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Un ostinato in patria alla prova della fuga

Ganci (ph. Enrico Palma)

Vizzini (ph. Enrico Palma)

di Enrico Palma 

Una delle cose che mi colpiscono profondamente dell’oggi così apparentemente soddisfatto, ma in verità più inquieto e angosciato di prima, è la mancanza di un sentimento posto a governare la propria esistenza, o, se guardiamo alla cosa in modo più radicale e sensibile ai cambiamenti epocali, il suo dissolvimento. Mi riferisco alla assoluta mancanza di qualunque sentimento di appartenenza, di coesione sociale e ambientale, di scavo storico nel luogo in cui si è cresciuti, di uno spirito di custodia e di salvaguardia che dovrebbe indurci a difendere, come un albero con le sue radici, la solidità del terreno sul quale mettiamo i piedi. Tuttavia, piuttosto che discutere di un sentimento forse si dovrebbe parlare di un più reale e concreto fenomeno sociale, di quelle macro-dinamiche che solo con un grande sforzo di astrazione si riescono a cogliere in tutte le loro cause, conseguenze e diramazioni.

Ma contestualizziamo il discorso. Il fiore della gioventù è la premessa di qualunque fruttificazione del futuro. Su di essa dovrebbe riversarsi la fatica collettiva di ciò che si compie oggi, in un tipo di progettualità che faccia della garanzia giovanile il suo stendardo. Eppure, con enorme tristezza, almeno ai miei occhi pare chiara l’affermazione del suo opposto. Il fiore della gioventù è molto simile a quei pappi che, non appena i petali siano pronti a staccarsi, al primo alito di vento più forte e sostenuto prendono il volo per disseminarsi in altri luoghi. E si sa che in Sicilia – qui ci troviamo – il vento che soffia più di frequente è proprio lo Scirocco, il vento caldo spirante dal Sud e che rende il nostro clima assai più gradevole di quello di molte altre regioni europee e mediterranee. Tale vento è più sostenuto che in passato, e se spira troppo forte, come di fatto sta avvenendo, rischia di trascinare con sé molto più del dovuto. Osservo, infatti, da anni e anni questo vento inesorabile portare con sé il cosiddetto “fiore della gioventù”.

Uscendo dalla metafora poetica, credo che un’immagine più corrispondente al vero sia quella di un corpo ferito, che langue da decenni, al quale ogni giorno e con regolarità, come un supplizio inflitto ai titani del mito, gli viene sottratto del sangue. Questo corpo è la Sicilia, e il sangue è quello della gioventù. Troppo gliene è stato tolto, sicché, quando a un corpo malato gli vengono sottratti i principi più vitali, non riesce a lottare con l’energia necessaria contro i mali che lo attanagliano: non potendo più contare sui naturali anticorpi che dovrebbero invece tenerlo in armonia, con ciò lo si priva di ogni possibilità di guarigione. Quello a cui mi sembra di assistere è un salasso per nulla salutare, un’emorragia inarrestabile del sangue buono. Un corpo che, se ancora in grado di mantenersi in equilibrio tra la malattia e la morte, evita la seconda rendendo la prima permanente.

Credo che sia un fatto di per sé abbastanza evidente che la Sicilia stia diventando, con l’accelerazione impressa in questi ultimi anni, uno di questi corpi moribondi: basta girarsi intorno e vedere le strade sempre più vuote, le classi ridursi, le aule universitarie desertificarsi. Se le ultime possono godere di un effetto scia non ancora giunto al culmine per questioni prettamente generazionali, il danno maggiore lo si registra nondimeno proprio lì, quando una buona percentuale di laureati e di formati in università siciliane abbandona la sua terra d’origine per trovare un lavoro e una sistemazione altrove.

Realmonte, Scala dei Turchi (ph. Enrico Palma)

Riserva Punta Bianca, Agrigento (ph. Enrico Palma)

Per me, ragazzo di provincia vissuto in un piccolo paese, la situazione appare drammatica. Se il riferimento al corpo esangue e moribondo era abbastanza crudo, la percezione che ho è molto vicina a quella di un campo di guerra, in cui chi vi resta assume sempre più i tratti di un reduce, di un sopravvissuto. Ma sopravvissuto a cosa? Appunto alla grande emorragia, che se è stata ben presente negli anni passati (penso agli imponenti flussi migratori degli anni Sessanta e Settanta verso i continenti oltreoceano) nel nostro secolo mi appare persino più forte e per certi aspetti anche definitiva. Se faccio alcuni conti, tra le ultime due classi di scuola che ho frequentato (medie e superiori) noto che più del 70% dei miei ex-compagni non è più in terra siciliana, sparsi per lo più nel resto d’Italia, soprattutto nelle grandi città del Nord (Milano, Torino, Bologna). E lo stesso dicasi per il gruppo universitario (la colleganza). Si tratta di persone che ricoprono adesso, all’indomani del compimento degli studi, buone (se non ottime) posizioni lavorative e con la minima intenzione di scendere nuovamente in Sicilia. La più parte dei ragazzi della mia generazione, che non fossero in qualche modo legati a me da qualche parentela scolastica, ha comunque seguito lo stesso destino.

Le città del Nord sono più attrattive, più pulite, più solidali, più generose da un punto di vista lavorativo, più ricche di occasioni, svago, cultura, tempo libero, manifestazioni sportive, concerti, infrastrutture. Posta allora a uno di questi esuli/fuggitivi la domanda suona sempre la stessa: saresti rimasto qui se avessi avuto possibilità di lavoro? La risposta, nella maggior parte dei casi, è secca e anche molto scontata: no. Molte volte, anche a seguito di alcune visite nelle loro città e dei loro racconti, del loro sincero entusiasmo che spesso faceva breccia sulla mia diffidenza da meridionale incallito, ho tentato di individuare una risposta in me stesso piuttosto che in loro, di trovarla nei sentimenti che si provano stando in Sicilia tentando di registrarli sine ira et studio. Perché sono andati via?

Credo che la risposta, almeno per i miei riguardi, possa essere trovata in una parola sola: stanchezza. Una forte stanchezza che si protrae intensificandosi giorno dopo giorno. Un sentimento assai pericoloso, invero, perché alla lunga finisce per intorpidire lo spirito e paralizzare il desiderio, talché ciò che prima non sembrava tollerabile magari adesso lo è, decretando con questo il soverchiare del mondo sul sé. Ma stanco di cosa? Sono stanco della sporcizia perenne delle città siciliane, montagne di spazzatura che sembrano sfidare la torre del famoso racconto biblico eretta per raggiungere Dio; di vedere spacciatori a ogni angolo; di assistere a uno scippo almeno una volta ogni due mesi o di sentirne il racconto da altri; di dover dare l’euro al parcheggiatore per uscire il sabato sera se no a fine serata o mi rigano la macchina o massacrano lui di botte per non aver raggiunto la cifra; di vedere edifici antiestetici, abusivi e fatiscenti in ogni dove; di passeggiare in strade appiccicose rese tali da ogni tipo di liquame; di andare su trazzere di campagna in piena autostrada (quando ci sono); di considerarmi un privilegiato se ho un’occupazione; di considerare l’intellettuale o chi abbia la cosiddetta cultura a cuore come un animale raro; di vedere il proliferare di centri scommesse e di estetica della persona come le attività commerciali più produttive; di uscire dall’oasi felice della mia università e di sentirmi catapultato in una giungla selvaggia.

Selinunte (ph. Enrico Palma)

Tempio di Minerva, Agrigento (ph. Enrico Palma)

Certi giorni sono stanco persino di provare questa stessa stanchezza, rendendomi conto di quanto sia grave, tossico e letale questo stato d’animo, perché significa che mi trovo già nell’anticamera alla rassegnazione. Che ci vuoi fare? mi dico. E allora mi abbandono a quel tipico sentimento siciliano, un misto di fatalismo e tristezza, che escogita per il nunc stans ogni tipo di giustificazione, prendendo il male semplicemente per quello che è, inemendabile. Mi dico allora che hanno fatto bene quegli altri a partire, ad andarsene, a fuggire. A prendere come guida esistenziale la battuta di Romeo nel dramma shakespeariano: «I must be gone and live, or stay and die [Debbo partire e vivere, o restare e morire]»[1].

Con tutto ciò si vuole però, vedendo la luna dal suo lato d’ombra, urlare al tradimento? Prendersela con chi ci ha lasciati per perseguire una vita migliore, più soddisfacente e appagata? Probabilmente, l’emorragia di cui parliamo è inscrivibile in un processo molto più grande di noi, che trova una delle sue ragioni nei consueti spostamenti migratori di massa che hanno sempre avuto echi e riverberi nella storia. Come durante il Medioevo si aveva il cosiddetto inurbamento, lo spostamento massiccio di popolazione dalle zone rurali alle città, adesso i cittadini delle regioni periferiche dell’Europa (per limitarci al nostro caso) si stanno muovendo verso le grandi aree metropolitane, più industrializzate e quindi più servite da quelle che Ortega y Gasset chiamava le altezze dei tempi [2].

Sembra quasi che la Sicilia e tali periferie del mondo ultra-industrializzato stiano diventando lentamente delle regioni soltanto feriali, dove trascorrere i periodi di vacanza e in cui si torna per le festività natalizie e i proverbiali quindici giorni d’agosto per prendere il sole e godersi il mare. Una terra ridotta a parentesi della buona stagione.

L’involuzione del nostro territorio ha però dei motivi ben più seri. È presumibile che la più parte delle persone che decide di andare, per scelta o mancanza di scelta, sia quella più intellettualmente dotata e soprattutto (perché la prima da sola non basta) provvista della dedizione, della pazienza e della tenacia che la spinge a migliorare le sue condizioni materiali e spirituali. A cui bisogna aggiungere, alla percezione della stanchezza e spesse volte persino della ripulsa, la presenza ostinata, e dal mio punto di vista necessaria, dell’aspettativa, del sogno, dell’aspirazione – cose che vanno ben al di là di tutto il resto. Ma il profilo che stiamo cercando di concettualizzare è quello dell’ostinato in patria, chi riesca a superare la rassegnazione e a realizzare l’aspirazione qui, in questa terra, chi viva la Sicilia come la scelta di vita migliore e l’esaudimento di una vocazione.

Il serio rischio, in molti contesti divenuto una minaccia, si coglie anche in quella dimensione politica in cui è possibile vedere il manifestarsi del regresso intellettuale, civile e spirituale che la fuga shakespeariana dei giovani siciliani giocoforza finirà per aggravare ancora di più. Laddove i migliori se ne vanno, la gestione delle cose va in mano a quelli che restano, una buona parte dei quali (possiamo presumere anche quelli di valore) spesso si guarda bene dall’avvicinarsi alle decisioni pubbliche o peggio riconosce che non ne vale la pena e si astiene. La sapienza a disposizione della gestione del territorio diviene sempre più povera: parliamo quindi di una classe politica di casta a cui interessa elettoralmente di mantenere certe situazioni prospere di voti facilmente gestibili, che fa apparire il diritto al lavoro come un privilegio o che, limitata intellettualmente in modo palese, riesce con fare populistico ad avere la meglio, poiché la platea a cui si rivolge e dalla quale emerge è priva anche dei più elementari filtri con cui respingerla. Il regresso, naturalmente, non è limitato alla politica, di cui è semmai il riflesso deteriore, ma è generalizzato, sicché il destino di questa terra appare se non segnato almeno problematico, e in modo preoccupante.

L'Annunciata di Antonello (ph. Enrico Palma)

L’Annunciata di Antonello (ph. Enrico Palma)

I suoi abitanti dicono che la Sicilia è la terra più bella del mondo: una frase vuota, in realtà, se ritenuta priva della credenza e dell’impegno esistenziale volti a riconoscerla come tale e della seria convinzione per applicarla nel concreto della vita. I grandi scrittori siciliani parlavano dell’Isola come di una metafora dell’umanità in generale, delle eterne passioni che governano l’uomo, forse una metafora che incarnata nei suoi figli più avveduti e più dotati può sperare di attecchire in altre forme. Se c’è un antidoto a tutto questo, forse va ricercato negli attimi di maggiore bellezza che la Sicilia possiede, terra natale o ospite di Platone e Archimede, Antonello e Caravaggio, Majorana e Pirandello.

Penso allora a una nota abbastanza dolente di Giovanni Verga – un ricordo che mi viene dalle letture scolastiche, dai tempi di quelle medie in cui ancora i miei coetanei erano tutti qui e il futuro non era per niente immaginabile come così diasporico – in cui lo scrittore dice: «Se non fossi mai uscito di Sicilia sarei rimasto uno zero» [3]. È andato, è vero, e la sua storia è nota, ma vi ha fatto ritorno con la consapevolezza e l’arte per immortalare un mondo e una tradizione di cui siamo eredi e chiamati a vivificare il lascito, quella potenza del sentimento siciliano in cui l’umanità assume una delle sue manifestazioni più acute.

L’auspicio è dunque che non sia più il ricordo nostalgico di una parte trascorsa della nostra esistenza, ma una promessa per il futuro, il quale diventa più vero se penetriamo nella terra che è dentro di noi, nel mare che tange le coste e le spiagge della nostra pelle, nel raggio di sole che è la salvezza della vita e rispetto a cui la Sicilia, ombelico del Mediterraneo, non ha pari. Accogliere insomma la consapevolezza e la responsabilità che il nascere in lei ha posto nella trama di tempo e desiderio con cui dovremmo immaginare il nostro destino.

Ganci (ph. Enrico Palma)

Vizzini vista da monte Altore (ph. Enrico Palma)

Si tratta anche di riflettere seriamente sul tipo di esistenza che sta venendo letteralmente soppiantata dalle disparità economiche e di ricchezza, per cui una vita in Sicilia, laddove sia compatibile con i desideri e le scelte di ciascuno, rappresenta ancora una possibilità sensata. Una Sicilia lontana dalle città alienanti che divorano il tempo esistenziale, in cui si sconosce quell’attardamento tipicamente siciliano che costituisce una delle risposte più filosofiche alle sofferenze della vita. Significa, inoltre, onorare le vite di coloro che l’hanno data contro le mafie e i soprusi affinché questa terra potesse essere un po’ più sana, vivibile, giusta e meno dolorosa, e per i quali il vivo ricordo nell’applicazione della legalità fuori dall’Isola magari è troppo poco, forse anche un insulto alla loro memoria.

Si tratta di una Sicilia in cui la luce mediterranea, la declinante sapienza popolare fondata sulla solidità delle relazioni amorose e familiari, la forza della terra e l’orizzonte del mare, possono fermare l’emorragia con un ritrovato sentimento di filiazione, di accudimento verso chi ci ha messi al mondo così dolenti, e proprio per questo così saggi.

Una mia amica, condividendo pensieri deboli e forti sentimenti, concludeva una discussione su questo argomento con queste parole: «Non è colpa nostra». Credo che abbia ragione, ed è su questa colpa che bisogna seriamente interrogarsi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Note
[1] W. Shakespeare, Romeo e Giulietta (Romeo and Juliet), Atto III, Scena V, Mondadori, Milano 2001: 160 (la traduzione è mia).
[2] Il riferimento è ovviamente a J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse (La rebélion de las masas, 1929), trad. di S. Battaglia e C. Greppi, SE, Milano 2011.
[3] G. Verga, Lettere alla famiglia (1851-1880), a cura di G. Savoca e A. Di Silvestro, Bonanno, Acireale 2011: 155, lettera da Firenze alla madre del 14 luglio 1869. 

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Enrico Palma, attualmente dottorando di ricerca in “Scienze dell’Interpretazione” presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, il suo progetto verte su un’ermeneutica filosofica della Recherche proustiana (tutor: Prof. A.G. Biuso; coordinatore: Prof. A. Sichera). Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni per varie riviste, con contributi di filosofia ed ermeneutica («Vita pensata», «Discipline filosofiche», «InCircolo», «Il Pequod», «E|C»), letteratura («Diacritica», «SigMa», «Siculorum Gymnasium», «Oblio») e fotografia («Gente di fotografia»). Fondatore e redattore della rivista culturale «Il Pequod», le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica e l’ermeneutica letteraria.

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