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Un catalogo di mediterraneità

 1-lapprodo-di-ulisse_francesca-maria-corraodi Aldo Gerbino

Cerco l’azione. “La parola è morta” dicono altri. / La parola è morta / perché le vostre lingue hanno sostituito il mimo alla parola / la parola? Volete svelarne il fuoco? Dunque, scrivete [Adonis, da Una tomba per New York, 2009, trad. F.M. Corrao]. 

Mai, come in questo caso, ci è stata consegnata la presenza fattiva e ideale dei tanti autori opportunamente raccolti nel volume L’Approdo di Ulisse; e ciò in un tempo disciolto in quell’estesa pedana di trentacinque anni d’innesti, sensibilmente promossa dalla Fondazione Orestiadi di Gibellina. Con l’ausilio delle edizioni “I Quaderni del Battello Ebbro”, fondati dalla partecipe sensibilità alla parola di Giacomo Martini, si possono registrare presenze che vanno da Adnan e Adonis ad Attanasio, da Bannis a Bettini a Buttitta a Cucchi, da Evtushenko a Frabotta, da Isgrò a Magrelli, da Patrikios a Raboni, da Scialoja a Zach. Volume curato, anzi tumultuosamente innervato, da Francesca Maria Corrao (Ordinario di Lingua e Cultura araba alla Luiss di Roma) che, sin dal titolo L’Approdo di Ulisse, disegna e indaga, nelle pieghe più intime (così com’è ingenito nella natura della poesia), «il Mediterraneo dei poeti».

Una pubblicazione, dichiara in incipit l’Editore, che «vuole essere in primo luogo la testimonianza, la memoria culturale e storica di un evento straordinario, ‘Le Orestiadi di Gibellina’, che da oltre 35 anni raccontano all’Italia e al mondo una Sicilia diversa dai luoghi comuni»; un ricordo e un omaggio al senatore Ludovico Corrao, «taumaturgo di questa storia, – avverte Martini – l’uomo, l’intellettuale che anche in condizioni avverse ha saputo costruire questa splendida realtà che nacque quasi come una sfida al vuoto culturale e dal dramma sociale seguito alla tragedia del terremoto ed è diventata un simbolo potente di riscatto e di rinascita».

Quale tipo di investigazione, nel rispetto del rotore della cronologia, è stata dischiusa alla visione intellettuale? Ci sono parole pronunciate da Wilhelm Dilthey, il filosofo che ha consegnato il suo primato ai fatti emersi dalla Storia, colui il quale nella sua opera Esperienza vissuta e poesia (“Das Erlebnis und die Dichtung”, 1906) avverte di come volesse investigare e «in qual modo elementi di cultura del tutto dispersi vengono formati a totalità nell’officina di uno spirito individuale significativo, (e) in qual modo questa totalità rifluisca nella vita reagendovi». Un vantaggio notevole, per il filosofo di Wiesbaden, è offerto, appunto, dall’interiore flusso della poesia; un vantaggio metodologico adatto a «mostrare con peculiare trasparenza gli accadimenti storici, i processi psichici che da quelli sono sgorgati», vale a dire esaminare, attraverso il magnifico cammino segnato da Lessing, Goethe, Novalis ed Hölderlin, la «vita storica dell’anima».

Francesco Palmieri, L’ulivo archeologo (olio su tavola).

Francesco Palmieri, L’ulivo archeologo (olio su tavola)

Di certo tanta anima aleggia, e s’è condensata, per quanti hanno percorso e percorrano l’eccitante atmosfera pericorporea degli incontri immersi nell’alveo delle Orestiadi. Un ‘alimento’ spirituale, sottolinea il Presidente dell’Istituzione, Calogero Pumilia in premessa al volume, mettendo così in evidenza come tutto ciò trovi il suo nucleo germinativo nei ‘fatti’: dalla politica alle guerre, dalle atrocità insite nelle violenze etniche: estenuanti momenti di dolore perpetrato in ogni fase della nostra storia contemporanea e troppo spesso giocato sull’ambiguità sociale e geopolitica dei termini Occidente/Oriente. Fatti, ordunque, in cui la posizione focale della poesia, in quell’acuta modalità critica versata in “Belfagor” da Luigi Russo – nel suo leggere i testi dei poeti risorgimentali, – poggia, e di certo non ultimo tra i fattori, negli accadimenti vivi della Storia, nel fuoco più profondo delle passioni politiche.

L’asserzione di Francesca Corrao ben centrata sulla espressione Odissea, accende di luce questa «parte integrante del bagaglio culturale del Mediterraneo» in cui essa è il testo – si rileva – «che ha ispirato molti artisti e studiosi di diverse culture, come il nostro Giambattista Vico, il filosofo napoletano del XVIII secolo che ha riconosciuto nell’opera il racconto corale dei diversi popoli mediterranei»; d’altronde il forte impatto epico dei poemi omerici li collocano, – mutuando l’osservazione del grande bizantinista Bruno Gentili – come imprescindibili monoliti della conoscenza e che ci piace visualmente osservare nel vibrante mediterraneo Paesaggio con monoliti di Francesco Palmieri.

Possiamo affermare in qual maniera la geografia, incistata nel grande poema del IX-VII sec. a. C., pur nella molteplicità territoriale del bacino mediterraneo e nella restituzione dell’articolata scelta interculturale fiorita tra varie terre e miti, si configuri con la patria di Odisseo, l’isola ionia di Itaca del regno dei Cefaloniti, a costituirne una sorta d’iconema dell’arcipelago Eptaneso, bersaglio centrale e privilegiato del tutto, metafora del viaggio, della conoscenza tout court, del nocciolo ben interrato e germinante dal quale attinge maggiore consistenza anche il poema dantesco. Sì, Itaca è nostro incontrovertibile calco, la nostra forza, la spinta affinché si possano superare gli ostacoli distribuiti nel nostro esistere affinché il nostro consistere cambi, si riappropri dei valori indefettibili, ogni qualvolta si renda necessario, o se ne avverta il pericolo d’una mancanza.

Francesco Palmieri, Paesaggio con monoliti (olio su tavola).

Francesco Palmieri, Paesaggio con monoliti (olio su tavola)

Quindi, assolutamente opportuno il titolo confezionato da Francesca Corrao in cui, l’apertura del termine ‘Approdo’ identifica il segno preciso del nóstos, il richiamo proveniente dalla conquista dei saperi, dalla loro fertilizzazione nel vasto contesto di realtà antropologiche dissimili, o accoglie i cammini d’una mitografia in cui riversare e rigenerare cosmologie e parole, battaglie e conquiste, mutazioni e destino. Tutto ciò ci è stato riconsegnato dalla inesauribile fascinazione e indiscusso valore del poeta neogreco Costantino Kavafis nel momento in cui incide col suo verso (qui nella traduzione di Margherita Dalmati) questo territorio primario col dono del viaggio, vero e proprio cristallo della conoscenza: «Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti? / E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. / Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso / Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare».

E, in particolare, la Grecia è tra le civiltà in cui gli scambi fertili sono intensi e ardenti proprio in virtù del suo portato poetico, e ancor più in quanto è stata capace di consegnarci, attraverso la esposizione dei fatti, una parola scritta e cantata pronta, come chiarisce il siriano Adonis, di ‘svelarne il fuoco’. Una poesia che Francesca mostra e dimostra, nell’ampio scenario del volume (esteso documento del “fare”), come nutrire il dolore, come lenirlo, in che modo leggere le ferite, lo scoramento, la discesa agl’inferi, la forza del riscatto. E un greco, il Nobel Giorgos Seferis, con la poesia “Alla maniera di G. S.” – (nella raffinata quanto empatica traduzione del grecista e filologo Enrico Livrea), – narrando gli amari ricordi della Catastrofe dell’Asia minore riconfigurava, nella lontana primavera del 1936, mentre si era in attesa che la motonave Aulis salpasse, gli occhi dei profughi e nei propri occhi, il senso del nóstos: «Nel frattempo, la Grecia viaggia, eternamente viaggia, /e se vediamo il mar Egeo fiorire di morti, / sono quelli che vollero afferrare la grande nave a nuoto, / quelli che si erano stancati di aspettare le navi che non possono muoversi, / l’Elsi, la Samothraki e l’Ambracico. / Sibilano le navi ora che si fa sera al Pireo, sibilano, sempre sibilano, ma non si muove alcun argano, / nessuna catena luccica bagnata nell’ultima luce che tramonta, / il capitano resta pietrificato fra il bianco e l’oro. / Dovunque mi porti il mio viaggio, la Grecia mi ferisce: / cortine di monti, arcipelaghi, nudi graniti… La nave che viaggia si chiama AGONIA». Un’agonia che agita il Mediterraneo tutto, dai Poemi omerici e sin dalle terre di Gilgameš, in una circolarità che investe terre e imperi, civiltà, popoli e oscure tribù. 

.Francesco Palmieri, Paesaggio con Prometeo (olio su tela).

.Francesco Palmieri, Paesaggio con Prometeo (olio su tela)

Nell’oggi tali situazioni agoniche caratterizzano purtroppo vaste aree della sponda orientale: l’impoverimento del concime inter-civiltà, la radicalizzazione su problemi etici, la visione di un eurocentrismo autoreferenziale, porta a dimenticare quanto dei temi tra le due sponde siano commisti da un vivido, incancellabile e antico meticciato. L’Alessandria d’Egitto di Kavafis è anche quella di Ungaretti, e il bagaglio omerico coincide con tutta la morfologia e la geologia del bacino mediterraneo, del rostro poderoso del continente africano sulla zolla europea, dei commerci, delle fondazioni, delle distruzioni, delle lacrime. La poesia, osserva Francesca Corrao, «può superare le barriere, riesce a trasformare la realtà più lontana in una metafora comprensibile»; è un «incontro che favorisce lo scambio e la conoscenza grazie al confronto tra le diverse esperienze poetiche e le concezioni estetiche».

a-anteprima-orestiadi-2023Una poesia, rientrando nello spirito critico e poetico di Yves Bonnefoy, fondamentale per un modello di rinnovata umana restituzione «alle cose, fra le quali viviamo, e agli esseri con cui viviamo», cioè un dar «pienezza della loro presenza a se stessi». Una matura pienezza assegnata in prima istanza alle periferie del mondo. Qui: nelle aree periferiche del sud d’Europa, nel Nord del mare Africo, si opera, in un continuum, una maturazione, un distillato dei rumori del pianeta che, partendo dalla materia della terra, s’imprime nei popoli, nella loro cultura, nella loro etica, nella loro postura estetica. Una ‘restituzione’ di quel “suono del senso” (cui fa cenno Francesca) e di cui parlava Robert Frost, per una poesia la cui posizione sin dagli estremi confini, può esercitare «una salutare funzione contagiosa di allarme e speranza – secondo Zanzotto – rispetto alla Babele del presente».

Nella sua icasticità d’espressione, ed anche nella sua domestica risonanza, il “Voi siete stati sempre qui…” parole pronunciate da Ludovico Corrao, in prolusione al Convegno del 1991 “Segni di guerra parole di pace”, commuove proprio per quell’avvicinarci a quella rinascita dalle ceneri della ‘città’ di Gibellina (città in quel senso leggibile che ritroviamo ancor vivide nelle Città del mondo di Elio Vittorini, ineludibile espressione di un’epopea del luogo, dell’uomo e della sua storia). Ma ancor più ci riconsegna l’idea d’una rinascenza che Ludovico Corrao ha sancito col riconoscimento dell’altro, quell’altro grazie al quale «se questa città è risorta lo deve ai poeti e agli scrittori, lo deve alla cultura».    

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023

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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014).

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