CIP
di Antonella Tarpino
Riparare il paesaggio fragile, ai margini, significa in via prelimare ri-raccontarlo, quel paesaggio, con parametri accorti non più legati al linguaggio obsoleto delle “geografie negative” proprio dello Stato nazione (margini, centro, limiti, confini..) Dispiegando, al contrario, la potenza che il linguaggio ha di rinominare ogni volta le cose in tal modo da prefigurare, per successivi scarti, nuovi orizzonti. Ecco allora che spetta anzitutto alle parole, corrette non meno dalla memoria profonda dell’abitare (ciò che io definisco Ecomemoria) il compito di ritrovarne il senso: oltre lo sguardo, questo sì opaco (e troppo corto) del presente, con il suo lessico infranto, per poterlo riguardare, quel paesaggio e insieme, insegna Vito Teti, averne riguardo.
Ecco perché un vocabolario (Vocabolario delle aree interne. 100 parole per l’uguaglianza dei territori, a cura di Nicholas Tomeo. Prefazione di Rossano Pazzagli. Postfazione di Marco Giovagnoli, Radici Edizioni, 2024) che quello sguardo rovesci è quanto mai opportuno. Con una sola riserva che poi è la stessa fatta propria da Rossano Pazzagli nella Prefazione: la denominazione “aree interne”, che sappiamo essere nata in occasione della commissione ministeriale Snai, risulta forse un po’ limitativa in questo caso. Ed è bene precisare come fa che «tale definizione indica piuttosto una condizione esistenziale dei luoghi: quella di tutti i territori che, indipendentemente dalla loro ubicazione, sono stati trascurati, abbandonati, feriti» nel corso del processo di sviluppo novecentesco. E da cui è sorto un disegno si potrebbe dire deformato del Paese stretto tra i “troppo pieni” delle città e delle coste e i “troppo vuoti” delle aree ai margini (la montagna povera delle Alpi, gli Appennini, le aree interne in senso lato).
Il Vocabolario allora si presta a rielaborare un linguaggio nuovo con l’obiettivo specifico di cambiare modello per altro già pesantemente in crisi: che spezzi le devastazioni, anche a livello ambientale, ecologico, della crescita infinita, recuperando il senso virtuoso del Limite, in quella coevoluzione equilibrata tra insediamento umano e ambiente circostante (secondo le categorie proprie di Alberto Magnaghi e della scuola territorialista per altro più volte richiamata nelle voci del Vocabolario) nella consapevolezza che i problemi delle aree interne, le disuguaglianze, economiche ma anche quelli attinenti ai diritti di cittadinanza (i “diritti di paesanza” di cui parla Nicholas Tomeo) non possono essere risolti impiegando lo stesso «modello che le ha marginalizzate» (ancora Pazzagli).
Ecco perché è così importante ripartire dalle parole che ci aiutino a osservare oltre i vuoti e le rovine di quelle aree fragili, dimenticate (ricordando con Marc Augé che comunque le rovine sono «racconti ancora in piedi») come la loro stessa fragilità le abbia difese dai corpi contundenti delle macerie che per altro (l’esempio di Torino in cui abito è eclatante) invadono i luoghi del “dentro”, le aree “forti”, le città industriali e la rotta padana con la serie ininterrotta di capannoni abbandonati o dismessi. Luoghi fragili quelli di cui parliamo ma ricchi di risorse materiali e immateriali, un patrimonio di paesaggi, valori culturali e virtù civiche che oggi ci fanno riconsiderare le relazioni tra centro e periferia secondo i presupposti della stessa rubrica (Il centro in periferia) dei Dialoghi ideata da Pietro Clemente.
Ripartire dalle parole sì ma quali? – si chiede ancora Nicholas Tomeo, il curatore del volume – perché il Vocabolario non vuole essere una raccolta di parole meramente didascaliche, ma assume i connotati di una sorta di ipertesto critico (così lo definirei io) che faccia cioè propria quella complessità del Paese, per raccontare realtà ‘altre’ rispetto a quelle di uno sviluppo neoliberista che ha messo ai margini i diritti di cittadinanza di milioni di persone e reso periferico oltre il 60% del territorio italiano.
A partire da un concetto chiave del vocabolario territorialista quella di Coscienza di luogo (trattato qui da Roberto Ibba). La coscienza di luogo è quindi definibile come una struttura del sentimento, individuale e collettiva, che le comunità, oltre ai singoli, manifestano nel complesso mobile di valori, appartenenze, identità che legano il corpo umano e sociale allo spazio fisico. Gli elementi costitutivi della coscienza di luogo risultano fondanti anche in relazione ai cosiddetti paesaggi della produzione: nella connessione tra dimensione sociale, evoluzione storica e caratteristiche territoriali. Così da attivare meccanismi di coralità produttiva volti al superamento della mera concezione del mercato e al raggiungimento di un benessere collettivo.
E poi, seguendo il filo del mio soggettivo percorso: Retroinnovazione di N. Tomeo e R. Pazzagli secondo i quali le aree fragili, spopolate, costituiscono in parallelo, spazi che, se osservati con il giusto sguardo, possono elevarsi a luoghi di sperimentazione di nuovi approcci dell’abitare che affondano le radici nel passato. Il termine “retroinnovazione” effettivamente offre una sponda riflessiva al nostro presente apparentemente ubriacato di nuovo, ma in realtà afflitto dalla fine del mito del progresso e della crescita illimitata: e ciò attraverso la riattivazione di saperi agro-ambientali atti a rispondere ai problemi più generali del cambiamento climatico, ma anche per sviluppare nuove economie locali.
Tutto questo in direzione di una Sostenibilità (l’autrice è Annalisa Spalazzi) che implichi uno sguardo al futuro, partendo dal presente. Nella consapevolezza che al proposito varie sono le interpretazioni: la si può valutare globalmente, in termini di riduzione dell’impatto ecologico, o localmente, focalizzandosi sulla giustizia sociale e spaziale. Attuando una lentezza dello sguardo che ci renda consapevoli delle trasformazioni in essere e allungando, insieme, il tempo e l’intensità dell’ascolto. Così in Tempo (autore Paolo Piacentini) ancora la lentezza ci predispone ad accettare la sfida della complessità e del limite dando spazio alla costruzione di una società della cura.
Naturalmente potrei andare avanti citando altri lemmi dei 100 proposti, spazio permettendo, ma credo sia utile ritagliarsi, un proprio percorso dentro questo ricco repertorio di concetti e immagini capaci di rivolgere uno sguardo davvero innovativo sui nostri paesaggi, consumati al loro interno dai troppo vuoti o dai troppo pieni (periodici) delle coste o delle montagne turistiche occupate da impianti sciistici inquinanti e invasivi destinati, nel cambiamento climatico, a diventare inerti macerie. Quando non i luoghi si sono spesso ridotti a pure aree di attraversamento: di “flussi” economici nel gioco perverso delle dinamiche della globalizzazione. Così che le aree ai margini, e anche quelle interne, si ritrovino – nella crisi di sistema in atto – al Centro.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Antonella Tarpino, editor e saggista ha pubblicato: Sentimenti del passato, La Nuova Italia 1997; Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Einaudi 2008; Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi 2012; Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi 2016; Memoria imperfetta. La comunità Olivetti e il mondo nuovo, Einaudi 2020; Il libro della memoria, Il Saggiatore 2022. È vicepresidente della Fondazione Nuto Revelli e fa parte della Rete dei piccoli paesi.
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