Papa Francesco, che si è detto «venuto quasi dalla fine del mondo», non cessa di stupire sia per quello che dice sia per quello che fa. Avviare le celebrazioni dell’Anno Santo da lui promosso con l’apertura della Porta della cattedrale di Banqui, la “sperduta” capitale della “sperduta” Repubblica Centro Africana, ha segnato una ulteriore svolta nella gestione del potere nella Chiesa. In continuità, certo, con la valorizzazione del Sinodo appena concluso, ma con ben più alto valore simbolico. Anche avviare concretamente la collegialità nella gestione del potere nella Chiesa consolidando la sinodalità è stato infatti un atto fortemente innovativo, ma aveva precedenti che permettevano di inserirlo, pur non senza difficoltà, nella tradizione seppure in una prospettiva di rinnovamento.
Se si riflette sull’origine e la natura dell’Anno giubilare nella storia della Chiesa si coglie non tanto la rottura con una tradizione, quanto la sconfessione di una concezione del Primato papale che con esso si era voluta simboleggiare. Era stato papa Bonifacio VIII ad offrire la fruizione di indulgenze particolari a chi veniva a Roma per attraversare la Porta santa, in contrasto con la Perdonanza istituita da Papa Celestino V sei anni prima con la Bolla del Perdono. Questa concedeva l’indulgenza plenaria a tutti i confessati e pentiti a chi si fosse recato nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio nella città dell’Aquila, tra il 28 ed il 29 agosto. Più a lungo, una settimana, durava il tempo di quella concessa alla diocesi di Atri.
Con il Giubileo del 2015 si torna, invece, alla decentralizzazione con il riconoscimento del valore di tutte le altre chiese locali nelle quali, infatti, le Porte sante delle rispettive cattedrali sono state aperte nella domenica successiva alla cerimonia romana. Resta al papa la potestà di indire l’Anno Santo, ma ai vescovi la funzione di creare nelle loro diocesi la possibilità di fruire delle indulgenze con esso concesse.
«Il Papa non stia, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il collegio episcopale come vescovo tra i vescovi» ha proclamato papa Francesco! Questa istanza di riproporre in modo più evangelico il governo della Chiesa è stata alla base della ricercata concomitanza della sua indizione con la conclusione, cinquant’anni fa, del Concilio Vaticano II. «Varcando la Porta Santa vogliamo anche ricordare un’altra porta che, cinquant’anni fa, i Padri del Concilio Vaticano II spalancarono verso il mondo», lo ha detto Papa Francesco, ricordando che «il Concilio è stato un incontro: un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo. Un incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario». Proprio a contrastare questo suo impegno a realizzare il Concilio, mira, secondo il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, la resistenza che le componenti conservatrici della gerarchia oppongono all’opera riformatrice di Francesco: «Attaccano Francesco per colpire il Concilio».
Per di più, il Vaticano II ha segnato« la ripresa di un percorso per andare incontro a ogni uomo là dove vive: nella sua città, nella sua casa, nel luogo di lavoro? dovunque c’è una persona, là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare la gioia del Vangelo». In questa funzione missionaria della Chiesa tutti i suoi membri devono essere coinvolti in uno sforzo costante nel partecipare alla creazione di un società giusta in cui la ricchezza sia distribuita in modo da evitare la scandalosa divisione fra ricchi e poveri in cui capitalismo e profitto non si trasformino in idoli. «Se invece domina l’ambizione sfrenata di denaro, e il bene comune e la dignità degli uomini passano in secondo o in terzo piano, se il denaro e il profitto a ogni costo diventano un feticcio da adorare, se l’avidità è alla base del nostro sistema sociale ed economico, le nostre società sono destinate alla rovina. Gli esseri umani e l’intero creato non devono essere al servizio del denaro: le conseguenze di quanto sta accadendo sono sotto gli occhi di tutti».
Questo messaggio, ripetuto in varie sedi, che mette la lotta alla povertà al centro del suo pontificato, e la testimonianza dell’interpretazione del primato petrino in termini di servizio, coniugati con- giuntamente all’interno del rilancio del processo di rinnovamento avviato dal Concilio, indicano la prospettiva nella quale continua a muoversi papa Bergoglio. Egli ben conosce le difficoltà di tale rinnovamento e si muove nella convinzione che tocca a lui, primo Papa a non aver preso parte al Vaticano II, fare della realizzazione e attualizzazione della primavera conciliare la linea strategica del suo pontificato: il Concilio costituisce il suo vero programma e il suo magistero va interpretato e vissuto alla luce del Vaticano II.
Significativa in questa prospettiva la scelta di non seguire le indicazioni della Congregazione per i vescovi nella nomina dei pastori di due importanti diocesi italiane: Bologna e Palermo. Si tratta di preti impegnati nella pastorale: il primo vescovo ausiliare a Roma, il secondo parroco a Noto. Quest’ultimo, Corrado Lorefice, nel discorso d’insediamento ha citato Dossetti, per giustificare l’attenzione alla Costituzione, e ha dichiarato di ispirarsi a don Puglisi: è un segno che la lezione è stata compresa e che una nuova generazione di vescovi comincia ad affacciarsi. Vuole vivere
«una Chiesa ministeriale sulla scia della proposta cristiana del Beato Pino Puglisi con la ferma intenzione di accogliere tutti, dialogare con tutti. Non possiamo ignorare, come comunità diocesana, la drammatica e dolorosa crisi che i nostri tempi stanno attraversando su più fronti. Contribuiremo a favorire una cultura dell’accoglienza, della legalità, della crescita del bene comune …. Credo che la nostra bussola debba essere la Costituzione della Repubblica italiana. Quell’articolo 3 che ognuno è chiamato a rendere reale nella vita di ogni giorno Per realizzare tutto questo, Palermo ha un’energia speciale, quella della testimonianza di tutti gli uomini che hanno effuso il loro sangue per creare una convivenza umana».
Sulla stessa lunghezza d’onda si è espresso nel suo primo messaggio di saluto alla diocesi bolognese Matteo Maria Zuppi che, citando le parole di monsignor Romero – «il vescovo ha sempre molto da apprendere dal suo popolo» – si è impegnato a «andare assieme per strada, senza borsa e bisaccia, con l’entusiasmo del Concilio Vaticano II, per quella rinnovata pentecoste che Papa Benedetto si augurava».
Con questa Chiesa così rinnovata papa Francesco intende contribuire a promuovere giustizia sociale, buona amministrazione e fratellanza fra i popoli. Sono temi ricorrenti nei suoi frequenti interventi pubblici inseriti in analisi e denunce delle condizioni climatiche, sociali e politiche del pianeta. A Firenze, in occasione della settimana dei cattolici italiani, ha sferzato i vescovi a dialogare ricordando che è cosa ben diversa dal negoziare per ricavare spazi di agibilità e di condivisione del potere, e che «il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. E senza paura di compiere l’esodo necessario a ogni autentico dialogo». Se nel dialogo nasce il conflitto, questo come tale va accettato sapendo però che «la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’Ecce homo di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva».
Bisogna cercare il bene comune per tutti impegnandosi in politica perché «la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose di carità, perché cerca il bene comune». Lo aveva già detto Paolo VI, ma Francesco entra nel merito chiamando tutti ad un proprio specifico impegno. L’appello vale, infatti, sia per i politici di professione: «Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri»; sia per i singoli cristiani nella vita civica, professionale e sociale chiamati ad agire, non da soli ma insieme agli altri, ispirandosi al principio che «la vita di ogni comunità esige che si combattano fino in fondo il cancro della corruzione e il veleno dell’illegalità».
Lui stesso del resto non rinuncia a fare politica. Emblematico il suo viaggio in Africa come emerge dal resoconto che ne fa lui stesso ai presenti a Roma all’udienza generale subito dopo il suo rientro, in cui racconta con grande semplicità i suoi intereventi associandoli alla puntuale pur sintetica descrizione delle situazioni che ha trovato. «Nei giorni scorsi ho compiuto il mio primo Viaggio apostolico in Africa. È bella l’Africa! Rendo grazie al Signore per questo suo grande dono, che mi ha permesso di visitare tre Paesi: dapprima il Kenia, poi l’Uganda e infine la Repubblica Centrafricana». In Kenia, «Paese che rappresenta bene la sfida globale della nostra epoca: tutelare il creato riformando il modello di sviluppo perché sia equo, inclusivo e sostenibile», ha rilevato che nella sua capitale Nairobi, la più grande città dell’Africa orientale, «convivono ricchezza e miseria» ha denunciato con forza: «ma questo è uno scandalo! Non solo in Africa: anche qui, dappertutto. La convivenza tra ricchezza e miseria è uno scandalo, è una vergogna per l’umanità».
Non usa mezzi termini il papa ma non semina disperazione perché al tempo stesso esorta i cattolici: «Siate saldi nella fede, non abbiate paura». Questo è stato il motto della visita in Uganda dove ha particolarmente insistito su questa responsabilità cosicché, come lui stesso conferma, «tutta la visita in Uganda si è svolta nel fervore della testimonianza animata dallo Spirito ….Tutta questa multiforme testimonianza, animata dal medesimo Spirito , è lievito per l’intera società, come dimostra l’opera efficace compiuta … nella lotta all’AIDS e nell’accoglienza dei rifugiati».
Nella Repubblica Centro Africana è meglio emersa, invece, la sintesi fra impegno nella Chiesa e nella società perché le sue parole erano rivolte a chi non ha ancora maturato la consapevolezza di essere cittadino/a con pari diritti ed è sollecitato a difendere/affermare solo la propria appartenenza come unica garanzia di vita. Qui infatti ha dovuto scontrarsi con il problema della pace religiosa perché il confronto fra musulmani e cristiani, cattolici e non, s’innesta, diventando scontro, nei conflitti tribali e sociali che insanguinano il Paese. Nel discorso pronunciato durante la visita nella moschea di Koundouko ha raccomandato: «Restiamo uniti perché cessi ogni azione che da una parte o dall’altra sfigura il volto di Dio e ha in fondo lo scopo di difendere con ogni mezzo interessi particolari, a scapito del bene comune….. Insieme diciamo no a odio, violenza, vendetta, in particolare quella in nome di una fede o di un Dio». In questa prospettiva, ha dichiarato nel presentare i risultati del suo viaggio, di aver voluto «aprire proprio là, a Bangui, con una settimana di anticipo, la prima Porta Santa del Giubileo della Misericordia, come segno di fede e di speranza per quel popolo, e simbolicamente per tutte le popolazioni africane le più bisognose di riscatto e di conforto. L’invito di Gesù ai discepoli: “Passiamo all’altra riva” (Lc 8,22), era il motto per il Centrafrica. “Passare all’altra riva”, in senso civile, significa lasciare alle spalle la guerra, le divisioni, la miseria, e scegliere la pace, la riconciliazione, lo sviluppo».
Questa idea del Giubileo della misericordia come concreta accoglienza delle persone in difficoltà farà recuperare all’Anno Santo parte delle proprie caratteristiche bibliche originarie, cioè l’impegno a ristabilire la giustizia sociale fra gli abitanti di Israele, soprattutto gli oppressi e gli emarginati, sminuendo la funzione di esaltazione del centralismo romano e del papato. Ancor più significativo esso diventa in questo momento in cui tale centralismo è screditato dal nuovo scandalo provocato dalla pubblicazione di documenti riservati, legittima pur se frutto dell’infedeltà di persone chiamate dallo stesso papa ad esercitare una delicata funzione ispettiva. Il papa le ha rinviate a giudizio, ma la sua immagine di riformatore ne resta offuscata.
Un’altra ombra l’ha stesa la scarsa affluenza di pellegrini, italiani e stranieri, a Roma in piazza San Pietro nel giorno dell’apertura della Porta Santa. È certo un frutto anche del clima di paura diffusa dopo gli attentati di Parigi del 13 settembre, rafforzato dall’ostentazione delle misure di ordine pubblico dei nostri governanti. Ma resta il sospetto che proprio l’indizione dell’Anno Santo abbia segnato un cambiamento nella fiduciosa disponibilità dei cattolici nei confronti di papa Francesco. Il procedere dell’Anno Santo, con la frequenza alle iniziative romane ad esso collegate, darà la misura di questo cambiamento.
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
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Marcello Vigli, partigiano nella guerra di Resistenza, già dirigente dell’Azione Cattolica, fondatore e animatore delle Comunità cristiane di base, è autore di diversi saggi sulla laicità delle istituzioni e i rapporti tra Stato e Chiesa nonché sulla scuola pubblica e l’insegnamento della religione. La sua ultima opera s’intitola: Coltivare speranza. Una Chiesa altra per un altro mondo possibile (2009).
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