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Un breviario di linguistica laica

sgroi-copertina-scelta_page-0001di Claudio Marazzini [*] 

Il titolo che Salvatore Claudio Sgroi ha scelto per questo libro, La lingua italiana del terzo millennio tra regole, norme ed errori, suggerisce una descrizione dell’italiano del nuovo millennio attraverso 79 “fotografie”, istantanee che catturano l’aspetto mutevole della realtà. Mi sembra un termine molto appropriato, quello scelto dall’autore: indica il tipo di lettura, rapida, impressiva e folgorante, e anche il modo particolare di accostarsi ai problemi linguistici. Potremmo immaginare, per restare nella metafora, un fotoreporter che esplori il mondo con sensibilità sempre viva per lo spazio geografico in cui ha scelto di condurre la propria inchiesta, al collo la reflex, con un buon obiettivo capace di zumare gli oggetti che sollecitano interesse, per scattare immagini a raffica, pronte per la cronaca.

Immagini calde, ricche di attualità, testimonianze della storia del nostro tempo. Rapidità, prontezza, immediatezza: queste sono le prime doti necessarie. Ma non basta. Occorre poi il commento, e per questo il glottologo Sgroi ricorre a una solida base teorica, che fonda le sue radici nelle idee di alcuni linguisti che gli sono particolarmente cari, e i cui nomi si trovano anche in questi saggi. Penso a Ferdinand de Saussure, a Tullio De Mauro, citato molto spesso nelle pagine che seguono, e a Eugenio Coseriu, che è citato di meno, ma al quale Sgroi ha sempre guardato con ammirazione.

Le metaforiche “fotografie” che compongono il libro nascono senza dubbio da un’attenzione continua, una curiosità sempre viva per gli eventi della cronaca e per le polemiche linguistiche suscitate da neologismi e forestierismi, dalla notizia di presunti “errori” commessi da parlanti celebri, da uomini politici, da personaggi della televisione. Il terreno di caccia è la cronaca quotidiana, in cui la lingua ha sempre una parte rilevante. Tuttavia, dopo la cronaca, Sgroi scatena il suo gusto di cacciatore di forme linguistiche per rendere la fotografia tridimensionale, per girare e rigirare l’immagine che ha dato l’avvio alla sua osservazione. Nel far ciò, opera sulla base di una precisa e forte teoria, alla quale resta sempre fedele, e che può essere facilmente avvicinata dal lettore scorrendo, proprio all’inizio del libro, lo Zibaldone sul linguaggio e la lingua, una raccolta di 25 “Pensieri”, cioè una raccolta di massime tratte da autori celebri, Roberto Escobar, Hans G. Gadamer, Gian Luigi Beccaria, Benedetto Croce, Don Milani, Jan Baudouin de Courtenay, ma soprattutto Giovanni Nencioni, che qui fa la parte del leone, e spicca pur tra cotanto senno per la quantità di citazioni.

La teoria di Salvatore Claudio Sgroi è in sostanza una sorta di Credo linguistico, quasi una fede, che si riassume nella formula della “linguistica laica”. Con questo nome, si intende l’atteggiamento non giudicante ma esplorativo con cui l’autore esamina sistematicamente le forme della lingua, via via oggetto di discussione, per mostrare come la definizione di ‘errore’ non possa essere utilizzata nella sua accezione vulgata, perché l’errore è in realtà ai suoi occhi il banco di prova per sperimentare il funzionamento di regole, non le regole ufficiali della grammatica normativa, ma quelle funzionali che operano nella mente del parlante, le quali si ricollegano talora a una tradizione antica, non di rado dimenticata o volutamente messa da parte.

L’autore parla a questo proposito di “regole nascoste”. Scoprire l’esistenza e la forza di queste regole nascoste è uno dei compiti che Sgroi si prefigge, anche perché proprio nella loro vitalità sta un argomento forte a sostegno della battaglia che, istintivamente e razionalmente, conduce da anni contro le vecchie e nuove manifestazioni di purismo, e in seconda battuta (con più dolcezza) contro il neopurismo. Questo spiega come mai spesso si trovi a discutere o rivedere le affermazioni di colleghi e amici, linguisti celebri come Luca Serianni, Francesco Sabatini, Vittorio Coletti, Giuseppe Patota, Paolo D’Achille, e anche quelle del sottoscritto.

La ricerca di Sgroi parte dal presente e si allarga spesso verso il passato, scavalca i confini della lingua nazionale, arricchendosi di riferimenti ad altri idiomi, con un esame comparativo e un grande dispiegamento di strumenti lessicografici di ogni tipo, dizionari bilingui, storici, etimologici, repertori di ogni genere. Accanto a questi strumenti cartacei, Sgroi fa volentieri riferimento alla Rete, a Internet. Non di rado scherza sull’uso della Rete: per esempio, cita un presunto o reale “amico” che gli invia suggerimenti per navigare in Internet, conoscendo la sua refrattarietà (così dice) a muoversi in quello spazio sfuggente. Sfuggente davvero, questo spazio. Quando troviamo citato un libro, possiamo andare a verificare la pagina, per assicurarci che i dati siano stati utilizzati nel modo giusto. Si chiama “controllo delle fonti”, ed è il segreto più sicuro a cui ricorre chi ha una mentalità scientifica almeno elementare.

mediaIl suo metodo in questi saggi ‘fotografici’ si caratterizza anche per una forma molto caratteristica di scrittura e per una testualità ben definita, legata a un impiego che non è nato per la Rete, ma che con la Rete si concilia assai bene, tanto che trova una collocazione favorevole nel Blog. Capoversi brevi, con titolazione fitta. Esempi in grande quantità, citati con la loro fonte (anche se più spesso si vorrebbe trovare, per i testi stranieri in versione italiana, l’indicazione dei traduttori, che sono alla fin fine i veri responsabili degli usi linguistici documentati). L’esempio diventa in questo modo il cardine della trattazione, e il lettore trova la documentazione piena ed esauriente di quanto si va discutendo. Alla fine del testo, ricorre quasi sempre una “conclusione” o sintesi finale. La struttura è dunque caratterizzata da grande chiarezza, e risulta scandita in una serie di tappe in cui il lettore non si perde, anche se gli esempi sono una selva intricata.

Un’altra caratteristica dello stile di questi saggi, così come della procedura preferita dall’autore, si ha nel riferimento ai sondaggi o inchieste condotte presso amici e colleghi. Il libro è disseminato di frammenti di corrispondenza privata (con l’omissione dei nomi), dialoghi con colleghi su argomenti scientifici, rapide consultazioni sugli argomenti delle ‘fotografie’. Il saggio sul significato recente della parola coorte in ambito universitario è in questo senso molto significativo.

Si potrebbe avere quest’impressione: che l’autore, per partito preso, abbia simpatia per quello che i puristi e neopuristi giudicano errore, e che, anzi, egli non attenda altro che una dichiarazione di errore per impugnare le armi, come un generoso cavaliere pronto alla difesa dei deboli che nell’errore sono incappati, e alla fine saranno assolti e salvati mercé il suo intervento, anche perché in italiano esiste sempre una scappatoia grazie alla quale l’errore può essere riqualificato come regola possibile ma non assoluta; il parlante e lo scrivente hanno insomma un margine di scelta sufficiente per scampare alla punizione della matita rossa e blu del severo maestro odiatissimo dei tempi passati.

bartoli-daniello-il-torto-e-il-dirittoNiente di strano in questa tolleranza, sia ben chiaro: alla fine del 2022 la stessa Accademia della Crusca ha dato alle stampe, per cura di Paolo D’Achille e di Marco Biffi, un libro intitolato Giusto, sbagliato, dipende, dove l’ultima parola apre appunto uno spiraglio di salvezza verso quella che Serianni chiamava la “zona grigia” della norma, e qui, nel grigio, si sono certo infilati con piacere molti italiani preoccupati per qualche presunto errore sfuggito dalle loro penne o dalle loro labbra. Ma oggi anche la Crusca celebra con piacere la memoria di grammatici del passato che seppero evitare atteggiamenti di condanna senza appello. Penso a un libro come Il torto e il diritto del Non si può del padre Daniello Bartoli, uscito nel 1655 sotto il falso nome di Ferrante Longobardi, certo non privo di attualità, se vi si leggono argomentazioni come queste: 

«… la sperienza mostra per vero, che quanto altri più sa della lingua, ben’appresa nelle sue radici, tanto va più ritenuto in condannare: e a sì fatti huomini, non udirete uscir di bocca, se non se il fallo sia inescusabile, un di que’ NON SI PUÒ, che in altri val quanto Non mi piace; un Non è secondo le regole del tal grammatico, che solo ho studiato; un Non si confà co’ principj, che m’ho fitti in capo, e co’ quali ognun si de’ regolare; un Non così scrivono, o parlano questi, o quegli Accademici, e simili» (ed. di Bologna, 1674: 8). 

Credo che Sgroi sia solidale con queste parole di Daniello Bartoli alias Ferrante Longobardi. Tuttavia va precisato che anche per Sgroi, come del resto per il padre Bartoli, esiste un controllo necessario sulla lingua: gli elementi che guidano il riconoscimento dei veri errori inescusabili (per usare l’aggettivo del Bartoli) esistono davvero: sono gli attentati alla chiarezza, le forme prive di qualunque consenso da parte di tutti gli utenti della lingua, gli attentati alla struttura della lingua stessa, perché la normalità non può essere stravolta per ghiribizzo di minoranze che si arrogano pretestuosamente mansioni di controllo. L’ultimo caso citato non si riferisce solo ai puristi, ma a coloro che, con il pretesto di ottenere una lingua inclusiva, magari in buona fede, credono di dettare norme nuove in barba a qualunque accordo collettivo.

Ma la lingua è prima di tutto proprietà collettiva. Si vedrà che su questo terreno l’autore non è disposto a concedere molto ai fautori del linguaggio di genere e ai sostenitori dello schwa pseudo-inclusivo. Come i puristi, costoro hanno la smania di imporre le proprie scelte, ma la libertà, all’interno del sistema collettivo della lingua, resta sacra. Si può consigliare, si può spiegare perché una soluzione linguistica sia migliore di un’altra, ma non si può imporre. Questa la posizione di Sgroi, nota da tempo, sviluppata in molti altri suoi libri cari al pubblico degli specialisti e anche a coloro che, non addetti ai lavori ma appartenenti al pubblico colto, seguono gli sviluppi del dibattito linguistico.

Nella parte finale del libro si parla di politica linguistica, ed emerge un tema d’attualità in questi primi mesi del 2023, a seguito di due proposte di legge a sostegno della lingua italiana presentate da esponenti di Fratelli d’Italia, il partito che ha vinto le ultime elezioni e che ha espresso il presidente, o meglio la presidente del consiglio. Lasciamo da parte il modo corretto di nominare questa donna nella sua carica, con il maschile da lei preferito o con il femminile preferito dai suoi oppositori: Sgroi si occupa più volte anche di questo, parlando della presidente Casellati, di alcune proposte dell’Accademia della Crusca, di Giorgia Meloni.

La questione è un’altra, più grave, cioè i (possibili o impossibili) danni che possono (o non possono) venire all’italiano per il contatto intenso con i forestierismi. Sgroi difende il diritto della lingua di acquisire “doni”, cioè prestiti, e non ha alcuna incertezza nel prendere le distanze dalle proposte di legge caratterizzate da neopurismo autoritario. In ciò è coerente con il suo sistema, quale abbiamo descritto nelle righe precedenti. Allo stesso tempo, però, mostra chiaramente la sua affezione per l’italiano, e non esita a condannare l’eccesso di anglismi introdotti in alcuni documenti ufficiali, segnalati a suo tempo dal gruppo Incipit che opera presso l’Accademia della Crusca. Sui pericoli che l’italiano corre oggi, la posizione di Sgroi è probabilmente più vicina all’insegnamento di De Mauro, che temeva non gli anglismi, ma l’ignoranza della gente.

815f1icexl-_ac_uf10001000_ql80_Credo che Sgroi, su questo, abbia ragione. Mi hanno colpito le sue osservazioni sulla morte di una lingua, un evento per il quale riporta la raffinata citazione di un passo di Saussure, dalla Première Conférence all’Università di Ginevra nel novembre 1891. In sostanza, Saussure afferma che una lingua è di per sé immortale, e muore solo per cause esterne, che non sono definibili come linguistiche, in quanto sono extralinguistiche: sterminio dei parlanti, genocidio, imposizione di una lingua diversa per atto d’autorità, soprattutto se l’imposizione avviene nei settori della scuola, della Chiesa, dell’amministrazione, attraverso i canali della vita pubblica e privata. Una lingua, dunque, non muore di morte naturale, ma solo di morte violenta. La citazione di Saussure può servire per tranquillizzare coloro che hanno, pur in buona fede, promosso le azioni legislative a sostegno dell’italiano, sperando di arginare in questo modo una manciata, o anche un TIR, di parole forestiere, ma può servire per inquietare coloro che, come alcuni ministri di passati governi, hanno dato una mano ad emarginare la lingua italiana dall’alta cultura, e l’hanno fatto mediante atti di autorità, attraverso scelte normative.

La pur libertaria visione della lingua di Claudio Salvatore Sgroi non è certo a favore di questi più o meno incoscienti nemici dell’italiano, e io ne sono ben lieto, e solidarizzo con lui, anche se la mia visione del futuro della lingua è meno serena della sua, perché non riesco a dimenticare, accanto alle belle parole di Saussure che Sgroi ci ha fatto ricordare, le pagine di Benvenuto Terracini sullo stesso tema, Come muore una lingua, in cui è descritto l’abbandono volontario del proprio idioma da parte di comunità che, per varie ragioni, hanno perso la loro identità, come i minatori valsesiani e lombardi della Valle di Viù, o come i Celti sottoposti al governo dei Romani, quando la classe dirigente scelse di passare al latino della cultura egemone, e non per un’imposizione violenta caduta dall’alto, ma per una progressiva disaffezione alle tradizioni del proprio territorio e per una rinuncia alla propria cultura.

Lasciamo tuttavia da parte l’eventuale fine del nostro italiano, non «perduto da anglosassone o da russo» come aveva immaginato lo scrittore Pier Paolo Pasolini in Progetto di opere future (nella raccolta Poesia in forma di rosa), ma assassinato dal disinteresse e dal disprezzo dei connazionali, o magari dalla scarsa natalità degli italiani (un tema oggi di moda, ma di cui mi parlò tanti anni fa, in tempi non sospetti, il purista, ma impareggiabile studioso, Arrigo Castellani), e vediamo quale descrizione ci offre Sgroi dell’italiano del nuovo Millennio. Intanto, la struttura è quella classica, che muove dalla ortografia alla fonologia, alla morfologia per approdare alla sintassi e al lessico. Alla fine del volume si collocano le discussioni legate alla ‘politica linguistica’.

61wyify4szl-_ac_uf10001000_ql80_Dentro questo schema classico trovano posto le ‘fotografie’, caratterizzate dall’interesse legato all’attualità. Sono questioni spesso di per sé molto puntuali, che però, in questa collocazione sistematica, acquistano un plusvalore. Per esempio, nel caso della fonologia, si parte da un evento mediatico che ha fatto emergere il problema della corretta pronuncia di Nobel, poi si passa alla pronuncia di Ucraina, resa attuale dalla guerra in corso; quindi, si passa alla pronuncia di pandemia, sulla scorta di presunti errori commessi da Michele Mirabella e da Papa Francesco, e via di questo passo. Si noti che Papa Francesco è un osservato speciale, amatissimo da Sgroi, che gli ha dedicato un libro intero, ora in stampa presso l’Accademia della Crusca. Tra gli interventi che seguono nello stesso capitolo, posso ancora citare la discussione sulla grafia Azelio per Azeglio, legata a un incidente del comune di Roma, che sbagliò una lapide da collocare sulla pubblica strada, suscitando commenti ironici del quotidiano “Il Messaggero” e un giudizio severo della sindaca Virginia Raggi. Si parla anche della pronuncia di cosmopolita, report, suspense, eteroclito.

Come si vede, sono parole su cui tutti possiamo esitare, incerti sulla collocazione esatta dell’accento tonico. Per risolvere il problema, basterebbe la consultazione di un dizionario, o magari (meglio ancora) di un dizionario di ortografia e pronuncia, come il DOP di Migliorini-Tagliavini-Fiorelli, o il DiPI di Canepari. Ma l’esame condotto da Sgroi è cosa ben diversa, perché non ci offre solo la soluzione del problema, cioè il disvelamento della forma più corretta o più autorevole: la lezione utile sta nel processo di indagine che spiega il meccanismo delle varianti e dei presunti errori, che, come abbiamo già detto, non nascono mai dal caso, ma hanno una loro ragione profonda che si annida nei sotterranei della lingua e nelle segrete pulsioni del parlante.

Insomma, fin che si discute della correttezza e della legittimità di forme, accenti e costrutti, vuol dire che la lingua è ancora viva, che i parlanti ci tengono a non sbagliare, anche se seguono magari una delle regole implicite che Sgroi riesce a svelare. Per questo invito i lettori a sfogliare con piacere questo album di fotografie, che non possono non dilettare chi si occupa di lingua e ama l’italiano. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
 [*] Si pubblica in anteprima la Prefazione al libro di Salvatore Giovanni Sgroi, La lingua italiana del terzo millennio tra regole, norme ed errori, a firma di Claudio Marazzini, in corso di stampa presso la casa editrice Utet, che qui si ringrazia per l’autorizzazione.
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 Claudio Marazzini, dal 2011 è accademico ordinario della Crusca e dal 2012 ha fatto parte del Consiglio direttivo dell’Accademia. Dal 23 maggio 2014 al 28 aprile 2023, con tre mandati consecutivi, è stato Presidente dell’Accademia della Crusca, di cui ora è Presidente onorario. Ha insegnato Storia della lingua italiana nelle università di Macerata, di Torino, di Udine, del Piemonte Orientale. È autore di numerose pubblicazioni.

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