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Un gigante senza nicchia. Il ritorno di Bartolo Cattafi

 copertinadi Salvatore Ferlita

Che Bartolo Cattafi sia un gigante della poesia ce lo conferma, se mai prova dovesse occorrere, il volumone da poco uscito per i tipi di Le Lettere che allinea tutta quanta la sua produzione in versi (Bartolo Cattafi, Tutte le poesie, a cura di Diego Bertelli, Introduzione di Raoul Bruni). La disposizione diacronica delle raccolte ci consente di seguire passo passo la maturazione di un poeta che sin dalle prime prove, anche se acerbe in qualche caso e musicalmente prevedibili, ha mostrato un sembiante poco riconducibile alle idee dominanti della sua epoca. Questa idiosincrasia alle «grandi tendenze della modernità e della contemporaneità letteraria», come annota Raoul Bruni ad apertura del volume, ha determinato un distacco vero e proprio rispetto al fondale della tradizione, che poi si è trasformato in isolamento, in una sorta di ostinato e cieco ostracismo.

A esacerbare questa frattura ci ha pensato la refrattarietà dello stesso Cattafi a rilasciare dichiarazioni di poetica, a diffondere manifesti programmatici. Rimarrà deluso infatti chi, sfogliando le interviste rilasciate dal poeta messinese, sia in cerca di autocommenti, di autochiose. Egli amava parlare assai raramente della sua poesia, ma pochi dalle nostre parti sapevano come lui incidere sul corpo vivo dei versi con un bisturi affilatissimo e impietoso. Soprattutto dalla raccolta L’osso. L’anima (1964) in poi Cattafi occuperà la scena novecentesca con un piglio di originalità tale da far saltare gli schemi critici. Nonostante l’ostinatezza di alcuni suoi interpreti nel volerlo legare a doppio filo all’esperienza della cosiddetta “linea lombarda”, ossia di quei poeti che a metà del secolo scorso guardavano alla realtà con risentimento, a volta anche con sarcasmo (avendo alle spalle numi tutelari dello spessore di Parini e Manzoni), restituendone gli oggetti e la tridimensionalità, Cattafi se ne emancipò presto, uscendo immune oltretutto dall’abbuffata novecentista che coinvolse, famelici, troppi nostri autori. Niente: Cattafi non si lascia interpretare «alla luce della tradizione del Novecento italiano» (Bruni), non ama disseminare di indizi intertestuali i suoi versi, di sassolini citazionistici: da qui la difficoltà riscontrata nel tirar fuori i nomi, le somiglianze, le genealogie.

4Tanto che spesso gli interpreti più acuti della sua poesia gli hanno accostato pittori piuttosto che poeti: se proprio si vuole leggere in esergo ai suoi versi la presenza di altri autori, allora per riconoscerli occorre superare i confini italiani (fatta eccezione per il Montale di Satura e di Diario del 71 e del 72) e avventurarsi nella terra di Beckett, di Kafka. Questo vuol dire che occorre ancora operare dei carotaggi ermeneutici nella cultura di Cattafi al fine di comprendere meglio come abbia preso forma il suo immaginario poetico: Bruni addita la presenza di diversi riferimenti all’alchimia e alla magia, ad esempio; ma c’è di più, un’altra fonte dei suoi versi è stata la letteratura poliziesca e noir. C’è da saltare sulla sedia: la tanto vituperata letteratura di serie B, guardata con piglio snobistico dai critici più superciliosi, ha rappresentato per il poeta messinese un serbatoio inventivo, a cominciare da Ian Fleming (il creatore di 007); ma anche la cinematografia noir ha agito su Cattafi, suggerendogli soluzioni tecniche, espedienti compositivi: basterebbe questo aspetto per renderlo una sorta di marziano, di alieno precipitato sulla terra da chissà quale pianeta. Cattafi dunque, rispetto ai suoi coetanei e conterranei, svirgola, procedendo sul suo sentiero sconnesso, aspro, ideologicamente poco attraente perché orientato non tanto verso le magnifiche sorti e progressive (Cattafi è il vero erede di Leopardi), quanto verso un dirupo tremendo e rovinoso.

La sua poesia, col tempo sempre più scabra e tagliente, una poesia che coincide con la biologia del poeta, col groviglio e l’ingranaggio dei congegni vitali e al riparo da possibili rigurgiti di facile ottimismo, manifesta una “tensione apocalittica” che è carica di angoscia esistenziale e che conduce a una sorta di catabasi, a una discesa nell’inferno: «Un mondo in rovina / fatto di sfarinati / di liofilizzati animali / vegetominerali / emergeranno forti come prima / on colori con forme dall’ammollo / del nuovo diluvio universale / reintegrati nei propri uffici?». I segni apocalittici a un certo punto si muovono verso un’idea di inversione, unica via che potrà riportarci a un mondo più puro.

E qui si sentono delle consonanze col grande Guido Morselli (nel suo diario prefigura un futuro prossimo venturo in cui l’uomo sarà soppiantato dalle lucertole) e con Primo Levi, quello dell’angelica farfalla dantesca (che può compiere un’inversione metamorfica) e degli scarabei che sopravvivranno anche ai disastri atomici. Altro che speranza, altro che sole dell’avvenire: per Cattafi, sensibile alla tentazione metafisica dell’involuzione, si dovrà tornare indietro «a colpi regressi di moviola».

3Poeta pulviscolare, democriteo, egli si è sempre sentito, su questa terra, alla stregua di «inquieto sbirciante sconosciuto», come si legge nella poesia Atomi della raccolta L’allodola ottobrina; sconosciuto che, «alla finestra», osserva gli «oggetti opachi», le «cose nate da cose». Oggetti e cose che, una volta attraversate dall’occhio penetrante e raggelante del poeta, quasi si pietrificano, si cristallizzano, sino a diventare astratte geometrie, «linee aggrovigliate» (un altro nome da invocare, quello di Mondrian). Lo spettacolo del mondo, variegato e multicolore nei primi versi di Cattafi, si farà infatti negli anni sempre più diafano e algido, assumendo alla fine la forma di un disegno che «si svolge / oscuro e compatto s’allarga sulla pagina / macchia che sia o nuovo mondo / c’insegue c’incalza alzando un’onda nera / tenta d’impegolarci / fuggire verso i margini / finché fortuna dura / oppure / immobili lasciarci conglobare / comunque è fatto come la lava e il mare / di elementi che esistono in natura» (Disegno, in L’allodola ottobrina).

La poesia di Cattafi prova a fronteggiare quest’onda nera, a suo modo la argina, ma nello stesso tempo ne viene sommersa. Nei suoi versi la catastrofe, quella dei facili ottimismi, è come se dovesse compiersi da un momento all’altro: c’è l’attesa, buzzatiana verrebbe da dire, che però non snerva o avvilisce, ma rende più aguzza la capacità di osservare, e più appuntita e tagliente la parola poetica. Fino a trasformarla in arma di tortura, in una sorta di pratica autopunitiva.

Ecco in cosa consiste quella che Giovanni Raboni ha definito la «funzione primaria e indisponibile» della poesia di Cattafi: il saper estrarre, da quella «onda nera», la radice quadrata dell’esistenza. Ed è stato proprio Raboni a indicare tra i primi il destino dei testi del poeta messinese: quello di acquistare, col passare degli anni, «in freschezza o addirittura in novità», di contro allo sgretolamento delle opere di non pochi autori suoi coetanei, anche dei più celebrati (pensiamo a Quasimodo, per esempio), sino a diventare enigmatiche e quasi impenetrabili, con l’inevitabile «defluire dei fatti o delle emozioni collettive che ne alimentavano il senso».

1A fronte di tutto ciò, va però detto che Bartolo Cattafi non è mai riuscito a far pienamente parte dell’olimpo dei grandi poeti del secolo scorso: meritevole di stare accanto a Montale, Penna, Caproni, Bertolucci, l’autore di Mosche del meriggio è stato spesso ricacciato nel limbo della dimenticanza. Certo, non gli sono mancate le attestazioni di valore della sua poesia, firmate da Carlo Bo, Arnaldo Bocelli, Luigi Baldacci e del già citato Giovanni Raboni, per tacere di altri. E però la sua presenza nelle antologie è stata discontinua: inserito ad esempio nella raccolta garzantiana Poesia italiana del Novecento, Cattafi non è mai entrato nei florilegi curati da Edoardo Sanguineti e da Pier Vincenzo Mengaldo, come pure è assente nell’antologia della poesia italiana diretta da Cesare Segre e Carlo Ossola e pubblicata da Einaudi. Anche se poi Cattafi verrà inserito nel Meridiano Mondadori del 1996 curato da Cucchi e Giovanardi e dedicato ai poeti italiani della seconda metà del Novecento.

Va poi ricordato che a Palermo, nel 2000, hanno visto la luce, per i tipi della casa editrice Novecento, le sue ultime due raccolte poetiche, oramai introvabili, ottimamente prefate da Luigi Baldacci, mentre un anno dopo è stata riproposta, negli Oscar Mondadori, la silloge Poesie 1943-1979, pubblicata per la prima volta nel 1990 e introdotta da Raboni, con Baldacci di certo uno dei migliori esegeti della produzione cattafiana. Sull’onda lunga di questo sospirato ma sempre arduo ritorno, vanno segnalate la pubblicazione del saggio critico di Paolo Maccari, dal titolo Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi (Società editrice fiorentina, 2003), e l’uscita di un grappolo di inediti, editi da San Marco dei Giustiniani e introdotti da Silvio Ramat. Per arrivare al volume in questione, che come si è detto ricapitola tutto quanto il suo lungo e stupefacente percorso poetico.

6Ma forse Cattafi è destinato a far parte di un drappello di eccentrici, irregolari, marginali a torto, anticanonici (tra cui spiccano senz’altro autori come Angelo Fiore, Stefano D’Arrigo, Beniamino Joppolo, Carmelo Samonà, Giuseppe Mazzaglia, Edoardo Cacciatore e Guido Ballo), non trovando ancora «in questo gran Teatro del mondo luogo pari al suo merto», per dirla col Daniello Bartoli di L’uomo di lettere difeso ed emendato, «e nicchia degna della sua statua».

Accanto alla straordinaria levatura del poeta va allineata però quella del prosatore, la cui attività non fu ampia e articolata, pur distinguendosi «per la qualità dei testi e la profondità di alcune annotazioni» come ha notato Paolo Maccari nell’introduzione a Le isole lontane. Scritti di Bartolo Cattafi (a cura di Nino Sottile Zumbo GBM edizioni, 2008). Basti prendere in considerazione le pagine che danno il titolo a questa raccolta che forse in pochi hanno intercettato, scritte da Cattafi avendo visitato le isolette siciliane (tra cui le Eolie e le Egadi) a bordo di alcune motonavi. Pagine corredate da alcune foto molto belle, spesso scattate dallo stesso autore, il quale in una di queste si mostra col berretto da marinaio, le lunghe basette bianche e i baffi, la pipa messa di traverso, l’impermeabile che lo avvolge e poi lo sguardo: come a puntare qualcosa che solo lui riesce a scorgere.

5Negli scatti che lo ritraggono in viaggio, a bordo di un’imbarcazione, Bartolo Cattafi ha tutta l’aria di essere un nostromo: col mare che lo circonda, e il tipico paesaggio portuale a fare da quinta teatrale, sembra collocato all’interno del suo ambiente più familiare. Nessuno oserebbe pensare che non si tratta di un “navigato” lupo di mare, ma di un poeta. «Nei sette mari molte sono le isole lontane: lontane dalla costa dei continenti, dalle coste di isole grandi come continenti, dalle strisce di terra che civiltà, progresso, mezzi di comunicazione percorrono vivificandole. Ma vi è anche un altro tipo di isole lontane, la cui lontananza non è misurabile con l’apertura del compasso, coi segnetti allineati sul legno del doppio decimetro. Una lontananza di natura non tanto geografica quanto astratta, psicologica. Un isolamento non dovuto soltanto al mare, ma alla solitudine, all’abbandono, all’oblìo in cui codeste isole vengono lasciate e in cui a volte gli isolani stessi si stendono e si dondolano come in un’amaca [...]».

Come altri prima di lui (certi attenti viaggiatori ad esempio), Cattafi non fa a meno di legare l’ontologia dei luoghi siciliani alla loro geografia, dando forma a una cartografia dell’anima, a una vera e propria mappa metafisica, a una sorprendente geologia spirituale: «L’orologio, il calendario, il metro mentale validi in gran parte del mondo, in queste isole lontane non hanno significato. Sono assurdi, inutili strumenti. Gli isolani regolano la loro vita sulla base della rosa dei venti, sul giro delle stagioni, sulle lunazioni, sulle migrazione dei pesci e degli uccelli [...]. Sono ancora oggi molto simili ai progenitori siculi, greci, romani, fenici, arabi; fatalmente condotti dalla loro storia a lasciare arrugginire bellicosità e intraprendenza, ad accogliere una semplice avventura quotidiana».

7Una semplice avventura quotidiana, dunque: quella di cui andava a caccia lo stesso Cattafi ogni qual volta si metteva in viaggio; e proprio a questo proposito, Paolo Maccari opportunamente ricorda l’autoritratto in terza persona inserito dal poeta messinese nella sua seconda raccolta, Partenza da Greenwich: «Bartolo Cattafi è nato il 6 luglio 1922 a Barcellona (Messina) e ivi tuttora risiede. Si reca all’estero ogni volta che può e come può: certi suoi viaggi in Europa e in Africa e relative situazioni avventurose sono già oggetto di favola tra gli amici. Tra i Paesi visitati predilige Irlanda, Inghilterra e Scozia, Spagna; ma vorrebbe conoscere meglio l’Africa; e poi recarsi in Asia, Oceania, America. Possiede una penna Shaeffer e una macchina Smith-Corona, modello Skyter, che spera di poter adoperare bene, un giorno o l’altro, se qualche giornale gliela farà portare in giro per il mondo».

Messa dunque a servizio della sua passione per il viaggio, la penna Shaeffer dà subito i suoi frutti: anche se il periplo compiuto da Cattafi tocca isole in realtà vicine, come Salina, definita come un «trapezio di colore rosa, grigio e rosso», Filicudi, col suo aspetto di «cetaceo azzurrino posato sulla piatta superficie del mare», Lampedusa, che si stende «bassa, brulla, biancheggiante come un osso smisurato». Sono «tutte isole sconosciute», scrive l’autore messinese, quando ancora il turismo non aveva travolto quei piccoli paradisi terrestri, o meglio quando il fenomeno stava cominciando a prendere timidamente forma («solo un particolare tipo di turismo comincia appena a sfiorarne qualcuna» si legge infatti): «La loro bellezza è talmente viva e inconsueta che non si riesce a capire come mai esse rimangano a tutt’oggi escluse dal policromo e risaputo campionario turistico italiano. I loro abitanti non vanno in giro seminudi, con collane di fiori penzolanti sulla pancia, come nelle felici Hawaii».

Nonostante tutto, chiosa Cattafi, sono «ricchi di fascino» gli isolani. Sono isole, «queste e quelle a tot miglia marine dalla costa, sul piano fisico. Sul piano spirituale, misurazione assai più complicata. Sono isole lontane, comunque. E forse proprio per questo così avventurose, così inquietanti». Ora, va detto che in queste pagine Cattafi opera quasi sempre la doppia misurazione: una prima, fatta con l’acribia del cartografo; l’altra, facilitata dalla chiaroveggenza del poeta. E anche quando la coazione a viaggiare lo porta a toccare altre sponde, questa volta realmente lontane, come quelle inglesi, è sempre la “distanza metafisica” ad affascinarlo più che la striminzita misura geografica.

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Cattafi in un disegno di Luca Crippa nella prima edizione della silloge, Nel centro della mano

Col titolo Gioia di sbarcare a Londra in un’ora non di punta le impressioni di viaggio di Cattafi escono su “L’Ora” tra l’agosto del 1952 e il gennaio dell’anno successivo. Sono due i percorsi seguiti dal poeta: uno orizzontale, che gli consente di ammirare ad esempio l’ordine meticoloso e armonioso della campagna inglese, la sua gentilezza, il suo aspetto inquietante quando incombe il crepuscolo invernale. Ma Cattafi compie, proprio all’inizio, soprattutto un “viaggio verticale” nel sottoterra di Londra, invocando come nume tutelare il grande T. S. Eliot, «poeta americano di nascita, inglese d’adozione», inabissandosi in un pozzo semibuio pieno di brusii e del tonfo dei passi sulle lastre metalliche della scala dell’albergo della gioventù dove passerà alcune notti. «Avremmo infine visto verso il fondo dei rossi bagliori infernali?» si chiede a un certo punto l’autore: «Le zaffate d’aria fresca sarebbero ben presto diventate torride?».

Nessuna anticamera infernale, alla fine, ma solo un ricovero antiaereo che aveva funzionato durante l’ultima guerra. Rifugio zeppo di gallerie, sostenute da massicci archi d’acciaio che conferiscono all’ambiente «un’atmosfera vagamente sottomarina, da enorme nave subacquea». Anche laddove il mare non c’è, il “nostromo” Cattafi può scorgerlo con gli occhi del suo immaginario. E dismesse le vesti del viaggiatore, torna a indossare subito quelle del poeta.

Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020

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Salvatore Ferlita, insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli studi di Enna “Kore”. Critico letterario e saggista, è responsabile di diverse collane editoriali e da anni collabora a “la Repubblica” (edizione siciliana). Tra le pubblicazioni più recenti: Il libro è una strana trottola. Genesi e trasformazione della parola letteraria (il Palindromo 2018), Palermo di carta plus. Guida letteraria della città (il Palindromo 2019). Sua è la curatela di Pinocchio. La storia di un burattino, che ripropone la prima edizione oscura del capolavoro di Carlo Collodi (il Palindromo 2019).

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