di Cinzia Costa
Anche quest’anno il Sole Luna Doc Film Festival, festival internazionale di cinema documentario che ormai da 14 anni si tiene a Palermo, ha presentato una nutrita programmazione di attività ed eventi culturali, proponendo al pubblico, nella sua quattordicesima edizione, una selezione di 24 documentari concorrenti per il premio finale, una lunga lista di film fuori concorso dedicati a “Palermo città aperta” o firmati da registi italiani, e un importante tributo al regista scomparso Bernardo Bertolucci.
Il festival, che si è tenuto quest’anno dal 7 al 13 luglio alla Chiesa di Santa Maria dello Spasimo, casa natale della manifestazione, ha selezionato per il concorso una serie di film su temi centrali dell’attualità e della condizione umana; tra questi, come di consueto, il tema delle migrazioni ha avuto il suo posto di rilievo all’interno del concorso. Tre i film che hanno affrontato questa tematica da prospettive molto diverse, analizzando aree geografiche e contesti sociali completamente differenti: il cortometraggio Chinese Dream (Germania 2019, 24’) di Lena Karbe e Tristan Coloma [1], Island of the Hungry Ghosts (Germania – Regno Unito – Austria 2018, 94′) di Gabrielle Brady [2] e Those who remain / Celle qui restent (Francia-Italia 2018, 89′) di Ester Sparatore [3].
Chinese Dream racconta la storia inedita della migrazione di comunità africane nella Cina contemporanea. Attraverso quattro episodi-intervista ambientati in un quartiere africano di Guangzhou, vengono presentate altrettante storie personali che gettano lo sguardo su un fenomeno relativamente recente, che vede per la prima volta la Cina come meta di immigrazione. I narratori di questa storia sono la dipendente di un hotel molto frequentato da clienti africani, l’allenatore di una squadra di calcio che accoglie tra i suoi giocatori giovani provenienti dall’Africa, una coppia mista che racconta l’esperienza di far crescere ed educare le proprie figlie in un Paese poco aperto alla diversità culturale come la Cina e un commerciante che, per interessi economici, ha cominciato a stringere affari con persone proveniente dall’Africa. I registi non specificano in nessun caso la particolare provenienza degli immigrati africani, e il racconto è affidato, quasi in tutti i casi, alle parole di persone cinesi, che presentano il fenomeno migratorio dal punto di vista di chi lo riceve. Il documentario riesce con leggerezza e con toni quasi naif a narrare lo shock culturale e il superamento dello stesso, attraverso storie di vita individuali. Una delle protagoniste, nella parte iniziale del film, dice di non avere mai incontrato un uomo nero prima di aver iniziato a lavorare nell’hotel di cui è dipendente: “La mia prima impressione… sono più alti, più forti, più scuri. Sono più belli dei cinesi”.
Il secondo documentario in concorso alla quattordicesima edizione del Sole Luna Festival che affronta il tema delle migrazioni è Island of the Hungry Ghosts, un film dai toni poetici e delicati, vincitore del premio Miglior documentario, assegnato dalla giuria internazionale, e del Premio del pubblico. Il lungometraggio è ambientato a Christmas Island, un’isola geograficamente molto vicina all’Indonesia, ma appartenente politicamente all’Australia. La protagonista, Poh Lin Lee, è una “terapeuta del trauma” che vive con la sua famiglia sull’isola e che accompagna in un percorso di riabilitazione psicologica alcuni richiedenti asilo trattenuti nel centro di detenzione della sua zona. La storia intreccia, su diversi piani, tre filoni narrativi apparentemente scollegati tra di loro, ma che, accostandosi, danno vita ad una riflessione di ampio respiro. Da una parte la migrazione dalla giungla all’Oceano Indiano di milioni di granchi rossi, tutelati e addirittura scortati da attivisti ambientalisti, al fine di preservare la rara specie animale originaria dell’isola; dall’altra il rituale popolare taoista dei “fantasmi affamati” (che dà nome al film), diffuso nell’Isola di Natale, secondo cui nel corso di uno specifico periodo dell’anno è necessario fare delle offerte agli spiriti degli antenati che vagano sulla terra. Le prime persone che abitarono l’isola, secondo la credenza popolare, non ricevettero infatti degna sepoltura e le loro anime sono destinate a vagare sulla terra.
Questo secondo filone narrativo, che racconta pur sempre una storia di migrazione e di sofferenza, si incontra con il percorso individuale della psicologa, che affronta serie difficoltà nello svolgere la sua professione in supporto dei richiedenti asilo. Christmas Island è infatti situata in una zona molto favorevole per tutti i profughi che vogliono lasciare l’Asia per cercare di ottenere asilo in territorio australiano; in risposta a questo fenomeno i governatori locali hanno attuato delle norme molto restrittive, in termini di accoglienza, decretando l’allocazione dei migranti in centri di detenzione molto rigidi e arrivando addirittura ad escludere il territorio dell’isola dai territori in cui è possibile fare richiesta di asilo.
«nel 2006 è stato costruito un centro di detenzione di massima sicurezza dove vengono portati i profughi che cercano di raggiungere l’Australia via mare. I richiedenti asilo non possono uscire dalla struttura e sono detenuti a tempo indeterminato»[4].
Le anime dei “fantasmi affamati” e le figure dei profughi si accostano in un gioco di luci profondo e delicato, che emerge chiaro nel senso di frustrazione ed impotenza di Poh Lin Lee nello svolgere la sua attività professionale, tanto da spingerla a lasciare l’isola insieme alla sua famiglia, diventando, in qualche modo, anche lei un’anima errante. L’accostamento di queste tre storie evidenzia il forte paradosso, diffuso spesso nel mondo occidentale, del salvaguardare in tutti i modi alcune specie animali, osteggiando invece la tutela di molte vite umane, e molto spesso criminalizzandole. Una contraddizione questa, che lascia lo spettatore interdetto, e che chiude il film, stimolando una serie di riflessioni ed interrogativi sulla società in cui viviamo.
L’ultimo film che intendo presentare, è Those who remain/ Celle qui restent, vincitore del Best Film Yoga Award al Biografilm Italia 2019, della regista palermitana Ester Sparatore. L’autrice ha già firmato in precedenza un altro lungometraggio incentrato su Lampedusa, in questo senso Those who remain costituisce una prosecuzione del suo progetto: la cinepresa non si concentra più sul luogo di destinazione dei migranti, ma piuttosto sul paese di partenza e il tema della migrazione, pur essendo alla base delle vicende del film, viene toccato in modo latente dalla narrazione. Il documentario segue infatti la quotidianità, sia privata che pubblica, di Om El Khir, una donna tunisina, attivista del movimento delle cosiddette “donne-fotografia”, che lotta per scoprire che fine abbiamo fatto 504 uomini partiti dalle coste della Tunisia verso l’Italia nel marzo del 2011, all’indomani della primavera araba. Le madri, mogli e sorelle di questi uomini dispersi si sono organizzate in associazioni e movimenti, al fine di fare pressione sulle istituzioni tunisine e italiane, affinché conducano indagini approfondite; l’analisi di video e altre prove raccolte dalle attiviste ha portato infatti alla conclusione che i barconi su cui sono saliti i migranti dispersi non sono naufragati, ma bensì approdati a Lampedusa: è da quel momento che le famiglie ne hanno perso le tracce. Parallelamente all’attivismo pubblico Om El Khir conduce una vita familiare difficile, causata dal fatto di dover accudire e sostenere da sola i suoi tre figli. Al dolore della scomparsa e perdita del marito, si aggiungono dunque le difficoltà della vita quotidiana.
La regista riesce a dipingere un quadro estremamente chiaro e toccante della situazione di Om El Khir, delle sue compagne attiviste, delle famiglie “che restano” e, di riflesso, del fenomeno migratorio in Tunisia, della percezione dello stesso tra i più giovani e del dramma sociale rappresentato dall’emigrazione e dalla perdita di capitale umano. Una scena particolarmente significativa raffigura dei bambini giocare, in una grande pozzanghera, allo sbarco a Lampedusa.
Nei tre film che ho scelto di analizzare la migrazione è un tema centrale che viene però sempre raccontato da prospettive differenti: dal punto di vista di chi vive o di chi lavora nell’ambito dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei migranti nel Paese di destinazione e dal punto di vista delle famiglie del Paese di provenienza, ma mai dalla prospettiva del migrante stesso. Lungi dallo svilire la narrazione sulla migrazione, questo tipo di approccio e di rappresentazione del fenomeno migratorio è quanto mai lucida ed interessante, perché ci spinge ad osservare il fenomeno a 360 gradi: le migrazioni sono infatti da considerarsi un “fatto sociale totale”, come le definiva eloquentemente il sociologo Abdelmalek Sayad. Le migrazioni, in quanto fattore umano, costitutivo della specie umana e dei popoli di cui essa si compone, sono un fenomeno che non riguarda solo chi viaggia, ma tutti, indistintamente. Le cause dei fenomeni migratori hanno origini globali e sviluppi locali, che coinvolgono tutte le società protagoniste della migrazione: quella di origine, quella di passaggio e quella di destinazione. Gli effetti dello spostamento e del passaggio sono percepibili in tutti gruppi sociali coinvolti e ne modificano gli equilibri.
In questo senso il linguaggio cinematografico è uno strumento privilegiato, che ci consente di osservare le vicende anche da molto vicino. La polifonia delle narrazioni è ciò che più di tutto riesce a rendere comprensibile la realtà, e a questo che bisogna fare appello quando si cerca di esprimere un giudizio in merito ad una questione particolare. Troppo spesso il tema della migrazione è rappresentato su due binari paralleli, che vedono da un lato una severa chiusura nei confronti del fenomeno migratorio, dall’altro un senso pietistico di paternalismo, che appiattisce la sincronia e la diacronia dei fatti. In tutti i casi sono escluse dall’analisi le società di provenienza, gli effetti che le migrazioni hanno sulle famiglie e sugli operatori del settore. Tutto questo riguarda anche noi e i cambiamenti che la nostra società sta già affrontando.
Avere dunque la possibilità di assistere alla proiezione di prodotti cinematografici della più varia provenienza, su temi poco noti e i cui autori privilegiano punti di osservazioni inediti e originali, è un privilegio che bisognerebbe non sottovalutare. La distribuzione di film documentari come quelli qui presentati è un fatto culturale di grande importanza, poiché i festival e le manifestazioni come il Sole Luna Festival sono le uniche occasioni per il largo pubblico di fruire un tipo di prodotto cinematografico che non trova spazio nel circuito commerciale della grande industria, ma che riesce a restituire ai suoi spettatori piccoli frammenti di realtà utili ad orientarsi nella confusa temperie delle nostre vite e a decifrare il difficile puzzle della contemporaneità.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
[1] https://solelunadoc.org/film/chinese-dream/
[2] https://solelunadoc.org/film/island-of-the-hungry-gosths/
[3] https://solelunadoc.org/film/those-who-remain/
[4] https://www.internazionale.it/video/2017/09/13/migranti-prigionieri-australia; La stessa Gabrielle Brady, regista del film, ha realizzato nel 2017 un reportage per The Guardian, tradotto e diffuso in Italia dall’Internazionale, all’interno del quale presentava la situazione politica di Christmas Island, e il durissimo sistema attuato dai governatori nei confronti dei richiedenti asilo.
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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione. Collabora con l’Associazione Sole Luna – Un ponte tra le culture.
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