di Paolo Cherchi [*]
Oggi non fa grande notizia se un pitbull o un altro animale che abbia procurato lesioni o danni ad un uomo venga soppresso; e tuttavia fa sempre notizia e i giornali immancabilmente la riportano. La soppressione è sempre un atto vigilato dalla legislatura che normalmente lascia al proprietario dell’animale l’incarico di eseguirla e di giustificarla solo dopo avere esperito tutti i rimedi per correggere o quanto meno controllare l’aggressività dell’animale, o con una museruola o con la castrazione, o con un periodo di educazione impartita dai comportamentalisti. Quello che oggi non esiste più è che la sentenza venga eseguita in modo spettacolare e quindi pubblico, come una volta si faceva. Infatti in tempi passati, e anche relativamente recenti, si avevano dei veri processi e punizioni pubbliche verso gli animali ritenuti colpevoli, e ne troviamo alcuni esempi anche in letteratura, come subito vedremo studiando un episodio presente nell’Adone di Giovan Battista Marino.
Ma prima di soffermarci su questo episodio, sarà utile ricordare che la storia dei processi agli animali era una pratica molto diffusa, anche se oggi è dimenticata tanto da pensarla come una pura invenzione di qualche scrittore di fantastoria. In effetti quando un lettore contemporaneo legge l’Apologo del giudice bandito (Palermo, Sellerio, 1986) di Sergio Atzeni, resta incredulo davanti all’allusione ad una scomunica pronunciata dal tribunale dell’Inquisizione di Cagliari contro le cavallette, che, come una delle sette piaghe del Vecchio Testamento, erano venute in Sardegna a devastare il raccolto. E l’incredulità diventa vero stupore quando il lettore apprende che Atzeni allude a un fatto realmente accaduto nel 1492, e pensa che un episodio del genere sia frutto dell’arretratezza di una Sardegna medievale, imbevuta di superstizioni e di terrori, pronta a ricorrere alla religione per esorcizzare un pericolo sicuramente mandato dal demonio.
In realtà l’Inquisizione cagliaritana seguiva una pratica invalsa da secoli e in tutta l’Europa, ad opera non solo dei tribunali religiosi ma anche di quelli civili. Processi di animali grandi e piccoli, mammiferi e insetti, domestici o selvatici sono documentati ovunque dall’Italia all’Inghilterra per un arco di tempo lunghissimo, dall’ottavo fino al ventesimo secolo, con forte intensificazione fra il Duecento e il Settecento. È una tradizione passata a lungo inosservata, anche se già alla fine dell’Ottocento alcuni studiosi come Karl von Amira [1] in Austria e Carlo d’Addosio [2] in Italia avessero prodotto una notevole documentazione relativa a tali processi, e l’argomento sia stato ripreso ai primissimi del Novecento da Edward Payson Evans nel suo The Criminal Prosecution and Capital Punishment of Animals [3], libro a tutt’oggi insuperato per rigore di ricerca e dovizia di dati riguardanti una vasta area geografica e una problematica che impegnò giuristi, teologi e filosofi.
In anni più vicini a noi lo studio di quest’argomento conosce un rilancio notevole grazie a diverse sollecitazioni fra cui primeggiano l’interesse alla “microstoria” e le preoccupazioni degli animalisti. Oggi è possibile farsi un’idea del fenomeno perché le ricerche sull’argomento sono ormai numerose e se ne possono ricavare indicazioni consultando almeno due studi diversamente suggestivi: quello di Gennaro Francione [4], rapido nell’informazione ma di ampia apertura storica (con puntate sul mondo antico e sul mondo non indoeuropeo), e quello di Michel Pastoureau [5] che dedica un capitolo ai “procès d’animaux”, ricco di dati e impegnato soprattutto nell’interpretazione “simbolica” di questi processi. Per il nostro proposito basta ricordare solo qualche dato per avere una traccia della tradizione in cui s’inserisce l’episodio dell’Adone, e anche per capire che Marino poteva contare su un pubblico che non si sarebbe scandalizzato a vedere un cinghiale sotto processo.
Intanto dobbiamo ricordare che la reità degli animali è attestata nella Bibbia dove si legge che
Si bos cornu percusserit virum aut mulierem et mortui fuerint, lapidi bus obruetur. Et non comendentur carnes ejus. Dominus quoque bovis innocens erit (Ex., XXI, 28):
vi si riconosce la colpevolezza dell’animale e si esonera il suo proprietario. In un’appendice del citato libro di Evans troviamo elencati cronologicamente tutti i processi noti, e lì apprendiamo che la prima scomunica fu pronunciata nell’anno 824 nella Valle d’Aosta contro una pestilenza di talpe, e l’ultimo dato riguarda un processo contro un cane, imbastito nel 1906 a Délémont in Svizzera. Apprendiamo anche che esistono due tipi di processo: uno contro gli insetti o animali non domestici (topi, talpe, rane, cimici, cavallette e simili), e un altro contro gli altri animali domestici e comunque di stazza grossa. Contro i primi si usava la scomunica, quindi il tribunale era di ordine religioso. Di solito gli animali si “citavano”, cioè li si convocava a comparire davanti al giudice, e l’invito veniva esteso per tre volte, e se gli animali non si presentavano (il che era, ovviamente, la norma) si lanciava una scomunica contro di essi.
Nel caso che si trattasse di un animale catturabile si procedeva nel seguente modo: lo si incarcerava, lo si torturava e si prendevano i suoi gridi come una confessione; quindi lo si portava davanti al giudice che lo condannava di solito a morte, e un boia eseguiva la sentenza; il corpo veniva esposto e quindi bruciato e le ceneri sepolte. Tutte queste fasi seguivano una procedura dettagliata che occupava varie persone: il procuratore, assistito da scabini, accertava i fatti; quindi presentava la denuncia al giudice che nominava un avvocato difensore; se l’animale veniva condannato lo si riportava in prigione dove i carcerieri avevano il compito di nutrirlo abbondantemente. Il giorno dell’esecuzione veniva tirato fuori dalla prigione e portato in un posto dove si leggevano le sentenze; quindi condotto al palco del supplizio era giustiziato quasi sempre per impiccagione dopo essere stato strozzato. Durante questo percorso verso la morte le campane suonavano fino a quando giustizia era fatta. Qualche volta l’animale veniva sotterrato vivo, e comunque il tipo di punizione dipendeva dalla gravità della colpa. La procedura appena descritta era applicata in Francia, e altri Paesi presentavano varianti che, comunque, non erano mai a scapito della spettacolarità alla quale si attribuiva una funzione di esemplarità.
Uno di questi processi è ricostruito da Evans e poi raccontato anche da Pastoureau. È un episodio terrificante e vale la pena ricordarlo perché sembra riflettere una prassi comune. Si tratta di un episodio accaduto a Falasia (Falaise) in Normandia nel 1386. Il reo era una scrofa di tre anni che aveva mangiato una parte del viso d’un infante. L’animale fu portato nella piazza del paese vestito da uomo, e i capi d’accusa furono letti davanti ad una folla enorme che comprendeva anche molti porci perché apprendessero la lezione. Nella folla era presente anche il padre dell’infante il quale in tal modo veniva punito per non aver sorvegliato sulla sicurezza del bambino. Alla scrofa vennero asportati alcuni membri e arti, e poi, con una maschera da uomo e con guanti alle zampe, fu inforcato e quindi impiccato in una normale forca. Tanto scempio non dava ancora piena “soddisfazione di giustizia”. Qualche giorno più tardi il cadavere del porco fu trascinato per le vie del paese e coperto di nuove lesioni da una folla inferocita, quindi fu bruciato. Il verbale del tutto fu regolarmente archiviato, e rimane perfino una ricevuta (datata al 9 gennaio 1386) del pagamento emesso dal Visconte di Falasia e riscosso da parte del carnefice: dieci soldi e dieci denari tournesi (“dix sols et dix deniers tournois”) per il lavoro compiuto, più altri dieci soldi tournesi per un guanto nuovo (“dix sols tournois pour un gant neuf”) [6] usato nell’esecuzione.
La scena fu affrescata in una chiesa e rimase visibile per vari secoli allo scopo di ricordare a quanti la vedevano che la giustizia tocca tutti gli esseri animati. A questo proposito bisogna aggiungere che le esecuzioni avevano un valore esemplare per gli altri animali perché si credeva che la visione di un porco crocefisso o di un gatto scuoiato potesse servire da ammonimento a tutti i loro simili a non trasgredire la legge. Forse un residuo di questa credenza rimane negli spauracchi che si vedono nelle campagne, e forse risalgono a questa credenza anche i due avvoltoi che ornavano l’entrata del palazzo di Don Rodrigo nei Promessi sposi (cap. V) [7].
Non tutti i processi dovevano avere la spettacolarità di quello di Falasia, o forse la documentazione di cui disponiamo è difettosa, seppellita com’è in archivi spesso mal conservati. Ma basta la loro frequenza a sollevare un problema serio sul loro significato storico e culturale. Non c’è dubbio che la mentalità cristiana attenta alle “creature di Dio” portò ad un’antropomorfizzazione degli animali e di conseguenza li sottoponeva ad un codice di giustizia unico per gli uomini e gli animali. Ma non c’è dubbio neppure che profonde correnti di terrori collettivi, di forze irrazionali difficili da esorcizzare si manifestavano in queste forme che per noi risultano del tutto incomprensibili, ancora più difficili da capire e da accettare di quanto non siano i processi alle streghe. Ovviamente non è un problema da trattare in questa occasione; tutt’al più possiamo ricordare che non era un fenomeno “popolare” nel senso che era diffuso solo fra gente incolta.
I processi degli animali impegnarono giuristi del livello di un Barthelemy Chasseneux (il Cassaneo degli umanisti) che fu una volta chiamato a difendere dei topi, ed era lo stesso Chasseneux che scrisse dei Consilia importanti, lo stesso grande giurista che compose il Catalogus gloriae mundi (1545), un’opera di consultazione indispensabile per chi si occupa del problema delle precedenze nel Rinascimento. Non era un tema da “popolino” che bruciava i gatti perché pensava fossero streghe metamorfizzate: era un problema di cui si occupavano teologi e grandi maestri di diritto canonico del livello di Martín Azpilcueta, meglio noto come Il Navarro [8], e filosofi come Leibniz [9]. Sono voci di una vera mentalità che spiegano perché Shakespeare possa rivolgersi agli spettatori del suo Merchant of Venice mettendo in bocca a Graziano un attacco contro Shylock di questo tenore:
Thy currish spirit
Govern’d a wolf, who, hang’d for human slaughter
Even from the gallows did its fell soul fleet (IV, 1, vv. 133-135).
È la stessa cultura che consente a Racine di mettere in scena ne Les plaideures (III, 3) un processo contro un cane, condannato alla forca per essersi mangiato un cappone. È la stessa cultura che permette a Marino di inserire un processo al cinghiale nel suo Adone.
Ed eccoci così tornati al punto di partenza, l’episodio del processo al cinghiale che troviamo nell’Adone di Marino. Parliamo del processo al cinghiale davanti a un tribunale presieduto da Venere che ha anche il ruolo di parte lesa e di pubblico ministero, cioè di vittima, di accusatrice e di giudice. Lo si direbbe un processo a risultato scontato, ma per questo il verdetto risulta sorprendente. Rivediamo, però, l’antefatto per collocare meglio un episodio tanto strano.
Venere ha concesso all’amante Adone di andare a caccia, rimuovendo così un divieto da lei tenuto fermo per un lungo tempo, praticamente per tutta la durata del poema. La concessione è una sorta di compromesso dovuto al fatto che la dea debba recarsi da Cipro dove risiede all’isola di Pafo – la storia dei due celebri amanti è molto “mediterranea” – dove i suoi devoti celebrano feste in suo onore. La dea non può mancare a queste celebrazioni, e pertanto deve lasciare Adone, e per consolarlo della sua assenza gli permette di andare a caccia.
Durante la battuta di caccia Adone viene ucciso da un cinghiale che egli ha colpito con una freccia. È come se fosse una freccia d’amore, ma il cinghiale non lo attacca fino a quando vede i fianchi del giovane che rimangono scoperti perché un colpo di vento gli solleva il gonnellino. La vista suscita nell’animale un desiderio irrefrenabile di baciare quelle carni, e gli si avventa contro con furia per esaudire l’impulso del suo desiderio. Purtroppo le sue zanne sventrano il giovinetto uccidendolo. Si avvera così una predizione che Venere col suo divieto aveva cercato di impedire o quanto meno di ritardare. Informata dell’evento, la dea rientra a Cipro, piange il suo amato, e fa cercare il cinghiale per punirlo. Questi, dopo l’effetto fatale del suo bacio, si era rintanato; ma gli inservienti di Venere lo scovano e lo portano davanti alla dea. Ha luogo così il processo che prevedibilmente culminerà con una sentenza di pena capitale. Ecco le poche ottave che contengono l’accusa, quindi la difesa, la sentenza, e un’esecuzione del tutto inaspettata:
– O di qualunque mostro aspro e selvaggio 234
più maligna e crudel furia non fera,
tu far ardisti a quel bel fianco oltraggio
che de’ colpi d’Amor degno sol era?
tu di quel sol discolorare il raggio
che facea scorno ala più chiara sfera?
romper d’un tanto amore il nodo caro
e’l dolce mio contaminar d’amaro?
Or qual rabbia infernal, qual ira insana 235
stimulò sì la tua spietata fame?
com’osò la tua gola empia e profana
di tal esca cibar l’avide brame?
potesti esser sì cruda e sì villana
in accorciar quel dilicato stame?
O di tal ferità ben degna prova,
rea ventura dal ciel sovra ti piova. –
La bestia allor, che d’amoroso dardo 236
il salvatico core avea trafitto,
quasi mordace can ch’umile e tardo
riede al suo correttor dopo il delitto,
a quegli aspri rimproveri lo sguardo
levar non osa, oltremisura afflitto;
pur la ruvida fronte alzando insuso
in sì fatti grugniti aperse il muso:
– Io giuro (o dea) per quelle luci sante 237
che di pianto veder carche mi pesa,
per questi amori e queste funi tante
che mi traggono a te legata e presa,
ch’io far non volsi al tuo leggiadro amante
con alcun atto ingiurioso offesa;
ma la beltà, che vince un cor divino,
può ben anco domar spirto ferino.
Vidi senz’alcun velo il fianco ignudo, 238
il cui puro candor l’avorio vinse,
che per farsi al calor riparo e scudo
dela spoglia importuna il peso scinse;
onde il mio labbro scelerato e crudo
per un bacio involarne oltre si spinse.
Lasso, ma senza morso e senza danno
l’ispide labbra mie baciar non sanno.
Questo dente crudel, dente rabbioso, 239
d’ogni dolcezza tua fu l’omicida.
Questo ale gioie mie tanto dannoso
punisci e di tua man or si recida;
e come del’altrui fu sanguinoso,
tinto del sangue suo si dolga e strida.
Ma sappi, o dea, che se t’offese il dente,
scusimi Amor, fu l’animo innocente. –
Con tanto affetto al’unica beltate 240
i suoi rigidi amori il mostro espresse,
che del rozzo rival mossa a pietate,
di quel fallo il perdon pur gli concesse;
e per ambizion che del’amate
bellezze un mostro ancor notizia avesse,
men fosco il guardo a’ suoi scudier rivolto,
subito comandò che fusse sciolto.
Sciolta l’afflitta e desperata belva 241
cercando va la più riposta grotta;
fugge dal sole in solitaria selva
tra folti orrori ove mai sempre annotta.
Per vergogna e per duol quivi s’inselva
e la zanna crudel vi lascia rotta;
la zanna ch’oscurò tanta bellezza,
contro que’ duri sassi a terra spezza [10].
Il processo è sommario e rapidissimo tanto che nel vasto poema, il più lungo della letteratura italiana, potrebbe passare quasi inosservato. I lettori di Marino, però, sanno bene che il volume degli episodi nell’Adone non costituisce necessariamente un indice della loro importanza, anzi, sanno che spesso i due dati esistono in misure proporzionalmente inverse: basti ricordare, fra i tanti esempi possibili, le sole due ottave dedicate alle “nozze” dei due protagonisti: quell’amplesso era stato preparato per ben otto canti, cioè tutta la parte precedente! È il frutto della poetica “antinarrativa” mariniana che tende a lasciare in sospeso o addirittura incompleti racconti ben avviati, a minimizzare l’importanza dei gangli narrativi, ad eccedere in descrizioni che non costruiscono azione alcuna. Anche in questo caso potrebbe insorgere la tentazione di liquidare l’episodio perché il numero dei versi sembrerebbe relegarlo fra gli episodi secondari. Ma di fatto l’operazione sarebbe tutt’altro che semplice perché l’episodio s’impone alla nostra attenzione per la sua posizione insopprimibile nella trama del racconto. Si consideri soltanto che siamo verso la conclusione del canto XVIII, e quindi vicinissimi alla chiusura del poema.
Il processo non può essere un episodio trascurabile se esso chiude a tutti gli effetti la storia di Adone! L’importanza gli viene anche dai canti che seguiranno perché li si potrebbe considerare come la “post-storia” o, se vogliamo, una storia che fa dimenticare quello che era stato fino a poco prima il suo protagonista maggiore. Infatti il canto successivo sarà dedicato ai suoi funerali, e il lunghissimo canto finale del poema narrerà dei giochi funebri che si celebrano in suo onore; sennonché in questo lunghissimo canto il nome e il ricordo di Adone ritorna solo raramente e in modo indiretto: si direbbe che il protagonista del poema sia a tutti gli effetti dimenticato. Tale offuscamento contribuisce a rendere luminoso l’episodio del processo: è l’ultima volta in cui Adone compare ancora vivo nel ricordo o capace di suscitare passione amorosa; è presente l’ultimo essere che ha baciato le sue carni ed è anche il solo amante che l’abbia amato con furia amatoria. Inoltre il cinghiale è l’agens grazie al quale si realizza il principio su cui sembra basarsi l’insegnamento di tutto il poema, lapidariamente fissato nel verso del primo canto «smoderato piacer termina in doglia» (I, x, 8) e ora inverato alla fine del poema. Si aggiunga che l’autodifesa del cinghiale pone in questione la propria responsabilità del misfatto, lasciando gli interpreti del poema nel dubbio se una chiusura senza responsabili precisi sia da intendere come uno sviluppo ironico nei riguardi dell’argomento del poema stesso. Tutto ciò avrà un suo significato, conoscendo con quanto calcolo Marino usi la dispositio.
Comunque, se non bastasse questa sproporzione fra importanza e misura a richiamare la nostra attenzione, altri elementi dell’episodio dovrebbero obbligarci a non liquidarlo frettolosamente. Per il momento soffermiamoci sul fatto più singolare che fece inarcare le ciglia a qualche lettore contemporaneo. Parliamo naturalmente di Tommaso Stigliani il quale trovò del tutto inaccettabile che il cinghiale parlasse:
Oh parlano i porci? Almeno avesse detto [i.e. l’autore] che questo fusse un miracolo di Venere, o d’altri. Che così non venderebbe i prodigi per effetti naturali. Incredibilità necessaria [11].
Anche a noi la parlata del cinghiale sarebbe parsa una caduta nel favolistico, elemento certo non estraneo a Marino, ma che in questo caso sarebbe risultato inopportuno. Forse potremmo giustificare tale inverosimiglianza ricordando che Venere parla all’animale, e, imputandolo, gli chiede implicitamente di difendersi. Comunque la difesa maggiore che Marino poteva addurre per giustificare una trasgressione così forte dalle regole del verosimile, era presentare la fonte alla quale si rifaceva e che egli rispettava anche in questo particolare della parlata. Si tratta di un idillio dello pseudo-Teocrito riportato nel commento di Pozzi. Il ricorso ad una fonte simile non era “obbligatoria” in quanto la versione vulgata del mito adonico rappresentata nelle Metamorfosi ovidiane chiude il racconto con la morte d’Adone aggredito dal cinghiale infuriato. Ma proprio per questo la scelta di una fonte così rara – com’era, del resto, nello stile mariniano – è significativa: essa aggiunge i moventi dell’innamoramento, del desiderio di baciare il giovinetto e del processo, cioè di tutti quegli elementi che Marino valorizza per fini che a prima vista non risultano evidenti, e che forse per questo sono considerati leziosi e ricercati solo per meravigliare.
Comunque stiano le cose, per il lettore moderno il fatto più trasgressivo dell’episodio non è che il cinghiale parli ma che venga sottoposto ad un processo. Ma avendo stabilito che l’episodio del processo al cinghiale nell’Adone era in sintonia con una tradizione, rimane da capire la motivazione artistica di una scelta che, nonostante le spiegazioni culturali, rimane alquanto strana. Il punto che richiama maggiormente l’attenzione è quello già notato dallo Stigliani, ma per motivi poco cogenti. Il fatto che il cinghiale parli è certamente strano, ma non lo è tanto quanto il fatto che il suo discorso sia una “difesa” poiché nella tradizione dei processi di animali non risulta che a questi sia mai stata concessa una difesa simile. E per giunta è una difesa che gli frutta l’assoluzione! Che cosa significherà tutto questo? Il cinghiale avrebbe potuto essere dimenticato, come avveniva nelle fonti ovidiane, e la storia di Adone sarebbe mutata di poco o nulla. Invece Marino ha voluto addirittura il processo dell’uccisore del suo protagonista, e ha voluto assolverlo dopo averne sentito la difesa: ha voluto, insomma, capire cosa poteva aver motivato un’azione che porta la storia alla sua fine eliminandone il protagonista principale. Probabilmente ha voluto farne un “personaggio” nuovo che aiuti a capire la natura del personaggio appena eliminato. È un’ipotesi di lavoro che vale la pena assumere come guida di ricerca: morto un personaggio, se ne fa un altro ma di pasta diversa.
Il tema del processo è insolito nella tradizione epica (c’è un processo nella Chanson de Roland, e uno nel Cantar de Mio Cid: troppo poco per parlare di una tradizione) ed è presente invece nella letteratura burlesca. Appare, ad esempio, nel Roman de Renart, e lo troviamo nel Libro de buen amor di Juan Ruiz, in cui si fa un processo al Carnevale. In questo genere letterario il processo è un ricorso comico perché contrappone in senso caricaturale la sapienza giuridica del giudice e la scaltrezza dell’imputato, il quale spesso sa usare la legge a proprio vantaggio. Esiste anche la tradizione dei tribunali d’amore (pensiamo agli Arrets d’amour di Martial d’Auvergne), ma a dire il vero le cause che si discutono nelle “corti d’amore” sono piuttosto “questioni” o “dubbi” su casi fittizi e non richiedono punizioni particolari. Però nell’epica burlesca (pensiamo al Morgante, al Baldus o alla Secchia rapita) non trova luogo l’espediente narrativo del processo, forse perché anche qui i protagonisti affidano la giustizia alla loro spada.
Ora, sembra improbabile che Marino voglia rifarsi alla letteratura burlesca anche se visto con ottica moderna il processo al cinghiale potrebbe avere sfumature comiche o quanto meno favolistiche. Sennonché la dispositio dell’episodio, l’esito imprevisto del processo fanno sospettare un gioco malizioso, magari fortemente ironico e quindi necessariamente vincolato ad un contesto col quale vive in tensione critica, contesto che in tal caso può apparire sotto luce diversa e che allora deve aiutarci a capire il senso di questo episodio.
Adone va a caccia grossa e la preda che più gli farebbe onore è decisamente un cinghiale. È l’animale che più di ogni altro, anche più del cervo e dell’orso, si addice ad un re: lo apprendiamo dalla tradizione antica e anche dalla mitologia se appena ricordiamo Ercole e il cinghiale caledonio [12]. E ricordiamo che la caccia di una bestia così pregiata e temuta per la ferocia e l’astuzia quasi diabolica era costata la vita ad alcuni re francesi, come Filippo il Bello [13]. Ora Adone che va a caccia dopo un lungo divieto è appena diventato re, quindi tutto dovrebbe procedere come scritto nei protocolli reali. Ma Adone è stato eletto re non per le sue virtù militari o politiche, bensì per un concorso di bellezza in cui supera tutti gli altri concorrenti [14]. La bellezza fisica è la sola qualità di Adone ed essa regge le fila del suo ruolo da personaggio principale del lunghissimo poema. Egli è il “signore della scena”, come direbbe Cervantes, perché la sua presenza è pressoché costante; ma, per quel gioco dell’inversamente proporzionale caro al Marino, il suo dominio dell’azione è praticamente nullo. Egli entra nella storia del poema per caso (un naufragio) e ne esce per un caso (il vento che gli solleva il gonnellino); egli è l’eroe più cullato e profumato di tutti i tempi, più desiderato e sempre disposto ad assecondare la volontà e il desiderio altrui. Adone non è in alcun modo un eroe del tipo epico-cavalleresco, ed è perfino difficile classificarlo come anti-eroe perché il suo non-fare cade in una sfera che meglio si chiamerebbe “ozioso idillio”, percorso da svenevole erotismo. Marino ha pensato il suo carattere come un androgino che fa da contrappunto agli eroi di Tasso, animati sempre da ideali alti. L’Adone, insomma, è un poema mitologico-amoroso e non storico, quindi un poema concepito in polemica col “poema storico” strenuamente difeso dalla poetica tassiana.
Tenendo in mente questi elementi — illustrati in maniera impareggiabile nel commento epocale di Padre Pozzi — vediamo Adone arrivato ad un punto della sua vita in cui per la prima volta ha occasione di prendere in mano l’azione, di mostrare che è capace di altre prodezze oltre a quelle amatorie, anche se a dire il vero la sua natura gentile non lo spinge a vanti o a sfide, e si direbbe che egli abbia un piacere tutto edonistico e infantile nell’affrontare un’azione venatoria che ha sempre desiderato esperimentare. Sappiamo che l’esperienza gli riesce letale, come del resto era scritto nel fato. La sua scomparsa dalla scena lascia un vuoto ma non modifica la storia, visto che la sua presenza contava ben poco nel tenerla in moto. Un’uccisione così drammatica e nello stesso tempo così priva di conseguenze importanti è del tutto degna di un personaggio che ha svolto un ruolo sempre passivo, nonostante la sua solare luminosità.
Adone, dunque, muore, e il cinghiale è messo sotto processo. Ma qual è la sua vera colpa? Se rileggiamo la requisitoria di Venere vediamo che essa contiene gli elementi che serviranno al cinghiale per difendersi. Venere piange l’oltraggio che il cinghiale ha fatto alla bellezza di Adone, e piange soprattutto la perdita che lei ha subito con la privazione del suo bellissimo amante. Anche in questa circostanza si mette in rilievo la sola qualità di Adone, vale a dire la sua unica bellezza. Sennonché questa qualità che Venere ama è proprio la stessa che scatena nel cinghiale desideri che non può controllare. L’aggressività che ne risulta gli merita il titolo del “vero maschio” del poema, definizione che, data da Poliziano sull’Adone ovidiano, si rivela giustissima e applicabile all’Adone mariniano. L’animale ama il giovinetto come lo ama Venere, anzi amandolo mostra tutto il suo rispetto per le leggi d’Amore sulle quali la dea Venere comanda. La sincerità del suo impulso gli merita l’assoluzione.
Il processo, però, rivela un fatto inedito e importantissimo: il cinghiale non è soltanto “il maschio del poema”, ma è anche un personaggio di stampo nuovo nel poema e nel panorama del tempo. Il processo porta ad una confessione e quindi alla rivelazione di un personaggio la cui apparenza è diversa da quella che cela nel suo intimo. Quel mondo intimo è tutt’altro che semplice, perché complessa è la motivazione e la spiegazione del reato, o complesso è almeno il suo modo di giudicarlo. Il cinghiale attenua la propria colpevolezza imputando il misfatto alle sue zanne. L’omicidio di Adone risulta in tal modo un omicidio colposo, e il fatto che l’autore se ne senta almeno in parte responsabile e ne sia addolorato, indica in lui la presenza di una coscienza, vale a dire di un elemento che di solito non entra nella storia degli eroi. Quel dolore lo porta ad autopunirsi spuntandosi le zanne, con un gesto che a Giovanni Pozzi è parso simbolico di auto-castrazione. Il cinghiale è consapevole di non aver moderato la propria furia cedendo alla legge d’amore, però il suo «smoderato piacer termina in doglia», ma una doglia della persona desiderata anziché della persona amante. Il suo reato è preterintenzionale, e nondimeno gli causa grande rimorso. È un evento che lo sorprende e lo trasforma, portandolo alla reclusività e alla privazione dello strumento che se fino ad allora gli procurava vitto, ora gli si è rivelato portatore di morte. Tuttavia sono ragioni che lo assolvono da una pena maggiore, e con il suo ragionamento salva la propria vita.
L’insieme di questi elementi compongono ciò che potremmo chiamare “un personaggio da romanzo”, e tale è il cinghiale che chiude la storia dell’Adone. Se leggiamo l’Eromena di Giovan Francesco Biondi [15] pubblicata nel 1624, cioè un anno dopo l’Adone vediamo che lì spunta un personaggio in cui si avverte un distanziamento dall’epos o quanto meno dal tipo di personaggio che quel genere letterario produsse: tipicamente un eroe in cui apparenza e mondo interiore coincidevano perfettamente, un eroe psicologicamente piatto e remoto dal tempo sia degli autori che gli danno vita e sia dei lettori che possono conoscerlo solo a questa incolmabile distanza [16]. In effetti i personaggi epico-cavallereschi si riducono agevolmente a tipi grazie alla loro fissità e linearità psicologica: senza una qualità di tal specie Don Chisciotte non avrebbe mai potuto imitarli o farne i suoi modelli di una vita completamente costruita su ciò che la letteratura gli prescriveva.
Il personaggio Adone è anch’esso piatto come quei cavalieri, ma non ne condivide la sostanza di ideali senza i quali ogni storia è vuota. Non c’è dubbio infatti che Marino concepisca la sua opera col fine di “vuotare” di sostanza storica il poema che Tasso aveva voluto redimere dalle pulcherrimae ambages cavalleresche riconducendolo alla storia o quanto meno a un verosimile storico. Per Marino soltanto la poesia d’amore e di passione amorosa e non quella epica rappresenta la vera tradizione italiana, perciò egli scrive un “poema d’amore” attuando una rivoluzione nel senso che trasferiva un tema appartenente quasi esclusivamente al genere lirico ad un genere in cui la passione amorosa giocava tutt’al più un ruolo marginale.
La passione amorosa è costituzionalmente povera di movimento in quanto tende a rimanere identica a se stessa, a limitarsi alla vita intima dei soli due personaggi che la vivono, a svilupparsi magari in intensità, ma non ad allargarsi verso altre sfere che poco darebbero per arricchirla. Costituzionalmente, insomma, amore e storia sono temi difficilmente conciliabili, e Marino lo prova indebolendo al massimo l’elemento narrativo del poema che è come dire la sua storia portante, rendendo debolissimi i personaggi, togliendo loro l’azione, rendendoli, insomma non-eroici se non proprio antieroici. Ma quei personaggi sono “amanti”, e la vera minaccia che incombe su di loro non sono tanto quelli che intralciano la loro unione quanto il tempo, il quale porta con sé sazietà e noia, come prova la dissoluzione dell’amore fra i due nostri protagonisti. La passione amorosa non è una forza paragonabile all’ideale epico e religioso e cortese che anima i cavalieri, i quali sono costituzionalmente personaggi “pubblici, contrariamente agli amanti appassionati che sono per statuto personaggi “privati”.
L’Adone appare quando è in corso la crisi degli ideali storico-cavallereschi e degli eroi, e un poema d’amore senza lieto fine e senza più trionfi contribuisce sicuramente a demolirli. Non è un atteggiamento di polemica frivola, se ricordiamo che in quello stesso periodo si va realizzando una rivoluzione epocale nella sfera dell’etica, rivoluzione che tende a sostituire “i fini” dell’azione morale con “i moventi” della stessa: vale a dire che si sostituisce il traguardo dell’azione morale, posto nella bellezza intrinseca della virtù (l’honestum classico), con la passione che dà la vera misura dell’individuo. Ne avvertiamo i segni nel saggio di Montaigne “Dell’utile e dell’onesto” (Essais, III, 1), del tardo Cinquecento, e ne abbiamo la conferma con filosofi come Cartesio (Trattato delle passioni) e di Spinoza (Ethica) del pieno Seicento [17].
Adone non è un personaggio nuovo, anche perché era già “bell’e fatto” nel mito antico, ma lo sarà invece chi lo uccide. Questi è il cinghiale, con la sua complessità psicologica, con la sua coscienza che lo porta a controllare gli istinti naturali, un personaggio che si rinnova per il senso di colpa. È interessante che questa sua nuova natura emerga da un processo perché, quando il nuovo personaggio dei romanzi verrà a dominare la scena europea, allora si metteranno di moda i processi come espedienti narrativi che permettono lo smascheramento di un personaggio e consentono di vedere nell’intimo della sua anima e nei particolari della storia che ha voluto nascondere, processi che riescono a rendere pubblico il privato, a rivelare complessità umane individuali che il rigido codice cavalleresco non favoriva. Nel caso del cinghiale il processo rivela una complessità intima maggiore di quella che vedremmo con una semplice ammissione di colpevolezza. Infatti il cinghiale non si assume la responsabilità della morte di Adone, ma riesce a scaricarla tutta sulle proprie zanne. In questo il cinghiale sfrutta una tecnica perseguita da tutti i personaggi del canto i quali riescono sempre a scaricare la colpa su altri personaggi, creando attorno alla morte di Adone una cascata di “de-responsabilizzazioni” [18] che vuota di contenuto etico i protagonisti/personaggi partecipanti dell’azione, riducendoli a semplici spettatori dell’azione, incapaci di prendervi un ruolo attivo. Davanti a questi personaggi ridotti a fantasmi, il cinghiale mantiene una sua integrità mostrando almeno dolore per l’accaduto. Non è un personaggio eroico capace di votarsi al sacrificio, ma è un personaggio che vive ormai secondo “diritto” e anche secondo coscienza, e non già secondo un codice d’onore. Il suo dolore nasce non da un senso di colpa, bensì da amore per la vittima e dalla sua impotenza di evitare un incidente. E quell’incidente, quelle zanne che portano a conseguenze non previste, sono le vere colpevoli della morte di Adone, e tagliandosele il cinghiale si dissocia simbolicamente e moralmente dal loro reato. Dietro quel gesto che può sembrare ingenuo, si può leggere la fine di un mondo in cui gli eroi fanno la storia, e l’inizio di un mondo in cui li sostituisce il caso: finisce, insomma, l’eredità di Plutarco e prende forza il fatalismo o materialismo spinoziano; o se si vuole tramonta un mondo etico in cui l’agire non viene giudicato dai fini che si perseguono, e sorge un nuovo mondo in cui si considera l’azione dalle passioni che lo muovono. E se non vogliamo investire di significati così profondi il dolore del cinghiale, dobbiamo almeno ammettere che quei suoi denti determinano un vero cataclisma perché pongono fine ad un amore fra i più cementati che il mondo dei miti abbia avuto — l’amore della dea d’amore con il giovane più bello che il mondo abbia mai visto — e fanno crollare una macchina poematica che fino ad allora si reggeva su forze dipendenti dalla volontà dei suoi eroi e dal volere divino.
Non c’è dubbio che tale discordanza di cause ed effetti si presti ad un’interpretazione comica, paragonabile com’è al morso del granchiolino che uccide Morgante; ma lo sconquasso che l’episodio del cinghiale genera al livello di poetica è di ben altra portata di quella del protagonista pulciano. Un eroe che scompare dalla scena per un caso così come per un caso c’è entrato, fa pensare che la mente di chi l’ha concepito così poco eroico fosse guidata da intenzioni ironiche e polemiche più che comico-caricaturali. La morte di un eroe “amato smodatamente” termina nel pianto di chi l’ama. Sennonché quel pianto non cambia la natura di Venere, che torna al suo Olimpo e ai suoi amori, ma cambia quella del cinghiale che vivrà senza zanne nascosto nella selva, confermando l’ipotesi che sia un personaggio da romanzo nel senso che subisce modifiche impostegli dalla storia che vive.
La morte di un protagonista così presente in un lungo poema genera sempre una nota di tristezza, specialmente se, come in questo caso, è un protagonista innocente e gentile; ma per le stesse ragioni è un eroe senza potere di muovere storie, per cui la sua scomparsa può suscitare anche un senso di liberazione, e se la sua morte ha una causa banale e antieroica tanto meglio perché nessuno può essere accusato di averlo ucciso. Eccetto, naturalmente, il cinghiale, il quale però è anche un personaggio capace di difendersi. L’incontro di tradizioni eroicheggianti o anche mitologiche con il mondo della banalità non crea il grottesco dell’eroicomico — che come tutte le forme di parodia esistono solo a patto che si conservi il modello parodiato — ma crea quell’ironia che implica un giudizio polemico nei riguardi del modello che intende soppiantare, quell’ironia che nasce modernamente con la forma del romanzo, nella fattispecie col Don Quijote. L’episodio del cinghiale è impastato di un’ironia del genere, sfuggente come tutte le forme di ironia, miste di comico e di tragico, di vecchio e nuovo, viste con una lucidità intellettuale che però non si vuole tradire prendendo partito per una componente o per l’altra. Anche in questo Marino si mostrò geniale e modernissimo.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
[*] Una versione alquanto diversa di questo saggio è apparsa nel «Bollettino d’Italianistica», 6 (2009): 69-83.
Note
[1] Thierstrafen und Thierprocesse, Innsbruch, Wagner, 1891. Apparso originariamente nelle “Mitteilungen des Instituts für Oesterreichische Geschichtsforschung, XII, 1891: 546-601.
[2] Bestie delinquenti, Napoli, Pierro, 1992.
[3] E. P. Evans, The Criminal Prosecution and Capital Punishment of Animals- The Lost History of Europe Animals Trials, Heinemann, Londra 1906. Questo classico nel suo genere è ora accessibile nella ristampa dell’ed. Faber and Faber, Londra 1987, con una prefazione di N. Humphrey.
[4] G. Francione, Il processo degli animali, con prefazione di Monica Cirinnà, Gangemi, Roma 1996.
[5] M. Pastoureau, Une histoire symbolique du Moyen Age Occidental, Seuil, Parigi 2004. Al simbolismo degli animali Pastoureau dedica un lungo capitolo (pp. 29-80) suddiviso in tre parti: “Les procès d’animaux (Une justice exemplaire)”; “Le sacre du lion (Comment le bestiairie médiévale s’est donné un roi)”; “Chasser le sanglier (Du gibier royal à la bête impure: histoire d’une dévalorisation”).
[6] La ricevuta è riportata, insieme ad altri documenti simili, in appendice del libro di Evans, The Criminal Punishment, cit.: 287.
[7] “Due grandi avvoltoj colle ali tese erano inchiodati ciascuno su una imposta; ed uno uno già mezzo consumato dal tempo aveva perduta gran parte delle piume, e qualche membro, non aveva quasi più nemmeno la figura di un bel cadavere”, secondo il testo del Fermo e Lucia nell’ed. di Salvatore Silvano Nigro, Mondadori (“I meridiani”), Milano 2002: 97. Si cita da quest’edizione, pur diversa da quella di Promessi sposi del 1827, perché qui Nigro commenta il passo e, contrariamente alla nostra ipotesi, sostiene che i due avvoltoi siano un «trofeo di caccia. Ma di caccia gratuita, insulsa: e sudicia» (ivi: 943).
[8] Indicazioni bibliografiche in Evans, The Criminal Prosecution, cit.: 90.
[9] G.W. Leibniz, Tentamina Theodiceae, vol. II, art. 1, n. 69 e 70. Francoforte – Lipsia, 1739. Riprendo la citazione, ovviamente incompleta, da Francione, Processi agli animali, cit.: 88. Francione ricorda che Leibniz pensava che l’esempio delle esecuzioni animali avesse un effetto deterrente sugli altri animali. E cita il seguente passo: «Si trovano nei borghi persone che alle porte inchiodano uccelli di rapina, stimando che altri uccelli rapaci così non si avvicineranno tanto facilmente» (ivi: 73). Anche il riferimento preciso di questo passo andrebbe verificato; comunque lo si è voluto citare pensando agli “avvoltoi” del palazzo di Don Rodrigo citati nella nota 11.
[10] G.B. Marino, L’Adone, a cura di G. Pozzi, Milano, Mondadori (“I classici Mondadori”), 1970, vol. I: 139-1140.
[11] T. Stigliani, Dello Occhiale, Venezia, Carampello, 1627: 384 [ma 390].
[12] Sul tema della caccia sia nella letteratura classica che in quella medievale e rinascimentale rimane sempre indispensabile il saggio di Don Cameron Allen, On Venus and Adonis, in Elizabethan and Jacobean Studies Presented to Frank Percy Wilson on his Seventieth Birthday, Clarendon Press, Oxford, 1959: 100-111. Allen studia il poemetto di Shakespeare Adonis, e con dovizia di testi sottolinea la differenza di prestigio legato alla caccia grossa rispetto al prestigio derivato dalla caccia minuta. Adone va a caccia grossa.
[13] Cfr. Pastoureau, Une histoire symbolique, cit.: 73.
[14] Su questo episodio e la sua valenza culturale, si veda il mio Il re Adone, Sellerio, Palermo 1998.
[15] Su Giovan Francesco Biondi e in generale sul mutamento nella rappresentazione del personaggio nel romanzo secentesco, si veda R. Colombi, Lo sguardo che s’interna. Personaggi e immaginario interiore nel romanzo italiano del Seicento, Aracne, Roma 2002. Sul generale fenomeno della messa a nuovo dei generi letterari rinascimentali, si veda il volume miscellaneo Instabilità e metamorfosi dei generi nella letteratura barocca. Atti del convegno di studi, Genova, Auditorium di Palazzo Rosso, 5-6-7 ottobre 2006, a cura di S. Morando, Marsilio, Venezia 2008.
[16] Su questi problemi è d’obbligo il rimando ad almeno due opere di M. Bachtin, Estetica e romanzo, (1975), trad. it. Einaudi, Torino 1979; e L’autore e l’eroe (1979), Einaudi, Torino 1988.
[17] Sulla storia del concetto di honestum e sulla crisi tardo rinascimentale, rinvio al mio Il tramonto dell’onestade, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016.
[18] Su questo motivo rimando al mio La metamorfosi dell’Adone, cit.: 82-92.
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Paolo Cherchi, “professor emeritus” della University of Chicago, dove ha insegnato letteratura italiana e spagnola e filologia romanza dal 1965 al 2003, anno in cui è stato chiamato dall’Università di Ferrara come Ordinario di letteratura italiana, e da dove è andato in congedo nel 2009. Si è laureato a Cagliari in filologia romanza, ha conseguito un PhD a Berkley (1966). Si è occupato prevalentemente di letterature romanze nel periodo medievale e rinascimentale. Fra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il tramonto dell’onestade (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016); Petrarca maestro. Linguaggio dei simboli e della storia (Roma, Viella, 2018); Maestri. Memorie e racconti di un apprendistato (Ravenna, Longo, 2019); Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi verso l’Europa scettica e critica (1500-1750) (Padova, libreriauniversitaria.it.edizioni); Quantulacumque lucretiana. Nuove piste di ricerca sulla fortuna di Lucrezio nel tardo Rinascimento (Generis Publishing, 2022); Studi ispanici. Fonti, topoi, intertesti (Milano, Ledizioni, 2022). Nel 2016 è stato cooptato come socio straniero dall’Accademia dei Lincei.
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