di Sara Raimondi
Nell’ultimo numero di Dialoghi Mediterranei è stato aperto un dibattito sul tema della pluralità religiosa, dei suoi spazi e delle sue modalità grazie all’input di Marco Ventura, autore di Un milione di euro per la super-religione pubblicato sul Corriere della Sera. L’articolo presenta il caso esemplare di una chiesa del XIII secolo, le cui fondamenta sono state recentemente riscoperte nella zona di Berlino est, di cui si progetta l’ambiziosa ricostruzione per riunire tre luoghi di culto in uno, uno spazio multi-fede per abbattere i muri tra religioni monoteiste e aprire alla tollerante convivenza tra fedeli. L’articolo di Ventura, quindi, ci obbliga ad osservare il nostro contesto socio-culturale dove in realtà le comunità straniere già adesso dialogano tra di loro e con i cittadini italiani.
Chiediamoci quindi: è possibile anche nella nostra penisola una simile progetto così all’avanguardia, in un Paese dove fatichiamo a trovare spazi da destinare alle sole moschee? Ma quali sono le basi da cui la società italiana può iniziare per riflettere sulle possibilità effettive di simili luoghi? Il contributo di Linda Armano nel numero di novembre, Le religioni monoteiste nel rito funebre di Valeria Solesin: dimostrazione di un trascendimento, porta già un esempio di spiritualità condivisa; purtroppo questi modelli positivi di integrazione o di compresenza non vengono valorizzati né approfonditi ma, al contrario, appaiono eclatanti, episodici e fugaci casi di dialogo tra diverse culture religiose. Il funerale documentato da Armano tenutosi alla presenza del patriarca di Venezia, di un rabbino, di un imam e di un ulteriore rappresentante della comunità musulmana mostra come i quattro, insieme ai familiari, si siano alternati nel dare il loro contributo ad un evento doloroso, che indubbiamente riguardava non solo la famiglia sconvolta dal lutto. Infatti, l’attacco terroristico al Bataclan a Parigi, come anche ogni altro episodio violento dettato dall’intolleranza, è una sfida a tutti coloro che lavorano e si impegnano in favore della comunicazione e dalla vicinanza tra comunità di tradizioni differenti. Ciò che però è ben più importante all’interno della lettura di Linda Armano è la descrizione dei momenti di unione e vicinanza di fronte al dolore, indipendentemente dalla cultura di provenienza. È stata sottolineata inoltre la creazione di una atmosfera silenziosa, come meditativa, che vince sul quotidiano caos di Venezia. Nella presa di possesso dello spazio l’autrice coglie una dimensione sacra e trascendente con la partecipazione delle diverse comunità tutte toccate dalla vicenda della giovane ricercatrice Valeria Soresin barbaramente uccisa.
Quello che appunto – e purtroppo – si tende a dimenticare è che, anche se vivere un lutto è certamente un’esperienza personale, incondivisibile e spesso incomunicabile, essa è anche universale e trascende l‘appartenenza culturale o religiosa. La morte è parte di ogni vita: lo strazio che si prova sapendo che un proprio caro è malato senza possibilità di cura o che una vita si è spezzata prematuramente è in egual misura distruttivo a prescindere dal fatto che una persona sia cattolica, ebrea, protestante, musulmana, buddhista, laica e così via. In ogni caso si avverte un forte bisogno di dare un senso e un perché all’evento e si cerca conforto, un appoggio e sostegno morale ed affettivo per superare il patimento. Di fronte alla morte e nel contesto dei riti funebri è risultato molto evidente come il gruppo, la comunità di parenti, amici o anche solo persone in grado di offrire empatia siano vitali al superamento del lutto. È documentato che non solo la morte, ma anche traumi legati a episodi violenti o a esperienze complicate come una malattia lunga e dolorosa, la solitudine del carcere, un recente divorzio siano come piccoli e costanti lutti che irrompono nel quotidiano delle esistenze individuali. E purtroppo questo riguarda una grande quantità di persone, di diverse culture, tradizioni e fedi accomunate dalle difficoltà e dai disagi a cui la vita a volte ci sottopone.
La proposta di riflessione intorno al pluralismo religioso è perciò importantissima ma deve muovere da alcuni assunti importanti prima di poter procedere oltre. Innanzitutto la dichiarazione della presenza di differenti comunità religiose in Italia può essere solo il punto di partenza di quella che deve essere necessariamente un’analisi più approfondita, quasi capillare e di stampo etnografico poiché le identità religiose e culturali nella Penisola possono coincidere nominalmente ma non nella pratica. Infatti, anche basandosi sulla tabella fornita dal Dossier Statistico dell’immigrazione – in cui è possibile osservare i Paesi di provenienza degli immigrati in Italia e da cui è possibile fare una stima delle religioni di appartenenza – non si mettono in luce le differenze in termini di tradizioni culturali, anche all’interno della stessa fede. Un esempio è fornito da Marinus Schouten, nel saggio La frammentazione del rito: il caso olandese, in cui descrive come i creoli del Suriname, immigrati in Olanda, per quanto si autodefiniscano cristiani, continuino a praticare i riti funebri secondo la religione politeista Winti [1]. È evidente quindi come l’affermazione in proposito della religione di appartenenza non esaurisca le domande, anzi le accresca. Un ottimo lavoro in questo senso è stato svolto dalla Fondazione Benvenuti in Italia, la cui ricerca pubblicata in Modelli e prospettive future per un servizio sociosanitario interculturale è frutto di una indagine qualitativa su molti aspetti: religioso, sanitario, senza tralasciare la società inseeita nello spazio urbano.
Inoltre, va tenuto in considerazione un fenomeno di interpretazione personale della fede che non coinvolge soltanto il cristianesimo ma che influenza varie comunità religiose: la fede viene professata e praticata cercando di sviluppare una riflessione personale, maturata attraverso letture e dialoghi con altri credenti. Dall’altro lato, anche se la fede viene sviluppata privatamente continua a legarsi alla società pubblica e alla politica, quindi la creazione di spazi urbani multifede è certamente un atto socio-politico che per essere realizzato necessita dell’appoggio non di un solo gruppo ma di una notevole fetta della comunità locale. Infine, non possiamo ignorare quella parte della popolazione che si dichiara atea o agnostica, il cui rapporto con il sacro è apparentemente assente. Anzi, diventa sempre più importante cercare di capire come, chi si dichiara ateo, possa essere favorito da spazi che invitano alla riflessione spirituale, un’attività non forzatamente legata a un culto.
Sia gli italiani che gli stranieri, a prescindere dalla religione di appartenenza non possono sottrarsi da questo tempo in cui i principali eventi della vita – nascita, malattia, morte – sono inseriti in un ciclo frenetico, emotivamente estenuante e scarsamente propenso alla meditazione e alla condivisione umana. Molti momenti che decenni fa trovavano il loro senso e quindi venivano gestiti attraverso lo sguardo vigile della comunità religiosa, oggi hanno perso i punti di riferimento classici e si trovano soltanto nelle mani della razionalità scientifica o della macchina burocratica. Ciononostante restano innegabili e irriducibili i bisogni spirituali e religiosi che muovono ciascuno di noi alla ricerca di un orizzonte di ordine e senso agli eventi cruciali dell’esistenza.
Una risposta, per quanto ancora sperimentale, a questo dilemma che coinvolge la differenza culturale, la spiritualità e la fede – anche se personalizzata e leggermente discostata dalla tradizione – è data dal Comitato Nazionale per la Stanza del Silenzio e/o dei Culti nato a giugno 2016, presieduto da Enzo Pace, professore ordinario di Sociologia generale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Il Comitato ha come scopo la sensibilizzazione intorno al tema della meditazione e della possibilità di praticare la propria fede anche in luoghi pubblici. Si è inoltre attivato per la costruzione di spazi all’interno di ospedali, carceri e non solo, dove le persone possano allontanarsi dal caos quotidiano, soprattutto in siti emotivamente provanti, e ritrovare la pace e la serenità attraverso la quiete e la riflessione. Come afferma Mariachiara Giorda nello studio Una casa delle religioni [2], ciò che si deve offrire è uno spazio per la «fede e basta» dove le persone possano avere il silenzio e la pace per ritrovare se stessi, scostandosi dal frastuono della vita quotidiana. Perciò, il Comitato Nazionale ragiona intorno al processo migratorio di questi ultimi decenni che comporta nuove sfide per le istituzioni e intorno agli spazi pubblici che necessitano di essere ripensati per favorire una cittadinanza sempre più diversificata e, purtroppo, spesso frammentata. Il gruppo chiamato a riflettere su questa tematica è composto da diverse figure: sociologi, antropologi, mediatori culturali, tecnici dei servizi, medici, psicologi, architetti e altri al fine di sperimentare un approccio olistico e plurale.
Lo scopo di questo comitato è la creazione di uno spazio neutro, dedicato al raccoglimento e alla meditazione interiore, indipendentemente dal credo professato, in un’ottica inclusiva e collettiva. L’idea è quella di offrire prima ancora di uno spazio per il culto un tempo per la promozione della salute psicologica, una questione fondamentale. Infatti, luoghi quali ospedali e carceri dove si vivono situazioni fortemente traumatiche come l’annuncio di una malattia terminale, la con- sapevolezza della fine di un periodo di libertà o serenità o peggio la morte, devono assolutamente attrezzarsi per rispondere a quella sofferenza intima che tocca parenti, amici ma anche personale sanitario e carcerario proprio per la situazione vissuta. Si pensi anche ai dipendenti di questi luoghi, ad operatori sanitari chiamati a gestire situazioni complesse e emergenziali che non sempre vanno a buon fine: lo stress che in alcuni casi si accumula è tale da rendere difficile il lavoro nelle sue pratiche elementari e nelle sue regole gestionali. Da qui l’importanza di un luogo dove sia possibile riflettere liberamente sulla vita, la malattia, la morte, uno spazio di condivisione e di compartecipazione, di dialogo tra gli individui che al di là delle loro appartenenze religiose, etniche o linguistiche sono impegnati in una vicissitudine comune, in una esperienza di dolore da elaborare e superare.
Il progetto è relativamente nuovo e ancora in corso di diffusione: molti ricercatori e operatori si stanno attivando per proporlo in hospice, ospedali e carceri; le modalità di costruzione di questi spazi e i loro fini ultimi non sono ancora del tutto stabiliti, ma questo si dimostra essere un punto a favore del progetto, dal momento che permette la creazione di strutture ad hoc che derivino da un dialogo con i cittadini appartenenti ad ogni tipo di comunità. Prima ancora di poter concretamente procedere con la costruzione di una Stanza del Silenzio e/o dei Culti il comitato si impegna ad avviare un dialogo condiviso in merito ai significati e alle pratiche che le varie culture elaborano intorno alle visioni sulla vita e sulla morte. Solo un vero coinvolgimento, dove ogni comunità è parte del progetto a livello pratico, si può definire un’attività di integrazione e accoglienza.
Un ottimo esempio in questo senso è stata la creazione di una Stanza del Silenzio all’interno dell’Azienda Ospedaliera Universitaria San Giovanni Battista-Le Molinette di Torino dove ai vari rappresentanti religiosi è stato chiesto di partecipare ed intervenire nel dibattito riguardante le caratteristiche della Stanza: di che colore si desideravano le pareti e come poteva essere decorata; se si desiderava la creazione di una parte in parquet per chi si muoveva a piedi scalzi; se si volevano panche, tavoli e un mobile con i libri di preghiera. L’adesione a questo progetto è stata notevole: hanno largamente partecipato rappresentanti religiosi dell’Induismo, Ebraismo, Buddhismo, Chiesa Valdese, Chiesa Evangelica e Chiesa Ortodossa .
Lo stesso procedimento di coinvolgimento attivo è stato condotto dal dott. Alessandro Bonardi (consulente presso cooperative che si occupano di immigrazione e docente al Master Interculturale nel Campo della Salute, del Welfare, del Lavoro e dell’Integrazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia) in collaborazione con il professore Bruno Ciancio (coordinatore dei corsi di master in area sociosanitaria per la Facoltà di Medicina e chirurgia all’Università di Modena e Reggio Emilia). Nel tentativo di creare una Stanza del Silenzio anche a Parma e Modena le varie comunità religiose vengono interpellate; in questo modo lo spazio si configura significativamente accogliente sia per i locali che per gli immigrati, per tutti coloro cioè che hanno bisogno di meditare dopo aver ricevuto notizie traumatiche o aver vissuto momenti provanti.
Il lavoro svolto finora dal comitato è stato favorito anche da una serie di leggi internazionali, nazionali e regionali che però non sempre venivano concretamente applicate. Alcune di queste sono l’art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; la Carta dei Diritti del Morente, l’art. 38 della legge 23/12 1978 n. 833 e ulteriori leggi regionali e comunali. Questo però ci ricorda come le seguenti norme debbano sempre essere promulgate – sono ancora troppo poche le norme locali che tutelano la religiosità universale – e messe in pratica, cosa purtroppo ancor più rara a causa della mancanza di fondi, coinvolgendo le comunità locali di ogni cultura e credo. Perciò, il dialogo interreligioso come anche la possibilità di creare spazi multifede, deve coinvolgere non solo intellettuali, ricercatori e teologi ma è un impegno che tutta la società deve sentire proprio, se è vero che la spiritualità e il bisogno di riflettere sul valore della propria esistenza allontanandosi dai problemi lavorativi, economici, familiari o di altro tipo, costituiscono urgenze culturali e sentimentali profondamente e radicalmente umane, prima ancora che proprie di un individuo credente. Il Comitato Nazionale per la Stanza del Silenzio e/o dei Culti è un gruppo di lavoro con un progetto certamente ambizioso e complesso, ma è anche il disegno di una società civile che vive la dimensione interetnica in un rapporto di matura consapevolezza con la spiritualità universale.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note
[1] M. Schouten, La frammentazione del rito: il caso Olandese, in M. Sozzi, a cura di, La scena degli addii: morte e riti funebri nella società occidentale contemporanea, Torino, Paravia Scriptorium,2001: 96
[2] M. Giorda, Una Casa delle Religioni. Proposta di edificio multifede per la città di Torino, Torino, 2016: 33
Riferimenti bibliografici
Armano L., Le religioni monoteiste nel rito funebre di Valeria Solesin: dimostrazione di un trascendimento, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 22, novembre 2016.
Giorda M., Una Casa delle Religioni. Proposta di edificio multifede per la città di Torino, Torino, 2016.
Schouten M., La frammentazione del rito: il caso Olandese, in M. Sozzi, a cura di, La scena degli addii: morte e riti funebri nella società occidentale contemporanea, Torino, Paravia Scriptorium,2001.
Sitografia
Modelli e prospettive future per un servizio socio sanitario interculturale, Fondazione Benvenuti in Italia
http://benvenutiinitalia.it/wp-content/uploads/2011/09/Quaderno6.pdf
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Sara Raimondi, giovane laureata con lode in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università di Bologna, prosegue i suoi studi concentrandosi sui riti funebri nel mondo contemporaneo. Ha partecipato all’annuale conferenza SANT (Swedish Anthropological Association) con il paper A new way of dying: hard science and soft science applied in the study of funeral rites e all’International conference WWIII? Menagement of death between new social emergencies and their solution con il paper Dall’esperienza del trauma all’esperienza del rito.
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