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Un nuovo protagonismo del Mediterraneo?

unnameddi Antonio La Spina 

L’area del Mediterraneo – intesa con riferimento sia al mare sia alle zone dei tre continenti che si affacciano su di esso – nei millenni si è indubbiamente caratterizzata come luogo di scambi, incontri, dialoghi (appunto), contaminazioni, condivisioni tra popoli, religioni, culture differenti. Differenze che si sarebbero riconosciute, confrontate, talora anche aspramente scontrate, ma infine avrebbero il più delle volte convissuto. Non di rado le vestigia di civiltà talora antichissime sono state conservate, nella consapevolezza che qualora ne fosse venuta meno la memoria si sarebbe avuta una perdita intollerabile.

Il Mediterraneo è dunque certamente una macroregione la cui la storia evidenzia come ciascuna delle civiltà che vi ha avuto dimora abbia potuto vivere e svilupparsi alimentandosi non soltanto di sé stessa, ma anche degli apporti e degli arricchimenti vicendevoli riconducibili ad altre civiltà circonvicine. Tutto ciò è accaduto certamente nell’età antica, ma anche durante il Medioevo. Per un verso la diversità è stata una ricchezza, ma per altro verso si sono anche avuti elementi comuni tra più civiltà, che infatti consentono di pensare a quell’area come dotata di qualche essenziale tratto distintivo generale, al di là della dimensione fisica (quindi ulteriore rispetto al clima, o alla vegetazione, o alla dieta) [1].

A un certo punto, però, secondo un certo modo di vedere le cose il baricentro mondiale avrebbe cominciato a spostarsi sempre di più verso il Nord-Europa e poi via via anche verso il Nord-America, comportando una progressiva e apparentemente irreversibile perdita di centralità del Mediterraneo, in conseguenza di primati tecnologici, economici e militari conseguiti lontano da esso, connessi alle scoperte geografiche, ai rapporti commerciali transoceanici, al modo di produzione capitalistico. Ecco allora che il Mediterraneo sarebbe divenuto sempre di più l’emblema di un mondo appartenente al passato, seppure carico di prestigio e di gloria. Un museo di reperti a cielo aperto, magari da rendere per quanto possibile redditizio tramite un’apposita gestione dei flussi turistici (fermo restando che il turismo è ovviamente un settore produttivo cruciale da valorizzare appieno, al contempo governandolo in modo da evitare possibili storture). In definitiva, il presente e il futuro del pianeta verrebbero ormai pensati e decisi prevalentemente altrove.

Rispetto a una fase storica in cui dal punto di vista degli europei intere parti di mondo (come le Americhe, l’Oceania, vaste porzioni di altri continenti) erano del tutto sconosciute, o comunque difficilmente raggiungibili, quando tali “nuovi” territori cominciarono ad acquisire visibilità e importanza nello scenario globale una riconsiderazione dei pesi relativi fu ovviamente necessaria e ineludibile. Gli sviluppi più recenti sono tuttavia andati ben oltre. Starebbero diventando sempre meno salienti non soltanto, da tempo, i Paesi mediterranei, quanto – più di recente – anche le relazioni transatlantiche, quindi l’Europa nel suo complesso rispetto al Nordamerica. Ciò perché, tra l’altro, sarebbe ormai prominente quel che accade intorno all’oceano Pacifico, sullo sfondo delle pur non sempre facili interazioni tra Stati Uniti e Cina. Il Mediterraneo, già assai marginalizzato, sarebbe dunque oggi destinato a un ruolo sempre più residuale: quello di periferia estrema della neo-periferia europea. Ipotizzando tendenze del genere, queste appaiono provviste di qualche riscontro reale? In effetti, è difficile negare che taluni riscontri esistono. Si tratta anche di tendenze inevitabili?

carta-mediterraneo-retail-1Tornando per un momento alle non brevi epoche in cui il Mediterraneo fu dotato di elevatissima centralità, va detto che ciò era dovuto sia a progressi che allora si realizzavano in campi quali la navigazione o l’edilizia, sia prima ancora all’affermazione di popoli provvisti di beni, città, templi, eserciti, ordinamenti. Venivano allora conseguiti certi primati conoscitivi, intellettuali, tecnologici, militari, giuridici, economici, nella teorizzazione e sperimentazione delle forme di governo. Si pensi agli egizi, ai fenici, ai greci che resistono all’impero persiano, alla falange macedone e ad Alessandro Magno, ai romani che espandono il loro dominio fino a parlare di mare nostrum.

Nel basso Medioevo, poi, la moltiplicazione delle transazioni commerciali, la creazione del capitalismo tanto mercantile quanto finanziario, il varo delle prime università, le innovazioni istituzionali nel campo dell’autogoverno ebbero spesso (sebbene non soltanto) luogo in Paesi mediterranei, i quali furono poi pure teatro di molti tra i maggiori episodi dell’Umanesimo e del Rinascimento. Pertanto, quella che nei secoli successivi si sarebbe manifestata come la predetta primazia dell’Europa centro-settentrionale e dell’Inghilterra a ben vedere aveva radici lunghe, saldamente piantate nella mediterraneità. Visto che talora si tende a enfatizzare un’alterità, una presunta contrapposizione, sembra opportuno ricordare anche gli aspetti di somiglianza e continuità. Più in generale, è decisamente inappropriato instaurare una cesura profonda tra “Europa” (sottintendendo il riferimento prevalente a quella centro-settentrionale) e Mediterraneo.

Dopo le grandi esplorazioni e “scoperte”, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Olanda, Francia si proiettarono verso le Americhe o il Pacifico, il che ridimensionò corrispondentemente il ruolo del Mediterraneo. Le cose cambiarono nell’Ottocento, con l’apertura del canale di Suez e la colonizzazione massiccia dell’Africa. Le due guerre mondiali ebbero entrambe epicentro in Europa. Fino ad allora, erano le potenze lì radicate, che possedevano talora una dimensione extraeuropea e finanche globale (come nel caso dell’impero britannico), a sentirsi titolate a dettare le sorti del mondo. I Paesi dell’Europa occidentale si risollevarono dopo il 1945 con il sostegno del Piano Marshall. Le Comunità europee non nacquero con finalità soltanto mercantili. Vi era, tra gli altri, l’obiettivo dichiarato – si pensi ad esempio alla Dichiarazione Schuman – di rendere inevitabile la pace tra gli Stati membri. Anche a seguito di diversi allargamenti, le Comunità europee e oggi l’Unione europea (UE) hanno perseguito e in parte realizzato un’ardua convergenza su un assetto sociale e politico fondato sui diritti di cittadinanza.

Alcuni allargamenti dell’UE verso Sud contribuirono al consolidamento democratico di Spagna, Portogallo, Grecia. Ciò è avvenuto in misura ben maggiore con gli allargamenti verso oriente (sebbene successivamente in qualcuno dei Paesi dell’Europa dell’Est che ne hanno beneficiato si siano avuti governi che hanno rinnegato e lesionato i canoni democratici). Qualcosa di analogo avrebbe potuto accadere anche con le nazioni delle rive Sud ed Est del Mediterraneo, come si tentò di fare seguendo la lungimirante intuizione che ispirò la strategia euromediterranea enunciata nella conferenza di Barcellona del 1995 [2]. Sfortunatamente, dopo il suo avvio ufficiale tale strategia non compì passi avanti significativi. La guerra portata in Iraq, poi, deteriorò gravemente la situazione, nonché i rapporti con molti Paesi dell’area. Le rivoluzioni arabe in Algeria, Egitto, Libia avrebbero potuto fornire importanti opportunità di avvicinamento. Purtroppo, però, l’intervento esterno in Libia ottenne risultati opposti. L’esperienza algerina, che era la più avanzata e attenta ai principi democratici, ha via via perso molto dello slancio iniziale.

Com’è noto, la mancata soluzione della questione palestinese è anch’essa, e non da ora, fonte di tensioni, esacerbate dall’aggressione condotta da Hamas il 7 ottobre 2023 e dall’entità delle reazioni israeliane. È al momento difficile prevedere gli sviluppi dell’abbattimento del regime di Assad in Siria. Anziché un Mediterraneo orientato verso confronti costruttivi, la tutela delle differenze e una ricerca comune della pace e della prosperità, oggi l’area appare caratterizzata da gravi instabilità, minacce alla sicurezza, conflitti esplosivi (di cui spesso sono vittime civili inermi). Il Mediterraneo reale risulta sempre più distante da quell’immagine forse idealizzata di luogo del dialogo, della diversità, della crescita condivisa.

125012900-624298f5-ebf2-4a8c-86f4-1e03e53b622cEsistono vie d’uscita? In linea teorica certamente sì. Occorre però ammettere che, alla luce di quanto si è fatto o non si è fatto finora, è assai difficile che vengano percorse. Anzi, è improbabile che gli attori rilevanti decidano di provare a farlo. Sarebbe necessaria un’inversione a U rispetto ai comportamenti successivi al sostanziale abbandono degli accordi di Barcellona (unitamente a un’analisi approfondita e rigorosa dei motivi del loro mancato decollo). Bisognerebbe lasciarsi alle spalle certi rapporti per lo più strumentali e talora asfittici tra i Paesi mediterranei, dettati nella migliore delle ipotesi da convenienze spicciole, o nella peggiore dalla prevaricazione e dallo sfruttamento. Occorrerebbe dare priorità ai diritti umani delle popolazioni, all’ascolto delle esigenze esistenti, all’approntamento di aiuti idonei, a una collaborazione leale imperniata sul riconoscimento della parità di status e sulla legittimazione reciproca.

L’UE, che comprensibilmente si è molto dedicata al suo fronte orientale, dovrebbe ridare priorità anche alla cooperazione euromediterranea e al suo spirito [3]. Per poter tornare protagonista il Mediterraneo dovrebbe non dico parlare con una voce sola (cosa irrealistica e forzata), ma almeno esprimersi secondo una convergenza di intenti tra i popoli che lo compongono. Sarebbe un modello per il resto del mondo. Non è impossibile. Anzi, sarebbe urgente e doveroso. Il che però non garantisce affatto che le cose andranno così. 

Dialoghi Mediterranei, n.72, marzo 2025 
Note
[1] Al riguardo, oltre a noti lavori come quelli di Braudel o Matvejević, le acute considerazioni di Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 1996.
[2] Rinvio a La Spina, “Paesi comunitari mediterranei, periferia dell’Europa?”, Aggiornamenti sociali, 5, 1998; Id., “Paesi mediterranei non comunitari e Unione Europea”, Aggiornamenti sociali, 7-8, 1998; Id., “Verso il 2010: sfide e opportunità per la politica euromediterranea”, Quaderni di Alveare, 3, 2007; Id., “Barcellona e la politica euromediterranea”, in Mediterraneo: confine o ponte? Dopo Barcellona 1995, Cattedra Rezzara di studi sul Mediterraneo, 2014.
[3] Una proposta – cui potrebbe dare un decisivo impulso l’UE – pensata per soccorrere i paesi afflitti da una diffusa indigenza, gran parte dei quali si trovano in Africa, è in La Spina, Il contrasto alla miseria globale, Roma, Armando, 2021.

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Antonio La Spina, attualmente pensionato, è stato professore ordinario alla Luiss “Guido Carli”, Roma (in precedenza nelle università di Palermo e Messina). Alla Luiss ha insegnato, tra l’altro: Sociology, Analisi e valutazione delle politiche pubbliche, Sociologia del diritto, della devianza e del crimine organizzato, Politiche sociali e del lavoro, Politiche della sanità. Tra i suoi libri più recenti: Il contrasto alla miseria globale, Armando; The Politics of Public Administration Reform in Italy (con S. Cavatorto), Palgrave Macmillan; Cultura civica e insegnamento religioso (con G. Frazzica e A. Scaglione), Rubbettino. Ha partecipato con diversi ruoli e responsabilità a esperienze di studio applicato e attuazione concreta della valutazione delle politiche pubbliche in sede nazionale, subnazionale, di Unione Europea.

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