associazioni culturali, che ci hanno restituito, insieme ai testi, anche le musiche. Anch’io ne ho registrate diverse: la tradizione sembrava sparita poi è riapparsa in qualche centro. Questo oscillare “carsico” fra conservazione e sparizione contrassegna molte tradizioni popolari al giorno d’oggi.
Le novene ripetevano e ripetono tutte lo schema, il tema del viaggio di Maria, incinta e lesta (pronta) a partorire, in compagnia del patriarca Giuseppe, a seguito dell’editto di Cesare (il censimento generale dei popoli dell’impero). Il prototipo letterario è per quasi tutte le novene (direttamente o indirettamente) il Viaggiu dulurusu, componimento in versi siciliani della seconda metà del ‘700 di un sacerdote monrealese Antonino Di Liberto (1704-1772), teologo, poeta e musicista, che si cela sotto lo pseudonimo di Binidittu Annuleru, testo che si è ristampato fino oltre i primi decenni del XIX secolo [2]. Tali novene si diffondevano con facilità fra il popolo, subendo un processo di modificazioni e adattamenti. La diffusione dei testi fra i ceti popolari ne modificava la funzione: circolando a spezzoni, a strofe, trasformandosi, il più delle volte, in canti fanciulleschi, tiritere, ninne nanne, modi di dire, con palesi intenti pedagogici e mnemonici. É il modo che ha il popolo per accedere ai sacri misteri: riportarli alla sfera del proprio vissuto quotidiano, con una giustapposizione di piani, l’umano e il divino.
E tali rifacimenti, nelle innumerevoli varianti raccolte, hanno dato luogo al sorgere di una vasta letteratura popolare, fatta di canti e componimenti poetici, che si ispirano alle “drammatiche” vicende della sacra coppia e alla prima infanzia di Gesù. Ne vengono fuori quadretti di vita familiare di una semplicità e ingenuità disarmante; ma questo è lo scopo che si cela nel racconto sacro: appunto disarmare, far partecipare, far rivivere all’ascoltatore la bellezza e la serenità di un mondo pacificato. La fonte di questi componimenti è stata da alcuni studiosi rintracciata nei vangeli apocrifi [3], in particolare nel «Protovangelo di Giacomo» e nel «Vangelo dell’infanzia arabo siriaco», mentre come si sa i Vangeli canonici sono parchi di informazioni sul quotidiano vissuto dei santi personaggi. In proposito scrive il Pitrè:
«I canti di questo genere non son pochi in Sicilia, e celebrano o la nascita di Gesù, o gli affetti de’ pastori, o la devozione de’ fedeli (sotto quest’aspetto si hanno le ninne nanne religiose). Quattro versi coi quali probabilmente cominciasi uno di cotesti canti sono i più comuni, e servono di tipo alla melodia popolare di tutti i canti natalizi:
A la notti di Natali / ca nasciu lu Bammineddu,/ e nasciu mmenzu l’armali / mmenzu u voi e l’asineddu.
È poi comunissima in Palermo una ninnareddha di Natale, che compendia la storia del lieto evento, eccola : Alligrativi, pasturi / già ch’è natu lu Misia / Bittalemmi a li fridduri / spostu n vrazza di Maria. / A sta nova santa e pia / li pasturi puvireddi / si parteru n cumpagnia / di l’affritti pagghiareddi. / Faràuti e ciarameddi / a dda grutta si purtaru / e diversi canzuneddi / a Gesuzzu cci cantaru (…)» [4].
Ma il popolo, non diversamente dai signori, gradiva e partecipava anche alle tante sacre rappresentazioni natalizie, dette pastorali, che almeno fin dal Medioevo venivano allestite negli oratori o nelle case private. Dalla seconda metà dell’Ottocento anche i pupari si diedero a rappresentare la Nascita di Gesù, utilizzando spesso le medesime pastorali, naturalmente opportunamente riadattate.
Alcune pastorali ci sono pervenute perché affidate alle stampe dagli autori, ma si tratta di testi di letteratura colta: come Il vero lume tra l’ombre di A. Perrucci [5], o La nascita di Gesù Bambino (ma il titolo originario era Le tenebre illuminate nella segnatissima notte del Santo Natale di nostro Signore) [6] di G. M. Musmeci Catalano, uno scrittore di Acireale. Quest’ultimo testo riveste una certa importanza, infatti il volgarizzamento di questo dramma del Musmeci Catalano, operato nei primi dell’Ottocento e pervenutoci manoscritto [7], dimostra il processo di discesa fra il popolo di questi testi, ed insieme le modalità in cui tale acculturazione si verifica. Molte di queste pastorali circolavano appunto manoscritte, come canovacci per gli attori dilettanti. Una di queste pastorali della fine del sec. XVIII è in mio possesso e il cui titolo è Operetta pastorale della nascita del Bambino Gesù [8].
Presso la Biblioteca Comunale di Siracusa, poi, è custodita una pastorale manoscritta: Opera pastorale del S. Bambino Gesù adorato dagli angioli, dai pastori e dai Maggi nella grotta di Bettlemme composta dal rev.mo Arciprete don Mario Moreno [9]. Si tratta di una pastorale in due atti con dialoghi in musica, di cui purtroppo non è pervenuto lo spartito. É scritta in italiano, ma con ampie parti in cui compaiono sia il dialetto siciliano, che un napoletano standardizzato: si tratta dei dialoghi di due personaggi comici quali Iàpico napoletano e Cola siciliano, la cui comparsa doveva suscitare le risa degli spettatori. Era un cliché nelle pastorali: esse, infatti, vivono di questi contrasti fra la serietà dell’evento narrato e la comicità dei dialoghi in vernacolo [10]. A Modica fino all’Ottocento si rappresentò una pastorale dal titolo Pastori della sacra notte. Componimento drammatico da cantarsi nella città di Modica per la solennità del SS. Natale [11]. Testo in italiano di contenuto arcadico di cui la parte più interessante, la musica, non ci è pervenuta.
Nel corso degli anni e fino ad arrivare ai giorni nostri, ho raccolto straordinarie filastrocche, la maggior parte fanciullesche, legate al Natale. Si recitavano non solo a Natale ma in ogni occasione ludica o di incontri tra adulti e bambini. Sono chiamati canti nel senso più ampio del termine: in effetti si tratta di cantilene, per lo più con un motivetto semplice ed elementare, tratti molte da canti più lunghi. Altri componimenti, quelli più narrativi, sono solo recitati (ma in origine dovevano essere cantati). L’area di raccolta è la Sicilia Orientale, e in particolare le province di Catania, Siracusa e Ragusa [12]. É naturalmente una piccola parte di un vasto archivio folklorico sonoro in mio possesso. Naturalmente la trascrizione non è quella scientifica, ma quella che può favorire una lettura più facile.
Molto studiati dai maggiori folkloristi siciliani come Pitrè, Salomone Marino, Avolio, Guastella, Uccello, anche per il forte impatto educativo che essi hanno sui bambini. Spesso sono racconti di episodi tratti dalla vita della Sacra Famiglia, momenti di esperienze quotidiane che mostrano la non troppo celata discendenza dai Vangeli apocrifi.
Una ne voglio qui trascrivere, recentemente raccolta (non si finisce mai!), che descrive un momento di vita familiare della Sacra Famiglia, e ci presenta un bambino Gesù “umano troppo umano”:
«La beddha Matri si misi a-ffilari / e si campava cu li so sururi, / lu Bbammineddhu cci ciccava pani / «O puotticci li ruobbi [?] ô patruni, / e passi ri la çiazza e-ccatti u pani / e ti lu mietti nna lu muccaturi». / La pannittera chi facia lu pani / «E ora chi cci ramu a Sarvaturi? / cci ramu na cuddhura quantu n-cardinali». / Ma ri la ucca m-potti sciri. / «E ora chi cci ramu a Sarvaturi? / cci ramu na puntiddha ri scacciuni». / «E nun-ni vuoiu no porci e futtuti / vi pozza divintà tuttu crauni. / E nun-ni vuoiu no porci e futtuti / vi pozza divintà tuttu crauni» [13].
Si tratta, dunque, di un canto (vero e proprio) che ci presenta un Bambino Gesù facilmente irascibile, che addirittura ricorre alle parolacce per maledire la fornaia irriverente.
Ma sono le novene il clou del Natale popolare. Non vi era paese dove gruppi di suonatori e cantori si riunissero in società a portare la novena per le case, come si è detto, a gruppi di almeno tre musicisti, o a gruppi più numerosi di origine bandistica. Ne cito qui solo quattro perché tuttora eseguite a Ferla, Pachino, Buscemi e Mineo (ma sono solo un piccolissimo “assaggio”).
La novena di Ferla: fu registrata da A. Uccello e di recente è stata pubblicata in Cd [14]. Quella di Uccello è però registrazione fuori contesto, come si vede dalla data di rilevazione e dalla casualità delle strofe cantate, mentre quella da me raccolta è contestuale. La mia registrazione è stata effettuata dal 16 al 24 dicembre 2004 ed è per voce maschile e strumenti musicali (fisarmonica, chitarra, flauto). La novena si canta tuttora per le strade del paese per nove giorni, il gruppo esegue tre strofe al giorno.
La novena di Pachino: registrata nel corso del Natale del 1986, presenta i caratteri della contestualità. La prima voce è quella di un vecchio contadino di Pachino. Oggi la novena è eseguita da gruppi di giovani e ragazzi che si spostano da un parruccianu (cliente) all’altro in motoretta. Il testo mi è stato dettato dall’ultimo cantore della novena. Ogni giorno si eseguono due strofe. Il gruppo comprende una voce e diversi strumenti: non mancano mai il clarino, la tromba e il sassofono.
La novena di Buscemi: non posso non parlare del cantore che mi ha trasmesso la “sua” versione, che è poi quella tradizionale: Salvatore Morsello, poeta popolare, grande affabulatore, custode di memorie collettive, scomparso alcuni anni addietro. La novena da me raccolta è stata registrata una trentina d’anni fa, quando tentammo di riproporre, tra le altre tradizioni, anche la novena, che lo stesso Morsello cantava per le strade di Buscemi, nel corso delle feste natalizie di Palazzolo A. (SR). Il Morsello era accompagnato da alcuni giovani suonatori di Buscemi.
La novena di Mineo [15] (a ninnareddha): da me registrata nel Natale del 1989, era cantata da un gruppo di ragazzini per le vie della città, accompagnati dalla banda musicale del paese. Ogni sera si intona una strofa, ma nell’ultimo giorno si aggiunge il saluto finale e la richiesta di denaro al cliente.
Il cibo
Alla tavola del Natale saremo in pochi. In pochi consumeremo il “sacro pasto” della festa, in pochi condivideremo la notti rê mpanati, come nel sud est si chiama la notte della vigilia di Natale. Ne parlo riportando un bellissimo passo di C. Spadaro [16]:
«Entrato dicembre, nelle case e nei paesi non c’è più zucchero che basti, e le galline e le pollastre vengono tastate sempre più spesso perché parte il triduo festoso – l’8 della Immacolata, il 13 di Santa Lucia, e il 24 di Natale – rituale terno da giocare “perché non si sa mai”!
Prima era ben più gravoso (un mese non bastava!), quando si scannava il porco e c’era da insaccarne le carni da salare in gran fretta. Oltre che col macellaio, ch’ era stato puntato da tutto il paese, c’era da mettersi d’accordo coi vicini ed i parenti per la cooperazione necessaria da ricambiare. Adesso non si cucina più con la sugna, la salsiccia si compra dal macellaio, ed i salumi – ma solo quelli ai quali fa la reclame la televisione! – al supermercato.
Ma è sempre un crescendo, perché ancora restano da manipolare in casa un sacco di cose: i pasticciotti per l’Immacolata ; il 13 la cuccia e l’ucchiuzzi di Santa Lucia; e poi il frequente “bum-bum” del cernere e ricernere farina dei crivelli, dalle trame sempre più sottili, nelle madie, e lo incessante sbattere dei pistoni nei mortai per pestare e ripestare mandorle e cannella per plasmarne mirabilmente, oltre che miliddi, funciddi, mustazzola, e nucàtula da decorare con aghi e punteruoli; e spicchiare mandorle e sceverare la giuggiulena per i torroni rituali di zucchero e miele. E, peggio, se c’erano da preparare cucciddati per mariti e nipoti: non c’era più mosto che bastasse, e fichi secchi e passola, e c’era un altro forno da ardere!
Ed alla vigilia di Natale le donne arrivavano stremate sì, ma ancora abili a scaniare pasta, percuotendola con forza sulla sbria, per preparare mpanati o pastizzi di bruocculi affucati, ed a cuocere cavolfiori appena-appena raccolti, ed alchemicamente subito tappati nei tegami a stufare in compagnia di olive nere, nchiappiteddi, anciovi ed uva passa.
Le restanti energie venivano impiegate per plasmare la mpanata con la sapiente disposizione nell’involucro di pasta – a luna piena o mezza luna, a secondo delle tradizioni ancestrali – destinata a stuzzicare il palato e ad animare la conversazione, fra il vocìo dei bambini, abbondantemente pepata per essere suscitatrice di reiterate chiamate di vino per far tacere il chiasso gioioso.
C’era da mettere, frenetiche, una fascina dopo l’altra fin tanto che la volta del forno non avrebbe biancheggiato, raccolta la brace alla bocca del forno e spazzatone il piano, la pala affidava al caldo alito del forno tappato il compito – man mano che se ne estraggono lanne e lanne, restituendo turgide e castane le ‘mpanate – di ripagare le fervide donne, finalmente raggianti, delle pene patite, e di stupire e saziare i commensali in festa, fra una distribuzione di cartelle della tombola o una chiamata di carte al sette e mezzo.
Data sosta allo sciorinìo di miniminagghi attorno alla conca, assaporate a guancia piena le mpanati fumanti e fragranti, si spezzeranno torroni, con un occhio al presepe o alla cona dalla sparaogna inalbata di batuffoli di cotone idrofilo, si addenteranno mustazzola, papali, viscotta rrizzi, si sgranocchieranno calia e fave, noci, nocciole caliati (così come facevano i nostri progenitori greci), e ci si farà la bocca con qualche fico secco.
Quante non rispettano la divuzioni di cuocerle in casa, le mandano ad infornare per essere più libere di rassettare la casa oppure le ordinano ai fornai, come si faceva già nel Medio Evo, quando non tutti avevano il forno in casa. Perciò le strade si rianimano nell’attesa che i fornai le consegnino all’ora stabilita, e vie e vicoli risuonano di passi svelti che lasciano scie aromatiche a condurre nei vari presepi, quasi fossero code di comete luminose a condurci alla Grotta.
É almeno dal Medioevo che fra noi si infornano e sfornano mpanati (le castigliane empanadas, le catalane panadas) che, nella Notte di Natale, ci richiamano alla mente il gremium Matris della Redenzione. Nel gioirne, ricordiamocelo riconoscenti».
Trascorsa la notte di Natale era costume lasciare la tavola imbandita con i resti della cena sparsi sulla tavola, perché si credeva che i morti di casa passando di là avrebbero consumato gli avanzi. La stessa cosa si faceva la sera dell’ultimo dell’anno. Al contrario nei giorni normali la tavola va sempre sparecchiata altrimenti gli angeli che han partecipato al pranzo non possono andare via. Un altro uso era legato alla quantità di componenti del pasto di Natale che dovevano essere in numero di trentatre, compresi le spezie, la frutta e lo scacciu.
La notte di Natale si possono apprendere le formule magiche e gli scongiuri, se si trova chi è disposto ad insegnarli: i più comuni sono quelli contro i vermi, il colpo di sole e soprattutto lo scantu.
«La cena [della notte di Natale], rallegrata sempre dal vino, ha pur essa le sue vivande e cibi di uso. Le così dette sfinci assai gradite al popolino, sono delle paste frolle fermentate, che si friggono e si spargon di zucchero e miele: camangiare che anche nel nome è arabo. Alcuni mangiano della pasta caciata e del baccalare. I più agiati preferiscono un pesce … le anguille o la morena (…); onde i pasticcieri ne imitano di pasta reale (marzapane) e di zucchero. Vanno altresì certe paste e tortelli e pani e dolciumi di varie fogge, che sono pressoché esclusivi di essa, e che si mandano in regalo da famiglia a famiglia, da comuni vicini e lontani. Noto per esempio, è celebre per la sua cutugnata, Modica per la petrafennula, Piazza pel turruni, Borgetto per la pignulata, Cammarata per le paste di vinu cottu, Corleone pe’ dolci di miele, Salaparuta pe’ lavori di rabesco sopra dolci pieni d’impasto di fichi secchi; ed anche nel ‘500 erano celebri le mustazzoli di Messina, cuddhureddi di Catania, nucatuli di Palermo. [...] In Modica nelle tre Collegiate e più nella chiesa di S. Maria di Betelem, gli assistenti alla cerimonia religiosa si forniscono di camangiari in buon dato; oltre i dolciumi e i ceci e le avellane torrefatte, non difetta mai l’indispensabile pasticcio, di anguille per chi ha molti quattrini, di seppia, di lumache, di cavolfiore, di cipolla pel popolo minuto. Uomini e donne, vecchi e fanciulli, durante gli uffizi ecclesiastici mangiano in chiesa a doppio palmento; e negl’intermezzi si danno ad imitare il canto delle pernici, delle quaglie, delle tortore, de’ rosignoli, o a fischiare maledettamente cacciando in bocca due dita. É curioso però che non recan vino con loro, amando meglio uscire di chiesa, e bevere nelle osterie [...]» [17].
Così si legge in una lettera autografa di Serafino Amabile Guastella indirizzata a Giuseppe Pitrè, una testimonianza preziosa di un mondo quasi del tutto dissolto.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Anni addietro ho registrato una di queste novene nel Modicano: voce, fischio, tamburo.
[2] Binidittu Annuleru (A. Di Liberto), Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu patriarca S. Giuseppi in Betlemmi, Palermo, Stamparia di la Divina Pruvidenza pri l’Eredi d’Aiccardu [1740], consultato il testo in F. Conigliaro, A. Lipari, C. Scordato, Narrazione e teologia del Natale. Viaggiu dulurusu di Maria santissima e lu patriarca S. Giuseppi in Betelemmi. Canzunetti siciliani di Binidittu Annuleru di la città di Murriali … Palermo, LIS Publischer, 1987. L’edizione “popolare” del Viaggiu si è protratta fino agli anni ‘60 del ‘900: l’ultima edizione di cui si ha notizia è stata pubblicata a Palermo, ed. De Magistris, 1963.
[3] I Vangeli apocrifi, a cura di Marcello Craveri, Torino, Einaudi, 1969.
[4] G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, Palermo, Il Vespro, 1978: 450-451.
[5] Napoli, 1668.
[6] G. M. Musmeci Catalano, Le tenebre illuminate nella segnatissima notte del Santo Natale di nostro Signore, Catania, Bisagni 1752.
[7] C. Musumarra, La sacra rappresentazione della natività nella tradizione italiana, Firenze, Olschki, 1957.
[8] Da me pubblicata in L. Lombardo, C. Spadaro di Passanitello, Vinni lu Bammineddu. Canti e tradizioni popolari del Natale in Sicilia, Acireale, Bonanno, 2005.
[9] Musica del rev. sac.te don Raimondo Palau, m.ro di cappella dell’Ill.mo Senato di detta città, in Augusta, 1757.
[10] Vari esempi riporta il Buttitta riprendendoli dal Pitrè cfr. A. Buttitta, Il Natale. Arte tradizioni in Sicilia. Palermo: Guida, 1985: 42 e segg. Altri si possono leggere in A. Uccello, Il presepe popolare in Sicilia, Palermo Flaccovio, 1979.
[11] Parole di Cesare Fiorviole, musica di don Pietro Arrabito, maestro di cappella della stessa città. In Catania, Nella stamperia del Pulejo, 1750.
[12] Raccolte a Palazzolo, Buccheri, Pachino, Zafferana, Acireale, Ragusa.
[13] La Bella Madre si mise a filare /e viveva col suo sudore /il Bambinello le cercava pane / «Porta la roba al padrone / e passa dalla piazza e compri il pane / e te lo metti nel fazzoletto». / La panettiera che faceva il pane / «E ora che ci diamo a Salvatore? gli diamo una coddhura quanto un cardinale». Ma dalla bocca [del forno] non poté uscire. / «E ora che ci diamo a Salvatore?» / «Gli diamo una punticina di scaccione». / «E non ne voglio no, o porci fottuti / vi possa diventare [il pane] tutto carbone!».
[14] Antonino Uccello etnomusicologo, a cura di G. Pennino, Palermo, Assessorato beni culturali, 2004: 80-84.
[15] Cfr. Ninnaredda del Natale, a cura di C. Spadaro, Giuliana Spadaro, Catania, edizioni d’arte di Matilde Scandurra, 1994. La famiglia Spadaro-Condorelli è solita cantarla ogni notte di Natale davanti al presepe.
[16] Ivi: 71-74.
[17] Lettere di Serafino Amabile Guastella a Giuseppe Pitrè, Carteggio epistolare (1873-1898), a cura di G. Brafa Misicoro, Palermo, Museo etnografico Pitrè, 2003: 31.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate ha di recente pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa.
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