di Iain Chambers
Corpi gettati in mare, lasciati a morire. Questa volta non per colpa di capitani delle navi negriere senza scrupoli, ma della legislazione europea. Spostarci tra la tratta degli schiavi nell’Atlantico di ieri e le persone espulse e gettate in mare nell’ordine europeo di oggi ci incoraggia certamente a interrompere e a sgualcire il nostro spaziotempo con vicinanze insospettate, indesiderate. Le navi schiaviste nell’Atlantico della prima età moderna e le piccole imbarcazioni che attraversano il Mediterraneo di oggi sono rese inquietantemente vicine. In entrambi i casi, la vita umana è ridotta a un carico deperibile, a un oggetto di guadagno economico e di oggettività giuridica. Come dice Judith Butler, la vita deve essere considerata una vita vivibile, in contrapposizione a un’esistenza denudata e anonima, per poter essere considerata parte della comunità umana ed essere pianta [1]. Altrimenti, viene consegnata alle profondità oscure del mare, relegata alla morte sociale e al nulla. Il migrante diventa uno zombie, un morto vivente ridotto al silenzio delle statistiche e all’annientamento legale. Non gli è permesso di essere. Alterato, come una differenza che non fa differenza, cade fuori dal riconoscimento e dal regime di rappresentazione.
Il Mediterraneo nero contemporaneo suggerisce questo luogo di non-esistenza, il luogo del non-ancora-umano che è sotto la legge che lo espelle e lo nega per confermare e rafforzare il senso di umanità che dipende da questa distinzione e rifiuto. Segnala e sostiene un apparato razziale. Come l’indistinzione del mare, il Mediterraneo, che ospita l’indefinibile natura della negritudine, pone una questione ontologica che fissa i limiti per l’esercizio della giurisdizione del pensiero praticato sulla sua sponda settentrionale. Come hanno annunciato Aimée Césaire e Frantz Fanon più di mezzo secolo fa, esso segna i confini violenti dell’umanesimo europeo, i limiti della ragione critica, il suo ‘privilegio razziale’ e i miti bianchi delle sue pretese sul mondo. La sua violenza è in definitiva ontologica[2]. Contestare questo ‘ontocidio’ non significa quindi limitarsi all’antirazzismo e alla riorganizzazione dell’umanesimo per accomodare il nero, ma nutre la prospettiva ben più radicale di dissipare la formazione storica e politica in cui l’antirazzismo e l’umanesimo cercano le loro premesse e procedure. Riconoscere questa violenza che l’umanesimo non può assorbire significa rifiutare le catene di una razionalità radicata e abbandonare l’Europa. Sulla scia di Fanon, torniamo al mare per riconoscere meglio altre sponde e correnti nel riassemblare la costituzione dell’‘umano’.
Partendo dalla critica serrata di David Marriott al tema del ‘divenire nero del mondo’ di Achille Mbembe, possiamo incominciare a pensare alla questione di un Mediterraneo nero che non evochi semplicemente la trasposizione di un paradigma geo-storico da un mare (Atlantico) a un altro (Mediterraneo) [3]. L’aggettivo ‘nero’ mette in gioco non solo la storia intrecciata di razza e modernità, ma anche una serie di questioni che sottolineano la necessità di riorientare di colpo i presupposti critici che costituiscono il ‘Mediterraneo nero’ come oggetto e modalità di pensiero. O, più direttamente, che cos’è questo ‘nero’ nel Mediterraneo Nero?
In una sintassi critica molto articolata, Marriott sfoglia la proposta di Mbembe del ‘diventare nero del mondo’ [4]. Entrambi gli scrittori orbitano intorno al pianeta di Frantz Fanon. Ma mentre Mbembe dispiega la figura fanoniana del dannato per l’emergente subalterno di un mondo da rifare in un umanesimo universale (contrapposto a quello europeo), Marriott trae dal linguaggio interrogativo e psicoanalitico del critico proveniente dai Caraibi proprio l’impossibilità di stabilire tale orientamento politico e chiarezza ontologica. Per dirla nel modo più crudo, il nero inventato nell’esercizio del potere bianco ed europeo, che si trova ad occupare il peso di quella posizione e che quindi non è una persona ma un oggetto perpetuo dell’ordine coloniale, è preso in una danza infinita di riconoscimento/misconoscimento, che si svolge a spirale in modo infinito e inconcludente. Questo sfida tutti i tentativi di preclusione e di sicurezza epistemologica. Il nero pone una domanda perpetua al linguaggio, alle istituzioni e ai poteri che presumono di definirlo. Insistere sull’apertura dell’analisi, su ciò che non può essere rappresentato ma che, nel suo essere negato, viene continuamente registrato, significa trarre dalle profondità storiche una linea di fuga dal ragionamento ontologico che sostiene lo status incommensurabile dell’essere nero. Con questo pessimismo ontologico, il nero esiste solo come tropo negativo, un oggetto tra gli oggetti, per dirla con Fanon, strumentale a confermare e sostenere l’ordine esistente. È salutato e interpellato proprio come ciò che l’umano non è.
Una ‘nerezza’ identificata con gli spazi coloniali e la diaspora africana non comporta semplicemente il riconoscimento di un’assenza o di una mancanza che richiederebbe la risistemazione del progetto umano. Parla di un disturbo più profondo che non può essere facilmente inserito nella logica del pensiero esistente e nella presunta neutralità del suo linguaggio, dei protocolli accademici e delle procedure istituzionali. Più che un eccesso che emerge da ciò che prima era escluso e che ora chiede di essere sistemato, c’è la proposta dirompente di affrontare l‘architettura politica-filosofica che ha prodotto la negazione che minaccia di rovinarla. Questo è un crudo riassunto del sottile dibattito che incontriamo nell’intreccio contrastante tra il lavoro di Achille Mbembe e quello di David Marriott e, alle loro spalle, le proposte politiche non assorbite, dissidenti e forse incommensurabili (Marriott) sostenute psicoanaliticamente da Frantz Fanon [5]. Il nero qui evocato, sia come personaggio storico che come figura di pensiero, non è semplicemente il risultato di un’economia politica in cui la schiavitù era centrale, né delle paure fantasmagoriche dell’Occidente bianco [6]. Sotto queste storie, oggi alla ricerca di soluzioni teleologiche (antirazzismo, post-razzismo, post-capitalismo, umanesimo planetario) c’è la sfida costante a una modalità di ragionamento, cioè un’epistemologia, una teoria della conoscenza e i suoi protocolli filosofici, che è emersa proprio da una comprensione ontologica dell’essere che ha inventato, identificato e successivamente espulso e negato il corpo nero e la sua possibilità di essere persona.
Questa è la sfida del divenire nero del Mediterraneo, dove la crudele testimonianza dei moderni migranti del mondo non bianco, in un arco che si estende dall’Africa all’Asia, registra non solo i limiti di un ordine geopolitico e dei suoi poteri, ma, in modo più significativo, i confini brutali della cultura esistente che appropria e spiega, sia in maniera disciplinare che filosofica, politica ed etica. Inoltre, lo stesso lessico che ho appena utilizzato fa chiaramente parte del problema. Altrove ho sostenuto l’importanza di abbandonare la ricerca di certezze concettuali terra-centriche per la fluida indeterminatezza del mare [7]. Questo ci permette di sostenere l’indeterminatezza di queste domande senza cercare la sicurezza di coste immediate: un inizio di ragionamento che riconosce e sostiene la limitata portata della razionalità senza la pretesa di una rotta, di una carta o di un porto di arrivo garantito. Un viaggio che ci costringerebbe necessariamente ad ascoltare e ricevere un Mediterraneo nero che richiede, come insisteva Fanon, l’abbandono dell’Europa e del suo umanesimo, mentre il mare si sottrae alle pretese esistenti sul mondo.
Se questo tocca l’ovvio punto che il Mediterraneo non è mai stato semplicemente europeo e che le sue sponde asiatiche e africane ci indirizzano storicamente e culturalmente in altre direzioni, ci trascina anche giù negli archivi acquatici dove i nostri orientamenti diventano del tutto meno certi. In altre parole, scombinare le certezze geopolitiche può portare a paesaggi marini meno sicuri di quelli che inizialmente promuovevano l’estensione dell’Occidente attraverso il colonialismo planetario, lo stesso mezzo marino che oggi trasporta coloro che disturbano la metropoli che li ha colonizzati. Ma più che una fenomenologia storica che registra l’aumento della presenza di persone nere (estesa a tutte le persone non bianche e di colore) nel Mediterraneo settentrionale, c’è un impatto più profondo sui linguaggi critici che pretendono di spiegare, oggettivare e inquadrare l’individuo nero proprio nel momento in cui l’oggetto rifiuta di rimanere tale. Non si tratta di una semplice osservazione storica o culturale. È una constatazione filosofica ed epistemologica. Non si tratta solo di affermare il potenziale di un Mediterraneo nero come contro-spazio di storie alternative del presente.
Che cos’è il migrante nero? L’aggettivo, sembra in parte suggerire Mbembe, è un sinonimo del subalterno e del mondo non bianco. Inoltre, anche in Fanon (e Marriott) c’è un tendenziale slittamento tra l’africano nero (nella diaspora, nell’Africa subsahariana) e altri corpi subalterni (nordafricani, asiatici occidentali, arabi). Le considerazioni di Cedric Robinson sulla formazione del capitalismo razziale nel Mediterraneo riecheggiano potentemente tali considerazioni nella sua cruciale riapertura dell’archivio mediterraneo alla storia del capitalismo razziale [8]. Quindi, il diventare nero del mondo oggi riguarda l’Africa che attraversa il Mediterraneo e si stabilisce in Europa, o ci propone degli orizzonti più ampi? L’aggettivo si sta trasmutando in un corpo sostanziale (di pensiero, di vita, di essere)?
Se non esiste una risposta unica o definitiva, siamo comunque spinti ad andare oltre un’osservazione meramente sociologica o storica. Ciò significa registrare, ascoltare e riconoscere ciò che non possiamo rappresentare. Il linguaggio, anche il più potente, ha i suoi limiti. Non è mai trasparente né sempre traducibile. Considerare questo vuoto e introdurre un dibattito maturato nell’Atlantico nero e negli studi critici sulla razza ci incoraggia a sganciarci da una particolare formazione politica e filosofica che sembra ignorare l’emergere di queste domande. Se è qui che la voce bianca dell’autorità critica necessariamente vacilla per incominciare ad imparare ad abitare le rovine del suo linguaggio, ci lascia un vuoto, una fessura, che non dovrebbe (e non può) essere chiusa. Trattare questa cesura in modo affermativo, anziché limitarsi a difendere l’operazione limitata dell’antirazzismo nel nome del nostro umanesimo, rintraccia un linguaggio critico che sfugge al ragionamento unilaterale. Più che la presa d’atto di un evidente eurocentrismo, ciò che incontriamo qui è la potenziale rottura dell’ordine politico e filosofico attuale. Se la politica, dietro la facciata di un placido multiculturalismo, si ritira a difesa della razza (bianca), la filosofia (penso ai casi italiani di Agamben, Cacciari ed Esposito) tace prepotentemente, rintanandosi sempre più nella teologia concettuale delle proprie ‘origini’. Entrambe sono coinvolte nel garantire i miti autogestiti della purezza. Se la distinzione è più evidentemente razziale, è anche epistemologica. Cercando di esternare ed espellere l’intrusione del nero o rispondere alla creolizzazione, il pensiero occidentale continua a costituirsi attorno il rifiuto e l’espulsione di ciò che è paradossalmente intrinseco al suo essere. Si rifiuta di accogliere il corpo razzializzato che ha prodotto: il ‘nero’ è stato inventato in Europa, non in Africa. Qui, come direbbe Marriott, la ragione opera una ‘giurisdizione razziale’[9].
Nel frattempo, ciò che sta accadendo in mare e che viene portato a riva è una perturbazione destinata a scuotere la nave dei folli che passa per la politica istituzionale contemporanea. Imparare a nuotare in queste acque, che come tutti i mari possono essere agitate, opache e minacciose, costituisce un altro spaziotempo geo-filosofico e un’altra valutazione della modernità. Può anche essere non autorizzato e non riconosciuto, ma certamente esiste, resiste e persisterà. Incrociare la fluidità degli archivi marini con il divenire nero che non potrà mai arrivare nell’ordine attuale delle cose è proprio il punto in cui il Mediterraneo Nero provoca sia un naufragio teorico sia l’annuncio di uno spazio critico emergente e diverso. Proprio perché costringe a rompere con la ragione rappresentativa che garantisce le metodologie, le discipline e le loro storie, promuove una bussola critica che ci permette di iniziare a parlare dello specchio frantumato del Mediterraneo come ego (mare nostrum) e oggetto (geopolitico, storico, antropologico, sociologico). Più che un eccesso irriducibile o un limite del linguaggio dove le parole tacciono, il Mediterraneo nero propone un archivio che tracima l’ordine del presente senza la consolazione di rivendicare una sponda o di essere ‘sbiancato dall’ontologia o dalla rappresentazione’[10].
Così, Black Athena, come proposto nella ricerca speculativa e probabilmente imprecisa di Martin Bernal o come cantato dal gruppo dub napoletano Almamegretta, non riguarda forse tanto il corretto recupero di storie dimenticate, quanto piuttosto un inquietante ingresso che tocca il preciso potenziale di risposta a riconfigurazioni non autorizzate di un Mediterraneo ancora da venire.
Infine, rimanendo alla musica come elemento centrale della moderna esperienza nera del mondo, è forse qui che si riuniscono temporaneamente quei ‘frammenti messi insieme da un altro me’ fanoniani[11]. Esterna al tempo istituzionale stabilito, eppure nel tempo, estranea, eppure contemporaneamente, nel ritmo, la musica nera sostiene storicamente un altro orizzonte. Come sicuramente sosterrebbe David Marriott, propone un modo di abitare e scandagliare l’abisso (il ‘pozzo senza fondo’ di Bob Marley) proprio dove l’essere nero non è riconosciuto. Ridotti a uno stile e a un genere, i corpi neri entrano in un mondo che li vuole solo come oggetti. La musica, come rifiuto del significato, acquista qui tutta la sua potenza (ontologica?).
Forse l’urlo estemporaneo di James Brown o lo scivolamento vocale di Beyoncé incrinano l’ermeneutica umanistica, non proponendo un’alternativa ma danzando insistentemente sull’orlo, vivendo i limiti che segnalano la rottura ontologica e un’altra costellazione di corpi e figure di pensiero. Nel suo implacabile rigore, David Marriott respinge esplicitamente questa possibilità:
«Il tentativo di scendere sempre più in profondità nell’essere, di trovare l’essenza dell’essere come ritmo, erotismo, logos non violento, slancio vitale, non possiede altro che falsità; così falsa che anche il desiderio di contrapporre al destino il mito, di proclamare un Dioniso oscuro, non fa che dimostrare quanto il nero sia lontano dalle cose in sé, dalla legge categoriale della comprensione» [12].
Ma è proprio questo il punto. Il nero sfida la gabbia umanista e non è lì per rispecchiare il mio linguaggio e le mie esigenze. In questa ineludibile resa dei conti con il continuo sbiancamento del mondo esclusivamente all’interno del linguaggio che tale mondo autorizza, non c’è scampo e la nerezza non è ‘ancora in essere’ [13]. Rimane quindi una domanda, un interrogativo, un’interruzione. A questo punto, e per tornare al Mar Mediterraneo, possiamo sentire e percepire qualcosa di molto più portentoso della registrazione economica e sociale della migrazione, del razzismo e dell’etnonazionalismo. Nel diventare nero, il Mediterraneo mette in atto un disfacimento radicale delle catene di significato esistenti. La narrazione nazionale è esposta a ciò che cerca strenuamente di escludere. L’Occidente, come misura del mondo, va disfatto. Le radici del pensiero, dell’identità e dell’appartenenza sono spossessate e costrette a migrare in spazi non scelti da loro. La ‘casa’ europea, i suoi archivi e le sue storie, ora esposti ai venti esterni, iniziano a tremare sotto le raffiche di ciò che non è ontologicamente in grado di registrare e rispondere.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] Judith Butler, Frames of War: When is Life Grievable, London, Verso, 2016.
[2] Calvin Warren, ‘Onticidio. Afro-pessimismo, Gay Nigger #1 e violenza in eccesso’, GLQ, 23, 3, 2017.
[3] David Marriott, ‘The becoming-black of the world? On Achille Mbembe’s Critique of Black Reason‘, Radical Philosophy, 2.02, June 2018.
[4] Achille Mbembe, Critique of Black Reason, trad. Laurent Dubois. Durham, Duke University Press, 2017.
[5] David Marriott, ‘The becoming-black of the world? On Achille Mbembe’s Critique of Black Reason‘, Radical Philosophy, 2.02, June 2018: 71.
[6] Calvin Warren, op. cit.
[7] Iain Chambers, ‘It’s about time. Some notes on quantum history’, Postcolonial Studies, 26:4, 2023.
[8] Cedric Robinson, Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera, trad. Emanuele Giammarco, Roma, Edizioni Alegre, 2023.
[9] David Marriott, ‘The becoming-black of the world? On Achille Mbembe’s Critique of Black Reason‘, Radical Philosophy, 2.02, June 2018: 62
[10] David Marriott, Of Effacement: Blackness and Non-Being, Stanford: Stanford University Press, 2024: 9.
[11] Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, trad. Silvia Chieti, Pisa, Edizione ETS, 2015.
[12] David Marriott, Of Effacement: Blackness and Non-Being, Stanford: Stanford University Press, 2024: 25-6.
[13] Ibidem: 28.
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Iain Chambers, ha costantemente sviluppato un lavoro interdisciplinare e interculturale nel campo della cultura contemporanea presso l’Università di Napoli, l’Orientale. Ha portato avanti questa linea di ricerca in una serie di analisi critiche sulla formazione del Mediterraneo moderno tramite pubblicazioni quali Le molte voci del Mediterraneo (2007), Mediterraneo Blues (2020) e con Marta Cariello, La questione mediterranea (2019). Nel 2022 è stato membro del collettivo «Jimmie Durham & A Stick in the Forest by the Side of the Road» e ha partecipato a Documenta fifteen. Scrive regolarmente per il quotidiano il Manifesto.
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