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Uguaglianze e differenze: l’inclusione delle minoranze a scuola in varie esperienze di ricerca

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Jaffa (ph. S. Leoncini)

di Sabina Leoncini

«Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali». I principi ai quali si riferiva Don Milani e la Scuola di Barbiana (1967: 55) sono sanciti anche dalla Costituzione italiana in particolare dall’articolo 3 che garantisce la libertà e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, dall’articolo 6 che fa riferimento alla tutela delle minoranze linguistiche con apposite norme e dall’articolo 8 che stabilisce che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge (Assemblea Costituente, 1947). Sul concetto di uguaglianza e di diversità da sempre il dibattito è molto acceso, dal punto di vista pedagogico quanto antropologico. Gallissot, Kilani e Rivera (2001: 16) dicono infatti che «Parole e categorie come razza, etnia, cultura, non hanno niente a che vedere con la natura delle cose, sono costruzioni sociali, prodotti storici e in quanto tali mutevoli, arbitrari, convenzionali».

L’antropologo, sostengono Callari Galli e Harrison (2019),

«nel moderno tentativo di comprendere la varietà fisica e psichica umana, ha radicato la propria interpretazione in un duplice assunto: quello del carattere universale della “civilizzazione umana” (che è il tratto comune e condiviso, e quindi assoluto, di tutta la specie), ed il differenziale particolarismo storico di ogni sistema socio-culturale (che è caratteristica universale di tutti i gruppi umani)».

A scuola però, come in altri luoghi in cui avviene un processo di socializzazione, condivisione, di un percorso, che dura negli anni e che coinvolge i suoi protagonisti per tantissimo tempo, (ogni bambino iscritto al tempo pieno frequenta la scuola normalmente per circa 40 ore a settimana) avviene un processo di contaminazione di realtà culturali, di micro-mondi, di lingue, di storie, di particolarismi creando qualcosa di nuovo, di inedito, di sconosciuto, di “mescolato”. Per questo gli/le insegnanti attraverso strategie innovative possono trasmettere saperi che favoriscano lo sviluppo di intelligenze e stili di apprendimento differenti attraverso la personalizzazione del percorso di ogni bambino. Una buona scuola è fatta da insegnanti che si mettono in gioco, sono pronti a lavorare in un sistema formativo di qualità in cui sono loro i primi a confrontarsi con le uguaglianze e le differenze per migliorarsi e permettere alle menti del futuro di esprimersi nella loro complessità.

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Asilo arabo-ebraico in Haifa, ph. Avishag Sh’ar-Yashuv

Da questo presupposto parte la mia riflessione: perché fare ricerca in contesti educativi, in particolare se parliamo di contesti di conflitto? Come sostengono Beckerman e Tatar (2012) «Education cannot all by itself do the magic but might still hold some openings to better, if only a bit, the world». L’educazione non può certo fare miracoli ma può creare aperture di miglioramento, del mondo in generale; mi permetto di aggiungere che in situazioni di conflitto e di resilienza, in cui l’incontro tra realtà culturali diventa talvolta uno scontro, la scuola e i contesti educativi possono essere zone franche, in cui il giudizio è sospeso e si possono condividere buone pratiche che favoriscano sincretismi e non radicalizzazioni. Nelle ricerche sulle scuole bilingue in Israele condotte da Beckerman sono stati analizzati in particolare tre aspetti che influiscono sulla condizione scolastica delle minoranze a scuola, in particolare: la storia come tema controverso maggioranza-minoranza; il linguaggio come primo fattore di inclusione/segregazione; le definizioni che danno della/e minoranza/e chi ne fa parte. Partendo da quest’ultimo aspetto, ho chiesto ad alcune insegnanti di presentarsi brevemente prima di svolgere un’intervista con me. Alcune di loro sono state molto chiare e si sono in qualche modo definite; altre lo hanno fatto attraverso una storia, poiché, come sostiene Arendt, «le storie permettono di rivelare i significati senza commettere l’errore di definirli» (1973: 107), in particolare quella di Yael mi ha colpito particolarmente:

«Prima di tutto e davvero prima di tutto sono una donna e una madre. Che è molto molto importante per me. Ora mi trovo in mezzo a un dilemma perché avrei detto ebrea e israeliana ma queste due parole mi creano molto conflitto. Se le prime due mi danno sicurezza e mi ci immedesimo molto, invece per le altre due ho problemi, non mi ci identifico pienamente. Rispetto alle seconde due parole è qualcosa che è così ma non è che mi è stato chiesto di esserlo. Così sono venuta al mondo, a volte proprio non lo amo, a volte non amo l’etichetta che mi è stata data e per questo sono molto critica con tali definizioni ma è parte di me. Mi definisco quindi ebrea ma non religiosa» (Leoncini, 2018:13).
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Jaffa, Mahmoudiya Mosque

Yael è stata una delle persone che mi hanno maggiormente sostenuto durante la mia ricerca a Jaffa che ha coinvolto tutti i gradi della scuola, alcuni giardini pubblici, insegnanti, genitori, assistenti sociali e volontari delle ONG, studenti, studiosi. Dalle risposte degli intervistati, quando gli ho chiesto di definire la loro identità, emerge che le minoranze si sottopongono a se stesse incorporando il fatto stesso di essere tali (Butler, 2015). La maggior parte degli arabi residenti in Israele intervistati si definisce come tale, un terzo aggiunge anche la parola palestinese, successivamente aggiunge un aggettivo che definisce le loro inclinazioni religiose. Degli israeliani intervistati più della metà si definisce tale e più di un terzo precisano con un aggettivo le loro inclinazioni religiose.

A questo proposito è molto interessante il concetto di “minoranza intrappolata” definita da Rabinowitz e Monterescu (2007), che lega l’aspetto della definizione della propria identità a quello linguistico e a quello storico al quale accennavo sopra riferendomi agli studi di Beckerman. Essere un arabo israeliano che vive in città miste come Jaffa significa avere opportunità ma anche vivere in tensione e contraddizione. A differenza degli arabi che vivono al Nord in villaggi totalmente arabi, loro vengono definiti da alcuni studiosi come una “trapped minority” (Monterescu e Rabinowitz, 2007), in quanto contemporaneamente sono etichettati dagli arabi come loro vicini israeliani ma la loro “israelità” li tiene lontani dai palestinesi e dagli arabi di tutti gli altri Paesi. Sono cittadini formali di un Paese che nega ai non ebrei un genuino senso di appartenenza, sono intrappolati in un fuoco incrociato politico e culturale tra il loro stato e la loro nazione (Ibidem). Alcuni di loro si definiscono come una “doppia minoranza”.

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Jaffa, Clock Tower Square

Più del 70% dei 70 mila palestinesi che nel 1948 risiedevano a Jaffa, lasciarono le proprie abitazioni durante la guerra e i primi anni ’50 videro Jaffa diventare prevalentemente una città ebraica. Nel 1950, dopo un periodo di legge militare, perse lo status autonomo e fu annessa alla municipalità di Tel Aviv. La Jaffa di oggi appare, come la descrivono i media, un luogo dove regna la criminalità, c’è un sistema scolastico povero e seri problemi di droga.  Nelle interviste che ho realizzato emerge infatti quanto le donne che lavorano all’interno di associazioni, istituzioni scolastiche bilingue e ONG, attraverso le loro storie di vita rielaborino la loro condizione di essere parte di una minoranza e di quanto siano più o meno consapevoli delle discriminazioni che subiscono. C’è altresì una Jaffa solidale, quella della convivenza, della solidarietà di genere, anche se fatica ad emergere. Un esempio di quanto il diritto ad essere liberi di parlare la propria lingua, di professare la propria religione, di vivere la propria cultura non sia tale nella realtà, è la storia di Silvie, coordinatrice di un nido bilingue privato a Jaffa.

«Non mi sento di vivere in un ambiente di uguaglianza, né socialmente né a livello educativo. Vengo da una famiglia, da un ambiente e da una vita in cui non ho mai vissuto in una situazione di uguaglianza. Non mi sono mai sentita accettata dall’altro perché mia madre è cristiana e mio padre è ebreo. Tutto si riconduce alla lingua, se parli una lingua diversa gli altri ti squalificano. Vedi veramente che gli altri ti giudicano. Vedi che l’altro non ti accoglie. La religione è un altro dei motivi di discriminazione e a me è successo di esser discriminata per entrambi i motivi, sia la religione che la lingua. Si percepisce così il risentimento degli altri bimbi. Oggi gli educatori dovrebbero insegnare ai bambini ad accettarsi l’un l’altro. Se ci fosse stata e ci fosse ancora un’educazione nella direzione giusta, non ci sarebbe stato il razzismo, la distanza, il distacco. Il razzismo non è solo contro gli ebrei, non dipende solo dalla religione ma anche da tutto il resto. Io sono convinta, e lo dico a mio discapito dato che anch’io sono un’educatrice, che il razzismo è creato dal fallimento degli educatori. Per questo è importante il mio lavoro, perché io sto provando a creare uno spazio di incontro, che a me, quando frequentavo il College de Freres è comunque mancato. Oggi parlo ebraico, arabo e armeno ma quand’ero piccola non ero accettata dagli arabi perché ero armena, dagli ebrei perché ero armena, dagli armeni perché ero mista. Oggi voglio essere accettata però per quella che sono e non voglio essere cambiata dagli altri» (Leoncini, 2018:69).

Oltre a Silvie, Yael del nido d’infanzia Maon Wizzo, Diana della scuola dell’infanzia Gan Hashalom, e Rada della scuola privata superiore francese College des freres hanno tutte in comune racconti simili; tutte si descrivono come intrappolate per vari motivi: Silvie perché è armena ma ebrea e sposata con un arabo cristiano, Yael è israeliana ma non religiosa, Diana è cristiana copta, Rada è musulmana e anche una studentessa di dottorato alla TAU e lavora in una scuola di ideologia cristiana.

Il concetto di identità di Fabietti (1995) come costruzione e l’idea di categorizzazione di Douglas (1975) ci dimostrano che è davvero pericoloso porre troppa enfasi sul concetto di identità. L’identità viene infatti vista come una tessera associativa, un passaporto sociale – come sostiene Kimmerling (2000) – una parte dell’essere umano dalla quale non ci si può staccare. A volte si può però anche prendersi gioco delle identità, divertirsi a scambiarle, proprio per demonizzare etichette, categorizzazioni e suddivisioni estreme. Ha pensato a questo la regista Nadine Balaki con il suo film «E ora dove andiamo» (2011), in cui un gruppo di donne per superare il dolore e il conflitto tra i propri mariti, si inventano una strategia e collaborano in maniera solidale scambiandosi di identità e inventandosi escamotages per superare l’odio tra cristiani e musulmani.

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Jaffa, Tabeetha school, ph. Claire Hajaj

La collaborazione e la cooperazione sono pratiche diffuse anche a scuola proprio per lo stesso motivo (Guerra, 2015) anche se con modalità diverse.  Ma che percezione hanno i genitori della loro capacità di incidere sul livello di uguaglianza sociale presente a Jaffa? Le loro risposte sono le più varie, con un bilanciamento tra risposte totalmente negative e altre totalmente positive (Leoncini 2018: 116). Alcuni bisogni fondamentali per i genitori, come quello dell’uguaglianza sociale ed educativa, sono sicuramente bisogni universali, bisognerebbe quindi forse parlare di etnicità senza gruppi invece di parlare di gruppi etnici senza individui etnici (Brubaker, 2004). Educatrici, insegnanti e genitori fanno parte di un sistema educativo che non è il loro ma che loro tentano di cambiare dall’interno. Questo perché le istituzioni si dimostrano come il solo mezzo efficace di esercitare il potere di violenza simbolica in un certo Stato attraverso rapporti di forza e disposizioni più o meno tolleranti nei confronti della manifestazione esplicita e brutale dell’arbitrario (Bourdieu e Passeron, 2006b: 53). Proprio come spiega Anderson (1983), qualunque comunità politica la cui dimensione abbia superato una soglia minima, non potendo più affidare la percezione di appartenenza a un medesimo gruppo e all’interazione faccia a faccia tra i suoi membri, deve necessariamente fondare la percezione della propria identità e coesione interna sull’immaginazione delle persone che permette loro di percepirsi come membri di quel gruppo. Così la percezione dell’essere una comunità di ebrei a Jaffa apparentemente sovrasta lo status comune di essere genitore e di avere quindi gli stessi bisogni per i propri figli.

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da Hand in Hand, Educational Resource Center

Quando s’indaga in profondità però su questi temi, interpellando i diretti interessati si nota quanto in realtà ci sia corrispondenza nei bisogni stessi (Ibidem), quanto sia complesso il contesto e quanto conti la personale opinione di ognuno rispetto alla commistione tra i vari aspetti del quotidiano. Se Padre Arturo, direttore della scuola “Terrasanta” di Jaffa sostiene che  «la religione qui (in Israele)  è totalizzante» (Leoncini, 2018:117), sicuramente si riferisce a quanto questo aspetto del quotidiano influisca sulla scelte educative di insegnanti e genitori; d’altra parte c’è chi come il professor  Menachem che insegna Sociologia alla scuola Ironi Zain di Jaffa utilizza il termine «ninja» parlando delle ragazze arabe che indossano il chador (Ivi:118), quindi impiegando liberamente stereotipi di basso livello, etichettando i propri studenti e le proprie studentesse.

Spesso anche quando si parla di Sud Africa ci si trova davanti a identità considerate rigide e fisse, con la “whiteness” trattata come superiore intellettualmente e biologicamente e la “blackness” come subalterna (Riegel 2012). In questo senso il rischio di una educazione interculturale non appropriata è quello di riprodurre confini simbolici stabiliti, appartenenze e relazioni di potere mentre ci focalizziamo su differenze culturali.

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Jaffa, ph. Claire Hajaj

A questo punto viene da chiedersi, quali idee hanno bambini, genitori e insegnanti di uguaglianza sociale? La maggior parte dei genitori di Jaffa afferma che a scuola c’è uguaglianza ma non al di fuori di essa (Leoncini 2018). Questa tensione è molto legata allo status socio-economico di alcune aree della città, e alla dimensione del conflitto israelo-palestinese; ciò nonostante diverse iniziative a Jaffa stanno attualmente cercando di promuovere l’uguaglianza sociale. Una di queste è l’organizzazione di un orto pubblico accanto alla scuola Weizman (una scuola primaria con un passato di segregazione della minoranza palestinese) in cui collaborano insegnanti e genitori per la semina e la raccolta non solo di frutta e verdura ma anche di semi di convivenza. Numerose associazioni inoltre sono presenti sul territorio e contribuiscono con varie iniziative tra le quali la conduzione a scuola di laboratori di sensibilizzazione alla memoria storica (ad esempio la ONG Zochrot) e la creazione di progetti di convivenza (come ad esempio asili nido e scuole bilingue).

Se da un lato ci sono iniziative che mirano alla convivenza a Jaffa, le disuguaglianze e l’incitazione al razzismo sono tuttavia molto diffuse su scala nazionale e sempre più all’ordine del giorno. Basti pensare alle ultime affermazioni del Ministro per la sicurezza Gilad Erdan che ha espressamente detto che «It’s a very, very, very violent society, it’s connected to the culture there. A lot of disputes that end here with a lawsuit, there they pull out a knife and gun. A mother can give a son permission to murder the sister because she’s going out with a man who’s not pleasing to the family»[1].

Anche la lingua è un aspetto estremamente discriminante, in quanto nessuno degli israeliani che ho intervistato parla arabo ma la maggior parte dei palestinesi è bilingue. C’è quindi una disparità di fondo anche a livello professionale se confrontiamo l’accesso alle carriere.

«Mi definisco come ebrea israeliana. Il mio ruolo non è quello di entrare nel vivo dell’insegnamento ma quello di essere culturalmente sensibile. Non posso fare il counselor allo stesso modo con una ragazza ebrea o con una araba musulmana. Questa è una scuola ebraica, con il 25% degli studenti arabi. Devo essere molto sensibile con la cultura e capire qual è la situazione migliore per loro e capire quali sono le persone che loro prendono come esempio all’interno della loro comunità, chi è il leader. Devo essere molto rispettosa, altrimenti non faccio bene il mio lavoro. Quindi la difficoltà maggiore è accettare la cultura degli altri» (Leoncini, 2018:133).

Come si evince dall’intervista con Nava, la frase di Don Lorenzo Milani è ancora molto attuale e applicabile a questo contesto. Oggi il clima di violenza descritto nelle proteste della comunità araba palestinese proprio in questi giorni e la condizione di “minoranza intrappolata” di cui parlano Rabinowitz e Monterescu, ci riportano al linguaggio del film girato da Scandar Copti e Yaron Shani, Ajami [2]. Shahir Kabaha, attore protagonista del film, che vive ancora oggi a Jaffa, esprime durante la nostra intervista, la sua difficoltà a presentarsi con il suo vero nome ai coetanei ebrei durante l’adolescenza, proprio per questo conflitto interiore tra la realtà familiare di una famiglia araba musulmana e quella del mescolarsi alla realtà ebraica e mista di Jaffa (Leoncini, 2018:120). Ma cosa intendiamo quando ci riferiamo a realtà miste? «La nozione di misto ha un’importanza centrale nella formazione delle interpretazioni dell’identità e della sicurezza di sé, di avere un posto nel mondo, interpretando la qualità delle relazioni tra individui, tra comunità, tra Stati nazionali, e tra religioni» (Khan, 2004).

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da Hand in Hand, Educational Resource Center

Spostandoci nei Balcani possono esserci di aiuto gli studi compiuti presso il Gymnasium Monstar, in particolare nel saggio dal titolo «Il fumo non uccide, unisce!» (Hramadzic, 2009) in cui vengono descritte scene di vita quotidiana di ragazzi bosniaci e serbi che si incontrano solo in cortile, uniti dalla “pausa sigaretta” nascosti dagli insegnanti, in cui possono socializzare. Mescolarsi è quindi un tabù e questo è confermato anche da alcuni genitori israeliani che dicono che è più comune per uno yaffoit [3] sposare una donna europea che araba. La maggior parte dei genitori che ho intervistato a Jaffa, sottolinea da un lato i vantaggi delle loro esperienze all’interno di un asilo misto, come ad esempio l’apprendimento di un’altra lingua, l’esposizione ad altre culture e l’alta qualità dell’istruzione. D’altra parte questo processo di “mescolarsi” non continua dopo la scuola, a casa o in luoghi pubblici (Beckerman 2004). Ecco l’importanza dell’apertura di scuole miste che favoriscano, come riportava Silvie, degli spazi dell’incontro.

L’accettazione e il rispetto sono fondamentali nelle scuole miste, la maggior parte degli insegnanti sono d’accordo ma insegnare in una scuola mista non è semplice. Un’insegnante dice che dopo una collega araba ha lasciato casa sua avendo lavorato insieme, i suoi figli hanno detto: «Mamma, anche se è araba è carina!». Questa stessa insegnante racconta di una madre che ha detto: «Non invierò mia figlia con una maglietta bianca a scuola perché questa non è la nostra festa!» riferendosi al giorno dell’Indipendenza. Un’altra afferma: «Devo sempre scegliere i ruoli nelle attività o nei gruppi usando delle conte perché è l’unico modo in cui i bambini sanno che non sto dando una preferenza a qualcuno, hanno davvero paura di essere esclusi o discriminati. Questo perché a casa o in strada funziona così» (Leoncini, 2018:132).

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da Hand in Hand, Educational Resource Center

Vorrei concludere questa riflessione sui concetti di uguaglianze e differenze riportando una frase molto significativa di una insegnante della scuola dell’infanzia, Gan Ha Shalom. «Mangiamo tutti dallo stesso piatto e in situazioni come quella che stiamo vivendo adesso le bombe non sanno se sei ebreo o arabo!» (Ibidem). Se da un lato rimangono forti limiti linguistici poiché «Yea, it is important to know Arabic, I just don’t like learning it» (Beckerman 2009), molti bambini si rifiutano di imparare questa lingua per la difficoltà rispetto all’ebraico; numerosi sono gli studi sulla connessione tra l’acquisizione della seconda lingua e la sua valenza a livello culturale. Uno sguardo ad altre ricerche sul tema del multilinguismo prima di tornare in Italia, potrebbe essere utile in questa sede per ampliare dal locale al globale la nostra riflessione, come è consuetudine dell’antropologo. In particolare mi riferisco agli studi tra cui quelli di Romaine (1999) sull’acquisizione delle lingue in contesti multilinguistici, le ricerche di Zembylas (2009) a Cipro sull’identità come legata alla storia e alla cultura e il progetto ministeriale «I know, I don’t forget and I struggle». Non meno importanti sono le ricerche di Cacic-Kumpes (2012) in Croazia sull’educazione in rapporto alla formazione dello Stato, quelle di Lengyel (2012) in Germania sull’habitus monolinguista e monoculturalista riscontrabile  già dalla prima infanzia, gli studi di Valdès (1997) sui programmi di immersione bilingue negli Stati Uniti, attraverso i racconti dei piccoli Maria e Andrew che dimostrano che la lingua non è isolata dalla politica e dal potere ma è un mezzo di riproduzione della cultura dominante.

A questo punto mi chiedo: cosa succede nelle scuole italiane? Sarebbe interessante chiedere a insegnanti e genitori se sono a conoscenza del fatto che anche in Italia esiste una quota massima di stranieri presenti in classe stabilita dalle Linee guida per l’integrazione degli alunni stranieri (2014). Esistono anche situazioni di estrema difficoltà [4] in cui il mescolarsi non è un processo genuino e naturale e non si crea quello spazio di incontro al quale abbiamo varie volte accennato in questa riflessione. Tornando alla frase di Don Milani con la quale ho iniziato questa riflessione, vorrei, come insegnante oltre che come studiosa, evidenziare l’impegno che ogni singolo docente può mettere nel suo lavoro, fermo restando che alcune buone prassi possono ad ogni modo favorire una scuola più inclusiva. Tra queste sicuramente le scuole che appartengono alla Rete Nazionale di scuole senza zaino [5] promuovono la cooperazione e lo sviluppo delle relazioni del bambino con i propri coetanei, disincentivando la competizione e sostenendo l’inclusione. Ad ognuno compete il suo incarico, ad ognuno il suo momento di relax nella biblioteca interculturale della classe, ad ognuno la strategia e la tempistica più adatta proprio come sostiene Bruner (1962): «The foundations of any subject may be taught to anybody at any age in some form».

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Jaffa, ph. S. Leoncini

Sicuramente anche l’utilizzo delle tecnologie, la didattica laboratoriale e le tecniche visuali in ambito educativo offrono un grande contributo nella didattica inclusiva perché permettono ai bambini con difficoltà, a chi ha bisogni educativi speciali, agli stranieri, a chi fa parte di minoranze, di utilizzare un linguaggio diverso da quello verbale (Leitch, 2008) e di sviluppare un atteggiamento attivo dei bambini nei confronti della conoscenza, basato sulla curiosità e sulla sfida. Il «sapere» diventa così una conquista personale a cui tutti, nessuno escluso, possono aspirare e l’educazione non assume più un ruolo di preparazione per la vita, ma fa parte della vita stessa attraverso un processo di autoriflessione sulle proprie esperienze. La classe diviene quindi un laboratorio a cielo aperto dove insegnanti e ragazzi/e possono cooperare per creare competenze in un ambiente di apprendimento ricco di significato e di mutuo scambio.

Un buon ambiente di apprendimento è caratterizzato infatti dalla capacità di valorizzare l’esperienza e le conoscenze degli alunni, di attuare interventi adeguati nei riguardi delle diversità, di favorire l’esplorazione e la scoperta, di incoraggiare l’apprendimento collaborativo, di promuovere la consapevolezza del proprio modo di apprendere, di realizzare attività didattiche in forma di laboratorio. Così creiamo un dialogo tra le discipline e condividiamo esperienze verificando attraverso compiti autentici la capacità dei bambini e delle bambine di districarsi nella vita reale e quotidiana. Proporre un compito autentico può essere infatti utile per misurare le competenze acquisite e spenderle nella vita reale allo scopo di risolvere un problema concreto. I bambini così costruiscono il loro sapere in modo attivo e in contesti reali e complessi e lo usano in modo preciso e pertinente, dimostrando il possesso di una determinata competenza, rapportandosi anche al proprio territorio di appartenenza e alle realtà associative presenti. Una parte importante di questo processo è l’autovalutazione che può essere svolta attraverso varie modalità come indicato, nel caso dell’Italia dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo (2012).

«La valutazione precede, accompagna e segue i percorsi curricolari. Attiva le azioni da intraprendere, regola quelle avviate, promuove il bilancio critico su quelle condotte a termine. Assume una preminente funzione formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo».

Concludo con le parole di Hramadzic: «Gli individui negoziano le loro identità mentre costituiscono e sono costituiti da esse». Poiché nel processo conoscitivo ci si mette sempre in discussione, come insegnanti, come osservatori o come discenti, nutrire il proprio sguardo di uguaglianze e differenze non può che essere una tappa importante del processo stesso di conoscenza e di apprendimento.

Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
 Note
 [1] Cfr.https://www.timesofisrael.com/police-minister-called-racist-after-blaming-arab-culture-for-violence/.
[2] https://www.youtube.com/watch?v=Q6M-ng9XLyU.
[3] Abitante di Jaffa.
[4] Ad esempio il caso di alcune scuole di Prato o zone limitrofe
https://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2013/09/11/news/troppi-cinesi-in-classe-all-
istituto-dagomari-i-ragazzi-chiedono-di-cambiare-1.7725603.
[5] Scuolasenzazaino.org.
Riferimenti bibliografici
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Beckerman Z., “Yeah, it is important to know Arabic, I just don’t like learning it”, in (a cura di) Beckerman, Z., Mc Glynn, C., Zembylas, M.,Gallgher,T., Peace Education in conflict and post–conflict societies, London, Palgrave Mcmillan, 2009.
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Callari Galli M. e Harrison G., Società delle minoranze multiculturali, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 39, settembre 2019.
Don Lorenzo Milani e la Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.
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Galissot R. Kilani M., Rivera A., L’imbroglio etnico in quattordici parole-chiave, Roma, Meltemi, 2001.
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Hramadzic H., «“Smoking does not kill; it unites!” Cultural meanings and practices of “mixing” at the Gymnasium Mostar in Bosnia and Herzegovina», in (a cura di) Beckerman, Z., Mc Glynn, C., Zembylas, M., Gallgher, T., Peace Education in conict and post–conict societies, London, Palgrave Mcmillan, 2009.
Indicazioni Nazionali per il curricolo, Annali della Pubblica Istruzione, Periodico multimediale per la scuola italiana, a cura del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Firenze, Le Monnier, 2012.
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Sitografia
Balaki, N.  2011 E ora dove andiamo? Prodotto da Eagle Pictures https://www.youtube.com/watch?v=29oDA1EbKHM
https://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2013/09/11/news/troppi-cinesi-in-classe-all-istituto-dagomari-i-ragazzi-chiedono-di-cambiare-1.7725603
 https://www.timesofisrael.com/police-minister-called-racist-after-blaming-arab-culture-for-violence/.
Coopti S. e Shani Y., 2009 Ajami prodotto da M. Danon, Thanassis Karathanos,TaliaKleinhendler.  https://www.youtube.com/watch?v=Q6M-ng9XLyU.
scuolesenzazaino.org

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Sabina Leoncini, antropologa, è Dottore di Ricerca in Scienze della Formazione. Il suo principale ambito di interessi è l’educazione mista in Israele/Palestina; si è occupata anche del significato socio-culturale del muro che separa Israele e Cisgiordania. Ha collaborato con alcune Università straniere tra le quali l’università Ebraica di Gerusalemme (HUJI), l’Istituto Universitario Europeo (EUI) di Fiesole, l’Università Ludwig Maximilian (LMU) di Monaco.  Ha usufruito di varie borse di studio (MAE, DAAD) e partecipato a progetti ministeriali tra cui PON e progetti europei, in particolare all’interno del programma Erasmus Plus per i quali è referente presso l’Istituto Comprensivo dove lavora come insegnante di scuola primaria dal 2017.

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